Si può essere più avidi e infidi del nanetto Tremotino? Forse no…
Tremotino è una famosa fiaba raccolta in diverse versioni dai fratelli Grimm, e lo strano ometto è presente anche nel film “Shrek e vissero felici e contenti” come uno degli antagonisti.
Questa fiaba narra di come l’avido Tremotino aiuterà la povera Elga solo in cambio di continui doni e promesse. Ma non tutto andrà come lui avrebbe voluto…
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Tremotino!
C’era una volta un povero mugnaio, era vedovo e viveva con la sua figliola che si chiamava Elga.
Un giorno capitò al suo mulino il re e il mugnaio, per ingraziarselo e vantarsi un po’, gli disse: – Ho una figlia che sa tramutare la paglia in fili d’oro. Il re, stupito, disse al mugnaio: – Se tua figlia è veramente capace di trasformare la paglia in fili d’oro, portala al mio castello, e io la metterò alla prova.
Il mugnaio, colto di sorpresa, non si azzardò a contrariare il re e, seppur a malincuore, condusse Elga al castello. Il re fece rinchiudere la ragazza in una stanza ricolma di paglia e le disse: – Ora mettiti al lavoro, se non avrai trasformato questa paglia in oro entro domani mattina, ti farò passare a miglior vita.
Elga rimase sola. Non sapeva cosa fare, men che meno come si potesse trasformare la paglia in oro e, per la disperazione, si mise a piangere.
Improvvisamente, da una fessura nel muro della stanza, entrò un ometto che disse: – Buonasera fanciulla, perché piangi così tanto? – Devo trasformare la paglia in oro e non so come fare! – disse la ragazza in lacrime. – Se io ti aiuto, cosa mi darai in cambio? – La mia collana! – disse Elga senza pensarci.
L’omino prese la collana e se la mise in tasca. Dopodiché prese tra le mani alcune manciate di paglia, le sfregò ben bene e ripose per terra un mucchietto d’oro.
Elga non credeva ai propri occhi. Il piccolo ometto andò avanti così per tutta la notte, finché all’alba tutta la paglia fu tramutata in oro. L’omino fece quindi un inchino a Elga e, come era apparso, scomparì nella fessura del muro.
Poco dopo arrivò il re e, quando vide tutta la paglia trasformata, ne rimase stupito e deliziato, ma il suo cuore divenne ancora più avido di oro. Fece portare Elga in un’altra stanza piena di paglia, molto più grande della precedente, e le ordinò di trasformarla tutta in oro entro il giorno seguente, se ci teneva alla vita.
La ragazza non riuscì a trattenersi dal piangere. Poi come la notte precedente, da un’altra fessura del muro riapparve l’omino che le disse: – Se io ti aiuto, cosa mi darai in cambio? – Il mio anello! – rispose Elga disperata.
L’omino prese l’anello, iniziò a canticchiare e si mise al lavoro. Alle prime luci del mattino aveva trasformato tutta la paglia in oro scintillante. Finito il lavoro l’omino fece un inchino a Elga e sparì di nuovo.
Il re fu felicissimo di trovare ancora tutta quella paglia trasformata in oro, ma non era ancora soddisfatto, ne voleva ancora di più. Fece portare la figlia del mugnaio in una stanza ancora più grande con ancora più paglia e disse a Elga: – Se tramuterai anche tutta questa paglia in oro, allora ti sposerò e diventerai regina! – “anche se è la figlia di un mugnaio”, pensò, “non troverò una donna al mondo che mi possa rendere più ricco.”
Quando la ragazza fu sola, l’ometto tornò per la terza volta e le disse: – Se ti aiuto anche questa volta, cosa mi darai in cambio? – Non ho più nulla da darti… – rispose in lacrime Elga. – Allora promettimi che, quando sarai regina, mi affiderai il tuo primo figlio! – disse l’ometto. Elga, non sapendo che altro fare, promise che avrebbe rispettato il patto.
L’omino allora trasformò di nuovo tutta la paglia in oro, e quando il re al mattino dopo trovò tutto come aveva desiderato, mantenne la sua promessa: sposò la bella figlia del mugnaio e Elga divenne regina.
Un anno dopo Elga partorì un bel bambino. Si era completamente dimenticata della promessa fatta all’omino, ma, il giorno successivo, lui le si presentò davanti dicendo: – Ora dammi ciò che mi hai promesso! – e cercò di afferrare il piccolo.
Elga si spaventò – ti offro tutte le ricchezze del regno, ma lasciami il mio bambino! – No! Un bambino è uno dei tesori più importanti al mondo.
Elga si mise a piangere disperata stringendo forte a sé il piccolo. A quella scena l’omino ebbe un moto di compassione e le disse: – Ti darò tre giorni per stare con tuo figlio e ti do una possibilità: se per allora indovinerai il mio nome, potrai tenerlo con te – e svanì nel nulla.
Per tutta la notte Elga non dormì tentando di ricordare tutti i nomi sentiti nella sua vita. Mandò anche un messaggero in tutto il reame, per chiedere in lungo e in largo se qualcuno conoscesse l’omino e quale fosse il suo nome. Purtroppo nessuno lo sapeva…
Ma il terzo giorno il messaggero tornò e le disse: – Mia regina, non riuscivo a trovare nessuno che conoscesse il nome di questo omino, finché non sono arrivato su un’alta montagna. Nel folto della foresta ho visto un fuoco ardere davanti all’uscio di una casetta, e intorno al fuoco danzava un ometto bizzarro che cantava così:
“Oggi preparo frittelle e bignè che domani c’è qui il figlio del re perchè non lo sa nemmeno l’indovino che il mio nome è Tremotino!”
Potete solo immaginare la felicità della regina quando udì quel nome, e quando l’ometto si ripresentò chiedendo: – Ebbene, mia signora Regina, come mi chiamo? Lei rispose sicura: – Il tuo nome è Tremotino!
– Com’è possibile che tu lo sappia?! Te l’ha detto il diavolo, te l’ha detto il diavolo! – esclamò l’ometto, e per la rabbia pestò i piedi per terra con tanta forza che si formò una crepa sul pavimento. Senza accorgersene Tremotino cadde dentro la fessura nel terreno, sparendo laggiù, e da quel giorno nessuno lo vide mai più.
La regina Elga e il suo figlioletto invece vissero per sempre felici e contenti.
Se non si abbandona la speranza, la felicità arriva sempre!
La bella addormentata nel bosco è una fiaba antichissima e la sua origine si perde nella notte dei tempi…
E’ arrivata fino a noi attraverso tutti questi secoli e in mille versioni, Charles Perrault e i fratelli Grimm ne hanno scritto una loro versione, e persino Walt Disney col suo film animato del 1959 ne ha voluto dare una sua interpretazione interpretazione.
Scopriamo insieme come Aurora abbia dovuto aspettare per 100 anni il bacio del suo principe azzurro!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Bella addormentata nel bosco!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare la Bella addormentata nel bosco raccontata da Silvia!
La bella addormentata nel bosco 👸 storia completa
C’era una volta un re, che viveva in un magnifico castello insieme alla regina e alla figlia, la piccola Aurora. La bimba era nata da poco e i due sovrani erano così felici, che decisero di organizzare una grande festa per il suo battesimo.
Invitarono anche le fate che abitavano nel bosco, le quali arrivarono cariche di sorprese speciali per la piccola principessa. Fu così che Aurora ricevette in dono bellezza, intelligenza, simpatia e tante altri doti che la rendessero una bambina davvero unica.
Purtroppo, però, il re non aveva invitato alla festa la fata più anziana del regno. Da tempo non si avevano sue notizie e tutti credevano che fosse morta. Non sapevano quanto avrebbero pagato caro questo errore.
La fata venne a sapere della festa e si presentò al castello, più arrabbiata che mai. – Vedo che state festeggiando senza di me – disse con sarcasmo. – E vedo che la principessa ha già ricevuto molti doni. Nessuno si offenderà se le offrirò anche il mio. Così dicendo, alzò la sua bacchetta verso la culla di Aurora e tuonò: – Sarai anche la più bella e la più intelligente di questo reame, ma ciò non ti servirà: prima del tuo diciottesimo compleanno, ti pungerai con l’ago di un fuso per filare e morirai. E la fata svanì, lasciando il palazzo nello scompiglio più totale.
La regina era disperata, mentre il re dava ordine alle guardie di catturare questa fata malvagia. Ma era tutto inutile: di fronte ad una maledizione non si poteva fare nulla.
Si fece però avanti la fata più giovane, la quale cercò di consolare la regina e poi disse: – Non posso annullare la maledizione della fata anziana, non ho tanto potere. Ma posso provare a renderla meno terribile, se me lo permettete. La regina annuì speranzosa, e la fata alzò la bacchetta verso Aurora: – Piccolina, una brutta maledizione ti ha colpito, un fuso ti pungerà ma non me morirai. Cadrai in un sonno profondo finché un principe, baciandoti, ti risveglierà e diventerà il tuo sposo. Il Re e la Regina ebbero un piccolo sospiro di sollievo, perlomeno il nuovo incantesimo della giovane fata aveva allontanato lo spettro della morte dalla bambina.
Fu così che Aurora crebbe felice, amata e circondata da persone che le volevano bene. In tutto il reame però erano stati vietati tutti gli attrezzi per filare: aghi, fusi, arcolai non potevano nemmeno essere nominati, nella speranza che così la maledizione non si avverasse.
Aurora stava ormai per compiere diciotto anni. Mancavano pochi giorni e i suoi genitori avevano deciso di organizzare una sontuosa festa: ormai credevano che il pericolo fosse scampato.
Ma la fata cattiva non poteva permettere che la sua maledizione fallisse. E così, una sera si intrufolò nel castello senza farsi vedere, e fece un piccolo sortilegio che impedì ad Aurora di dormire, rendendola nervosa. La principessa non riuscendo a chiudere occhio, decise di fare una passeggiata nel castello per provare a rilassarsi. Ma, dal fondo di un corridoio, vide una strana luce azzurrognola filtrare da una porta.
Curiosa, si avvicinò per vedere meglio. Entrò nella stanza e si ritrovò davanti una vecchietta che filava la lana usando un misterioso attrezzo: un fuso. Aurora non ne aveva mai visti, e chiese: – Che cos’è? A cosa serve? – Toccalo e ti spiegherò tutto – rispose la vecchietta, che era la fata cattiva travestita. Aurora allungò la mano, toccò il fuso, si punse e… cadde svenuta.
Una risata malefica si levò dalla stanza e svegliò tutti. Il re e la regina accorsero e trovarono solo la loro ragazza svenuta. Disperati, la portarono nel salone delle feste e chiamarono le fate per chiedere loro di fare qualcosa, ma quelle non potevano più nulla: bisognava solo aspettare che un principe passasse di lì e baciasse la principessa.
La fata che aveva addolcito la maledizione, provava molta pena nel vedere il dolore di quei genitori. Decise, quindi, di fare un incantesimo su tutto il castello: tutti avrebbero dormito fino a quando Aurora non si fosse svegliata.
E così fu, per cento anni. Nel castello tutto si fermò, e il bosco prese il suo posto: gli alberi crescevano dappertutto e tanti animaletti avevano fatto lì la loro tana.
Un giorno un giovane principe, durante una battuta di caccia, passò proprio vicino a quel castello che sembrava ormai in rovina. Incuriosito decise di avventurarsi per scoprire cosa nascondeva al suo interno. – Magari sono le rovine di cui parla la leggenda… – si disse. Aveva infatti sentito parlare di una principessa bellissima che giaceva addormentata in un bosco, ma pensava fosse solo un racconto di fantasia.
Iniziò ad esplorare sale e corridoi ormai invasi dagli alberi, finché si ritrovò nel salone delle feste e… non credette ai suoi occhi. Distesi a terra giacevano servitori, dame e cavalieri, tutti profondamente addormentati. Riconobbe il re e la regina dalle loro corone e, in mezzo a loro, vide Aurora. Era bellissima, ancora di più di quanto non narrasse la leggenda. Si avvicinò e pensò: “E’ così bella che non posso resistere: le darò un bacio”, e così fece.
Il principe sobbalzò nell’accorgersi che, dopo il suo bacio, Aurora iniziò a muovere la bocca per poi sbadigliare e aprire gli occhi. Anche il re e la regina e tutte le persone distese a terra iniziarono a svegliarsi e ad alzarsi. Piano piano anche le rovine del castello si ricomponevano e gli alberi sparivano, mostrando tutto il loro splendore originario.
Il principe era frastornato dall’accaduto, non riusciva a capire cosa stava succedendo finché il re non gli prese le mani e gli disse: – Grazie cavaliere, hai salvato mia figlia Aurora da un terribile sortilegio che la teneva addormentata da anni. Qualunque cosa tu desideri, la riceverai come dono in cambio di ciò che hai fatto. Il principe guardò Aurora, già innamorato e disse: – Sono felice di avervi salvato e vorrei tanto poter sposare la principessa Aurora.
Il Re guardò Aurora, che, visti i buoni propositi del principe acconsentì, felice. Le nozze vennero organizzate immediatamente e fu una festa memorabile.
C’erano una volta il Vento e il Sole che iniziarono a litigare su chi dei due fosse il più forte. – Il più forte sono io, che con il mio soffio spazzo via le chiome degli alberi! – esclamava il Vento – No! Il più forte sono io che coi miei raggi brucio le sabbie del deserto! – rispondeva il Sole
Decisero allora di fare una gara per stabilire chi fosse realmente il più forte dei due. – Facciamo così mio caro Sole, vediamo chi per primo riesce a togliere i vestiti a quel viandante – disse il Vento. – Ci sto! – rispose il Sole.
Il vento allora prese a soffiare impetuosamente contro un povero viandante che passava vicino a loro. Ma l’uomo si strinse più forte nelle sue vesti.
Il Vento allora soffiò ancora più forte e più freddo, ma il viandante tirò fuori dalla sua bisaccia un mantello e si coprì ulteriormente. Prova e riprova per il Vento non ci fu nulla da fare…
– Ora, se permetti, vorrei provare io… – disse il Sole mentre il Vento gli cedeva di malavoglia il posto. Il Sole iniziò a splendere timidamente, il viandante sentendo i tiepidi raggi del sole risplendere sul suo viso si tolse la mantella e la ripose nella bisaccia.
Il Sole sorrise e piano piano aumentò l’intensità dei suoi dolci raggi. Il viandante dapprima si allargò il collo della giacca, poi tolse anche quella iniziando a sudare. Il Vento che si vedeva ormai sconfitto, non era per nulla contento.
Il Sole continuò a scaldare il viandante finché questo non si tolse tutti i vestiti, e non appena scorse un fiume lì vicino vi si buttò dentro per rinfrescarsi.
Il Sole fece un largo sorriso nei confronti del Vento, che indispettito per aver perso la scommessa, se ne andò via senza farsi più vedere per mesi e mesi.
Morale: è più efficace convincere le persone con la persuasione e la dolcezza che con la forza.
La principessa Caterina è vittima di un brutto raggiro, ma la buona sorte sarà comunque dalla sua parte.
Questa fiaba dei fratelli Grimm ci accompagnerà nell’avventura di Caterina, principessa derubata del suo ruolo.
Ma con un pizzico di fortuna e di buon senso, verrà aiutata a smascherare l’imbrogliona che aveva preso il suo posto a fianco del principe suo promesso sposo.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della guardiana delle oche!
C’era una volta una vecchia Regina rimasta vedova. Aveva però una bella figlia, Caterina, che aveva ormai raggiunto l’età per sposarsi. Fu quindi combinato il matrimonio con un principe di un paese lontano.
L’anziana Regina preparò un ricchissimo corredo nuziale per la figlia e, per accompagnarla nel lungo viaggio, la affidò ad una delle sue più fidate domestiche.
Ad entrambe diede un cavallo, ma quello della Principessa era speciale, si chiamava Falada e sapeva parlare. Prima di salutarle la Regina prese un fazzoletto bianco, con un coltello si ferì il dito e vi versò sopra delle gocce di sangue, poi lo diede a Caterina. – Tieni figlia mia – le disse – ne avrai bisogno lungo il viaggio – e la salutò.
La Principessa e la domestica si misero quindi in cammino. Dopo circa un’ora di viaggio a Caterina venne sete. – Avrei sete, potresti andare al ruscello qui vicino e prendermi dell’acqua? – chiese alla domestica. – Se avete sete, scendete da cavallo e andate voi stessa a prendervi l’acqua! – rispose stizzita la domestica.
Sorpresa dalla risposta e dal tono, la Principessa, che aveva veramente sete, scese da cavallo e si recò al ruscello per bere. “Se lo sapesse tua madre, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”, mormorarono le gocce di sangue custodite nel fazzoletto. Caterina, che era di buon cuore ignorò la voce, risalì a cavallo e ripartì con la domestica.
Il viaggio era molto lungo e la giornata era veramente calda. Dopo un po’ a Caterina venne nuovamente sete e poco lontano si intravedeva un fiume. – Avrei sete, potresti andare al fiume qui vicino e prendermi dell’acqua? – chiese alla domestica. – Se avete sete, andate voi stessa a prendervi l’acqua, io da serva non vi faccio più! – rispose ancora più stizzita la domestica.
Caterina, con le lacrime agli occhi per il trattamento ricevuto, si incamminò al fiume e bevve. “Se lo sapesse tua madre, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”, mormorarono nuovamente le gocce di sangue custodite nel fazzoletto. La Principessa allora prese tra le mani il fazzoletto per trovare conforto, ma una folata di vento glielo fece cadere tra le correnti del fiume, e il fazzoletto sparì.
La domestica, che era poco distante, vide la scena e se ne rallegrò “ora la Principessa è in mio pieno potere, non c’è più nulla che la protegga!” pensò malignamente. Quando Caterina tornò indietro trovò la domestica in groppa al suo Falada. – Ora il tuo cavallo lo prendo io, e dammi i tuoi vestiti, che all’altare col principe ci andrò io. Se dirai a qualcuno dello scambio e non farai come ti dico, ti ucciderò! – e le mostrò un pugnale che teneva nascosto sotto la giubba.
Caterina, temendo per la sua vita, accettò, ma Falada osservò tutto in silenzio. Le due si scambiarono i vestiti e proseguirono il viaggio.
Arrivarono quindi al castello dove il principe accolse la domestica come se fosse la sua promessa sposa. Mentre Caterina, per decisione del vecchio Re, fu messa a fare la guardiana delle oche insieme ad un ragazzetto di nome Corradino.
La falsa principessa, per paura che Falada rivelasse a tutti cosa aveva fatto a Caterina, ordinò di portare il cavallo al macello: – durante il viaggio si è comportato molto male – disse.
Caterina lo venne a sapere e promise al macellaio alcune monete d’oro se avesse salvato il suo Falada. Lo avrebbe dovuto poi nascondere in una cascina lungo la strada che lei percorreva al mattino e alla sera per far passeggiare le sue oche. Il Macellaio, non vedendoci nulla di male, fece come lei chiedeva.
Il mattino seguente Caterina e le sue oche passarono davanti alla cascina, lei si avvicinò a Falada e lo salutò, ricambiata dal cavallo che sottovoce le disse: – Se sapesse tua madre la Regina cosa ti è accaduto, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore! Ma caterina continuò silenziosamente il suo lavoro di guardiana, insieme a Corradino.
Arrivata al prato vicino allo stagno, Caterina sciolse dal nastro i suoi capelli d’oro. Corradino ogni giorno la guardava incantato, i capelli di Caterina gli piacevano molto e avrebbe tanto voluto aiutarla a pettinarli e a rifare il nodo col nastro. Stava per avvicinarsi quando Caterina, che si era accorta delle attenzioni del giovane, pronunciò delle parole magiche:
Soffia forte venticello porta lontano il suo cappello così che a lungo lui debba cercare e io da sola possa restare.
E all’improvviso ci fu una folata di vento che strappò dalla testa di Corradino il suo cappello, e lui si mise a rincorrerlo per i campi. Quando Corradino tornò, Caterina si era già pettinata e aveva rifatto il nodo ai capelli. Il ragazzo ci rimase molto male.
Il giorno seguente, passarono ancora per la cascina, eCaterina salutò Falada, che sottovoce diceva: “Se sapesse tua madre la Regina cosa ti è accaduto, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”. Intanto, Corradino la seguiva in silenzio aspettando il momento in cui sul prato lei si sarebbe sciolta i capelli.
Ma Caterina pronunciò ancora le magiche parole:
Soffia forte venticello porta lontano il suo cappello così che a lungo lui debba cercare e io da sola possa restare.
Ci fu una folata di vento che strappò dalla testa di Corradino il suo cappello, e lui si mise a rincorrerlo per i campi. Quando Corradino tornò, Caterina si era già pettinata e aveva rifatto il nodo ai capelli. Il ragazzo ci rimase molto male.
E fu così anche il giorno successivo. Corradino, infuriato per via del comportamento di Caterina, andò dal vecchio Re e gli disse che non voleva più custodire le oche insieme a quella ragazza.
Meravigliato, il Re chiese come mai, e Corradino gli raccontò tutto: – Ogni volta che passiamo per la vecchia cascina lei saluta un cavallo, che le risponde sempre “Se sapesse tua madre la Regina cosa ti è accaduto, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”, poi arrivati al prato vicino allo stagno si scioglie i capelli d’oro e arriva sempre una folata di vento che mi fa volare via il cappello, così io devo passare la mattinata a rincorrerlo! Non ne posso più!
Il Re, molto incuriosito, chiese al ragazzo di accompagnare Caterina ancora una volta, poi avrebbe provveduto a sistemare le cose.
Il giorno dopo il Re, volendo capire cosa stesse succedendo, si nascose in un angolo riparato della vecchia cascina e aspettò che arrivassero i due ragazzi. Vide Caterina che salutava Falada, e questo che le rispondeva con le parole “Se sapesse tua madre la Regina cosa ti è accaduto, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”
Insospettito, il Re li seguì a debita distanza fino al prato, dove Caterina si sciolse i capelli. La vide sussurrare delle parole e subito si alzò un forte vento che fece volare via il cappello di Corradino, costringendolo a rincorrerlo. Infine vide la ragazza pettinarsi i capelli e riannodare il nastro. Soddisfatto il Re tornò senza essere visto al castello.
Quella sera Caterina fu convocata dal Re. Quando lei si trovò al suo cospetto, il Re le chiese: – Ragazza mia, come mai parli ad un cavallo che ti risponde “Se sapesse tua madre la Regina cosa ti è accaduto, il suo cuore si spezzerebbe dal dolore!”, e poi pronunci magiche parole che fanno alzare il vento? Colta di sorpresa Caterina rispose: – Non posso dirlo a persona alcuna, ho giurato e se non mantengo la promessa perderò la vita…
Il Re la guardò pensieroso, quando gli balenò per la testa un’idea: – Non puoi dirlo a me nè a nessun’altra persona, ma penso che un forno per il pane potrà ascoltarti volentieri – e condusse la ragazza in cucina dove la invitò a infilare la testa nel forno spento e confidargli tutta la sua storia.
Caterina non sapeva che il forno aveva anche una seconda apertura, dalla quale il Re stava ascoltando ogni parola.Quindi raccontò tutto, dalla partenza del viaggio a come la sua domestica l’aveva trattata e dell’inganno di cui era stata vittima.
Udite quelle parole il Re convocò subito una dama di corte e ordinò di far vestire Caterina come si conviene ad una principessa. Poi chiamò suo figlio e gli rivelò che era stato ingannato anche lui , la sua promessa sposa era solo una domestica, la vera Principessa era Caterina.
Il giovane Principe, affascinato dalla bellezza di Caterina, fu molto felice di non dover sposare quella falsa principessa di una domestica, che oltretutto era antipatica e sempre piena di incredibili richieste.
La domestica fu quindi smascherata e cacciata dal castello, mentre per Caterina e il suo Principe, si preparò la festa per il banchetto nuziale.
Il Soldatino di Piombo si è innamorato della dolce Ballerina ma…
Un perfido diavoletto è molto geloso dei due e cerca di tutto pur di impedire che il loro sogno di amore si realizzi, ma dovrà arrendersi al fatto che l’amore trionfa su tutto!
Questo è il nostro adattamento della famosa fiaba “Il soldatino di stagno” di Hans Christian Andersen, in cui lo struggente finale racchiude in sè un bellissimo messaggio di speranza e amore.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Soldatino di Piombo
C’erano una volta venticinque soldatini di piombo, tutti uguali. La loro uniforme era rossa e blu, imbracciavano il fucile e guardavano dritto davanti a loro.
Quando fu tolto il coperchio della scatola in cui giacevano, le prime parole che udirono in questo mondo furono: – Evviva, i soldatini di piombo! – dette da un bambino che batteva le mani.
Tutto felice il bambino cominciò a sistemarli sulla tavola. Ogni soldatino era esattamente uguale all’altro, tutti tranne uno, a cui mancava una gamba; forse era stato fatto per ultimo quando il metallo ormai stava finendo.
Eppure stava fermo su una gamba sola, come gli altri stavano fermi su due, ed è per questo che attirò subito l’attenzione del bambino.
Sul tavolo però c’erano anche altri giocattoli, tra cui un grazioso castello tutto fatto di cartone. Davanti al castello, sempre ritagliati nella carta, c’erano degli alberelli e vicino al portone una Ballerina, che stava con la gamba sollevata così in alto che sembrava anche lei avere una gamba sola. Ad adornare i suoi capelli di carta c’era una piccola rosellina di metallo dorato.
Una volta fuori dalla scatola il Soldatino di Piombo notò subito la bellissima Ballerina, e se ne innamorò all’istante. “E’ la donna più bella del mondo!” pensò, “ma è così delicata, e vive in un castello, mentre io possiedo solo una scatola con dentro altri ventiquattro soldati uguali a me… devo comunque conoscerla!”
Si nascose quindi dietro una strana scatoletta di legno tutta intarsiata, che stava anch’essa sul tavolo. Da lì poteva osservare la graziosa Ballerina, che continuava a stare su una gamba sola senza perdere l’equilibrio.
Il Soldatino di Piombo non se ne accorse, ma anche la Ballerina lo guardò di sfuggita, rimanendo colpita dal suo aspetto fiero e dignitoso.
Quando fu notte, e tutte le persone nella casa furono andati a dormire, i giocattoli iniziarono a vivere la loro vita, giocando ballando e combattendo.
I soldatini di piombo fremevano nella loro scatola perché volevano uscire anche loro, ma non riuscivano ad alzare il coperchio, gli schiaccianoci giocavano saltando qua e là, mentre i gessetti correvano su e giù per la lavagna di ardesia.
Gli unici due che non si mossero dai loro posti furono il Soldatino di Piombo e la piccola Ballerina. Lei ferma in punta di piedi, con entrambe le braccia tese, lui fermo su una gamba sola, senza mai distogliere lo sguardo dal suo viso.
Il tempo passò, l’orologio a cucù suonò la mezzanotte e d’improvviso, dalla scatoletta intarsiata poggiata sul tavolo, volò via il coperchio: dal suo interno balzò fuori un piccolo diavoletto che si guardò intorno furtivo e, per primo, vide il Soldatino di Piombo.
– Ciao Soldatino di Piombo! – disse il diavoletto – cosa stai guardando con quella faccia imbambolata? – seguì il suo sguardo e si accorse che guardava la Ballerina. Ma il Soldatino di Piombo non fece caso al diavoletto e sembrò non sentirlo proprio.
– Ciao Soldatino di Piombo! – ripeté il diavoletto, ma il Soldatino di Piombo ancora rimase immobile e non disse nulla. – Come osi ignorarmi in questo modo! – disse furioso il diavoletto verso il Soldatino di Piombo – Vedrai domani cosa ti combino, vedrai! E detto questo se ne ritornò nella sua scatoletta intarsiata.
Quando fu mattina, il bambino giocò un poco col Soldatino di Piombo, poi lo poggiò sul davanzale della finestra. D’un tratto la finestra si spalancò e il Soldatino di Piombo cadde giù sulla strada, infilandosi tra due pietre del selciato e rimanendo così nascosto alla vista. Una perfida vocina, dentro la scatola di legno intarsiata sul tavolo, ridacchiava felice…
Il bambino scese subito a cercare il Soldatino di Piombo, ma, sebbene gli passò così vicino quasi da calpestarlo, non lo vide. Presto cominciò a piovere e il bambino tornò dentro casa.
Poco dopo passarono di lì due ragazzini, stavano anche loro correndo a casa per la pioggia e notarono il Soldatino di Piombo.
– Guarda! – gridò uno dei due – un Soldatino di Piombo! Lo presero, lo guardarono ed ebbero un’idea: visto che, a causa della pioggia, al lato della strada si era formato un rigagnolo d’acqua, decisero di provare a farlo navigare su una barchetta di carta.
Così presero un foglio di giornale e fecero una barchetta, vi misero sopra il Soldatino di Piombo e lo fecero navigare giù per la strada. La barchetta di carta iniziò a sballottare veloce su e giù in mezzo al ruscello, andava così veloce che il Soldatino di Piombo per la paura tremò. Ma rimase fermo, non mostrò emozione e continuò a guardare dritto davanti a sé, impugnando il fucile, perché lui era un soldato.
Sbandando, la barchetta finì in un canale di scolo dell’acqua, buio e maleodorante. – Dove mai sarò adesso? – si chiese il Soldatino di Piombo – se almeno fosse qui con me la dolce Ballerina, avrei meno paura, e del buio non m’importerebbe…
La corrente divenne più veloce e forte, la barchetta girò su sé stessa tre, quattro volte, e si riempì d’acqua fino all’orlo: stava per affondare! Il Soldatino di Piombo era in piedi con l’acqua fino al collo e pensò alla sua bella Ballerina di cui, probabilmente, non avrebbe mai più rivisto il dolce viso.
La barchetta si sfasciò proprio quando il canale di scolo si immetteva nel fiume con una piccola cascatella, e lì il Soldatino di Piombo si inabissò. Ma proprio in quel momento passò di lì un grosso pesce che pensando di fare un buon pasto, lo inghiottì.
Com’era buio lì dentro, ancora più buio che nel tunnel, ma il tenace Soldatino di Piombo rimase fermo e impettito, con il fucile bene in spalla.
Il pesce nuotò su e giù per il fiume, ma il giorno seguente venne pescato e venduto al mercato. Fu poi portato in una cucina, dove la cuoca lo aprì con un grosso coltello.
La donna, stupita, vi trovò dentro il Soldatino di Piombo, lo prese tra l’indice e il pollice, lo sciacquò e lo portò nella sala da pranzo per farlo vedere al suo bambino.
Lo mise sul tavolo, e… non ci crederete, a volte succedono cose incredibili: il Soldatino di Piombo era nella stessa casa da dove era partito il giorno prima!
Vide lo stesso bambino e gli stessi giocattoli, e c’era ancora lo stesso grande castello con la graziosa Ballerina. Era ancora lì in piedi su una gamba sola e con l’altra alta in aria. Lui la guardò e lei ricambiò il suo sguardo; il suo cuore di carta, infranto per averlo perso di vista il giorno precedente, era ora pieno di gioia nel rivederlo.
Dentro la scatola intarsiata invece si sentì un grugnito e delle parole confabulate con rabbia: era il diavoletto, che non poteva sopportare di rivedere ancora il Soldatino di Piombo in quella casa.
– Adesso ti sistemo io… – disse il diavoletto, e pronunciò delle strane e magiche parole.
Improvvisamente e senza nessun motivo il bambino prese il Soldatino di Piombo e lo gettò nella stufa! Sicuramente era stato il piccolo diavoletto a consigliare quel gesto sconsiderato al bambino…
Il Soldatino di Piombo dentro la stufa sentiva un calore davvero terribile, non sapeva se soffriva di più per il fuoco, o per la perdita della sua dolce Ballerina. Lui guardò la sua piccola signora, lei guardò lui con le lacrime disegnate sugli occhi.
Il Soldatino di Piombo sentì che si stava sciogliendo, ma rimase saldo e fermo col fucile in spalla.
Il diavoletto voleva vederlo sciogliersi il più rapidamente possibile, così, con una magia aprì la finestra per far entrare più aria.
Ma con la finestra aperta una folata di vento raggiunse la piccola Ballerina che, essendo fatta di carta iniziò a volare nell’aria, dolce e leggera come solo le ballerine possono fare.
Volò via, verso il suo Soldatino di Piombo fin dentro la stufa, dove divenne un’unica piccola ma scintillante fiamma… Poco dopo anche il Soldatino di Piombo era ormai sciolto in un piccolo grumo di metallo.
Quando la mattina dopo il papà raccolse le ceneri della stufa, vi trovò dentro una piccola forma di cuore fatta di piombo, con incastonata al centro una minuscola rosa d’oro.
Posò lo strano cuoricino sul tavolo, proprio vicino alla scatoletta di legno intarsiato, dal cui interno una vocina irritata oltre misura non la finiva più di brontolare…
Senza volerlo, il diavoletto, aveva unito per sempre l’amore del fiero Soldatino di Piombo e della dolce Ballerina.
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Regina delle Nevi!
La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 7 – Nel castello della Regina delle Nevi.
Nessuno stava di guardia al cancello d’entrata del castello. Avvicinandosi, Gerda vide che le pareti erano fatte di neve pressata e ghiaccio. Salì i gradini che portavano alla porta d’entrata, che era spalancata, ed entrò.
Un lugubre silenzio aleggiava in tutte le gelide stanze che formavano il castello. Erano più di cento stanze fatte di ghiaccio e neve, tutte illuminate dall’aurora boreale.
Il salone principale sembrava infinito, al suo centro c’era addirittura un lago ghiacciato. Appena oltre il lago svettava l’imponente trono di ghiaccio della Regina delle Nevi, alto decine di metri, vuoto e ricoperto di neve fresca. Sembrava che il palazzo fosse completamente deserto.
Gerda camminava con passo lento ma deciso, al suo passaggio il lago ghiacciato si crepava leggermente, ma non cedeva e solo dopo averlo attraversato tutto, guardando ai piedi del maestoso trono, vide qualcosa rannicchiato alla sua base. Era Kay, inginocchiato per terra che cercava di ricomporre alcuni pezzi di ghiaccio come se fossero un puzzle, ma non ci riusciva. Era completamente blu in viso per via del freddo, ma non se ne accorgeva minimamente perché la Regina delle nevi aveva steso su di lui un incantesimo che gli impediva di sentire freddo.
Gerda cominciò a correre più veloce che poteva, quasi cadde, ma continuò finchè non arrivò da lui e lo abbracciò più forte che poteva. Era ghiacciato.
– Kay! Kay! Mio piccolo Kay finalmente ti ho ritrovato! – singhiozzava tra le lacrime Gerda. Gli occhi di Kay la guardavano vuoti e privi di qualunque emozione.
Gerda lo abbracciò ancora più forte, i loro visi erano così vicini che le sue lacrime si posarono sulle guance di Kay ghiacciando all’istante. Ma una di queste lacrime, come per miracolo, cadde nei suoi occhi.
Gli occhi di Kay ebbero un barlume di vita, quasi sembravano aver riconosciuto Gerda, la guardarono, si inumidirono e finalmente piansero. Piansero così tanto che le sue lacrime riuscirono a portare via la scheggia di vetro che ancora aveva negli occhi.
Per l’emozione Gerda strinse ancora più forte Kay e pianse ancora di più. Un’altra sua lacrima cadde sul suo cuore di ghiaccio e portò via l’altra scheggia di vetro che vi albergava dentro.
Kay poco a poco diventava sempre meno freddo, le sue guance riprendevano colore e cominciava a muoversi finché alla fine, con la poca energia che aveva in corpo, abbracciò Gerda. Fu in quel momento che la riconobbe.
– Gerda… – disse Kay con un filo di voce. – Kay… – rispose Gerda sorridendo e accarezzandogli il viso. – … perdonami, ti ho fatto soffrire… – continuò il ragazzo. – Non importa, ora siamo di nuovo insieme…
Kay stava ritornando il ragazzo gentile e spensierato che era sempre stato. Iniziò a raccontare a Gerda di come, quando era stato rapito dalla Regina delle Nevi, non riuscisse a ribellarsi a lei nè a contrariarla, anzi gli sembrava che quel gelido e tetro castello dove lo aveva portato fosse il posto più bello del mondo.
Spiegò alla ragazza che la Regina delle Nevi erano ormai giorni che era andata via dal castello, e non sapeva nemmeno lui dove. Forse era andata a cercare divertimento portando il gelo nel cuore di altre persone…
Gerda e Kay si presero per mano e, fianco a fianco, uscirono dal castello. Ai piedi della scalinata d’entrata li stava aspettando la renna, che li fece salire in groppa e li portò dalla donna della Lapponia.
La donna della Lapponia li sfamò e li fece riposare. Il giorno successivo, sempre in groppa alla renna, viaggiarono fino alla donna di Finlandia, che li abbracciò e diede loro tutte le provviste per tornare a casa. Gerda e Kay salutarono lei e la renna e s’incamminarono.
Giunsero nella foresta, dove su un maestoso destriero incontrarono una ragazza: era Paska, la figlia della brigantessa. Aveva deciso di viaggiare il mondo da sola alla ricerca delle avventure che aveva sempre sognato, e li accompagnò ai confini del regno.
Gerda e Kay furono accolti dalla Principessa e dal Principe, che li vestirono riccamente e diedero loro due cavalli per tornare a casa. Lungo il viaggio di ritorno incontrarono la piccola casetta della Maga dei Fiori, che li abbracciò e li benedisse.
Finalmente, dopo tanto viaggiare, ritornarono nella loro città, nelle loro case. Gerda e Kay si tenevano mano nella mano. Lì ritrovarono la nonna e tutto il resto, esattamente come lo avevano lasciato, come se il tempo non fosse passato mai.
Ma invece per loro il tempo era passato, perché quando entrarono dalla porta, scoprirono di essere cresciuti. Scoprirono di volersi ancora più bene di quando tutta la loro avventura era iniziata, e scoprirono che non potevano più fare a meno l’una dell’altro.
Nel cortile di casa ritrovarono le loro piccole seggioline, e si sedettero tenendosi per mano. Erano diventati adulti, eppure sembravano ancora due bambini, bambini nel cuore,
C’erano le rose sui davanzali delle finestre ed era già estate, una calda e splendida estate.
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
Speriamo che la nostra versione vi piaccia!
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La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 6 – La donna di Finlandia e la donna di Lapponia
La renna, con in groppa Gerda, correva così veloce che sembrava letteralmente volare in mezzo alla foresta. In lontananza si sentivano gli ululati dei lupo, sopra di loro un’aurora boreale di fuoco illuminava la strada.
Si fermarono solo quando giunsero presso una piccola casetta in Finlandia, così piccola che per entrarci bisognava accucciarsi.
Dentro c’era solo una vecchia donna della Finlandia, che stava cucinando del pesce sul fuoco. La donna le accolse e le invitò ad accomodarsi. Dentro la casetta faceva così freddo che Gerda batteva i denti e non riusciva a parlare.
Fu la renna a raccontare tutta la loro storia alla vecchia, che la ascoltò con attenzione. – Povere creature! – esclamò la vecchietta dopo aver sentito tutta la storia di Gerda e Kay – avete ancora molta strada da fare, dovete arrivare fino in Lapponia, è lì che vive la Regina delle Nevi nel suo castello di ghiaccio, e ogni notte accende il cielo con i suoi magici fuochi azzurri.
La vecchina porse del cibo a Gerda, che mangiò tutto. – Vi mando da una mia amica, vive in Lapponia e troverete la sua casa proprio lungo il cammino, dovete portarle un messaggio da parte mia! Detto questo la donna di Finlandia, che non aveva carta su cui scrivere, prese un pesce essiccato sotto sale e vi incise sopra un messaggio, poi lo diede a Gerda – Ora andate!
Gerda e la renna ringraziarono la vecchina e partirono di corsa alla volta della donna di Lapponia. Trovarono la sua casetta dopo molte ore di viaggio. Bussarono alla porta e, una volta entrate, videro una vecchietta con indosso giusto una vestaglia leggera; dentro la casa faceva effettivamente un caldo infernale.
Gerda si tolse praticamente tutti i vestiti, mentre la renna poverina faceva fatica a stare in piedi per l’eccessivo caldo, tanto che la vecchina le posò un pezzo di ghiaccio sulla fronte.
Gerda diede poi il pesce secco alla donna che lo lesse attentamente fino ad impararlo a memoria. Poi lo gettò nella pentola a cuocere perché il cibo non andava sprecato.
Ascoltò anche lei la storia di Gerda narrata dalla renna, poi diede del cibo alla ragazza e con un cenno della testa indicò alla renna di seguirla in un’altra stanza.
Quando furono sole la renna disse: – Tu sei una maga vero? Potresti dare una pozione magica a Gerda che le infonda la forza di dodici uomini così che possa sconfiggere la Regina delle Nevi? – La forza di dodici uomini non le sarebbe di grande aiuto, cara mia… il piccolo Kay vive ormai da molto tempo con la Regina delle Nevi, e pensa di essere nel posto più bello del mondo, ma solo perché nel suo cuore e nei suoi occhi ci sono delle schegge di vetro magiche. Se non togliamo quelle, non sarà mai libero e la Regina delle Nevi lo avrà sempre in suo potere…
La renna ascoltò, poi aggiunse: – Non puoi darle qualcosa che dia a Gerda del potere su di lei? – Non posso darle più potere di quanto già ne abbia! Non vedi quanto è grande? Non vedi come tutti quelli che incontra la aiutano, e quanto ha camminato nel mondo con le sue sole gambe? Il potere si trova nel suo cuore innocente. Solo lei può togliere le schegge di vetro dal piccolo Kay, noi non possiamo aiutarla! Tornarono quindi da Gerda.
– Il giardino della Regina delle Nevi è a pochi chilometri da qui, porta Gerda fino al grande cespuglio di bacche rosse che cresce in mezzo alla neve nel giardino del castello. Poi devi tornare qui più in fretta che puoi! – disse la donna rivolgendosi alla renna. La donna della Lapponia aiutò Gerda a risalire sulla renna, si salutarono e la renna corse via più veloce che poteva. In breve tempo lo scintillante castello di ghiaccio della Regina delle Nevi fu all’orizzonte.
Il freddo era insopportabile e stava per iniziare anche una tormenta di neve. Riuscirono a raggiungere il cespuglio di bacche rosse, dove la renna fece scendere Gerda dal suo dorso. Gerda abbracciò al collo la renna, si salutarono con le lacrime agli occhi, poi la renna si girò e corse più veloce che poteva per tornare indietro dalla donna della Lapponia.
Gerda era rimasta sola nella fredda e gelida tormenta di neve. Di fronte a lei si stagliava in tutta la sua maestosità il castello di ghiaccio. Facendosi coraggio Gerda decise di entrare.
… continua nel CAPITOLO 7: Nel castello della Regina delle Nevi
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
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La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 5 – La figlia del brigante
Gerda stava attraversando la foresta buia, la sua carrozza sfavillava e brillava, e non ci volle molto prima che attirasse l’attenzione dei banditi.
L’attesero in un punto in cui la strada era stretta, e assalirono la carrozza gridando: – Oro! Oro! Afferrarono i cavalli e legarono il cocchiere, poi aprirono la carrozza e tirarono fuori Gerda.
– Guarda guarda che bel bocconcino! – esclamò la Regina dei Briganti sguainando la spada. – No mamma! Non farle del male – gridò una ragazza che stava in mezzo ai banditi – voglio che diventi la mia compagna di giochi, e che mi dia tutti i suoi vestiti!
Era Paska, la figlia della Regina dei Briganti. Tutti si misero a ridere, e sua madre fece fatica a nascondere l’imbarazzo, ma alla fine acconsentì perfino a regalarle la carrozza.
Portarono Gerda al loro accampamento nei boschi, Paska la prese e la condusse in disparte. – Sei una principessa? – le chiese. – No, non lo sono… – rispose Gerda. – E cosa ci facevi tutta sola su una carrozza ricoperta d’oro?! Gerda tra le lacrime iniziò a raccontare la sua storia.
Paska la ascoltava in silenzio, poi alla fine le asciugò le lacrime. – Questa notte dormirai con me, ho un sacco di animaletti da farti conoscere – le disse indicando alcuni colombi appollaiati su un albero lì vicino.
Andarono nella tenda di Paska e, mentre entravano, Gerda notò un coltello appeso alla sua cintola. – Tieni il coltello con te anche quando dormi? – le chiese guardandola un po’ impaurita. – Dormo sempre col coltello, non si sa mai quello che può succedere… rispose Paska.
Gerda si coricò accanto a Paska. Faceva fatica ad addormentarsi, tanti pensieri si affollavano nella sua testa. Paska si addormentò subito e russava ormai sonoramente quando un colombo bianco si posò vicino alla loro tenda e iniziò a tubare “Tuuuu… tuuuu… tuuuu…” faceva il colombo.
Gerda, infastidita dal richiamo del colombo, gli gridò a mezza voce: – Basta! Cosa vuoi? Non si riesce a dormire! Il colombo smise di tubare, aspettò qualche istante e poi disse: – Tu sei alla ricerca di un ragazzo di nome Kay?
Gerda si alzò di scatto e lo raggiunse fuori dalla tenda. – Cosa sai di Kay?! – gli chiese. – Lo abbiamo visto seduto accanto alla Regina delle Nevi sulla sua slitta, prova a chiedere anche alla renna… – e la indicò legata ad un albero.
La renna, sentendosi chiamata in causa, si girò verso Gerda. – E’ sicuramente andata al nord, nel regno delle nevi, lì ha il suo castello di ghiaccio – disse. Gerda sospirò.
– Cos’è tutto questo baccano?! Gerda torna dentro! – era Paska mezza addormentata ma con la mano sull’impugnatura del coltello. Gerda guardò i colombi e la renna, poi ubbidì.
Al mattino Gerda raccontò a Paska tutto quello che aveva saputo. – Renna, vieni qua! E’ vero quello che hai detto a Gerda? Tu sai come arrivarci? Alla renna brillarono gli occhi – certo che so come arrivarci! Ci sono nata e cresciuta là!
Paska diede uno sguardo al campo dei briganti, erano tutti belli svegli, soprattutto sua madre. – Ascoltami – disse Paska a Gerda – adesso non c’è possibilità, ma nel primo pomeriggio, subito dopo pranzo di solito fanno tutti un sonnellino, anche mia madre, forse allora potrò aiutarti… Gerda l’abbracciò e la ringraziò in lacrime.
Aspettarono che tutti si fossero addormentati, poi Paska si avvicinò alla renna – E’ ora che tu ritorni da dove sei venuta… – le disse. La renna capì subito cosa intendeva e iniziò a saltare di gioia – devi portare Gerda con te – e aiutò la ragazza a montare in groppa alla renna, poi tagliò la corda che la teneva legata all’albero.
Paska ridiede a Gerda i suoi vestiti e anche del cibo per il viaggio. Gerda le prese le mani e la ringraziò di cuore in lacrime. – Non è il momento di piangere… E ora và! E tu stai attenta a Gerda! – disse rivolgendosi alla renna e dandole una pacca. La renna cominciò a correre per il bosco innevato.
Gerda si voltò a guardarla per un ultimo saluto, di fronte a lei ora si stagliava il cielo illuminato dalle aurore boreali.
… continua nel CAPITOLO 6: La donna di Finlandia e la donna di Lapponia
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
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La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 4 – Il principe e la principessa
Dopo aver corso a lungo per i boschi, Gerda si riposò sotto un grande albero.
Saltellando nella neve arrivò da lei un grosso corvo nero, si fermò a guardarla e poi disse: – Cra! Cra! Buongiorno! Cosa ci fai qui sola nel bosco, bimba mia?
Gerda si sentiva sola e stanca e, meravigliata che il corvo potesse parlare, gli confidò tutta la sua storia. Infine gli chiese se avesse visto Kay. – Può essere… – rispose il corvo. – Dimmi dove! – esclamò la ragazza. – Credo di aver visto il giovane che descrivi… vive nel castello, insieme alla principessa. Ma non illuderti, ti ha completamente dimenticato…
Colpita da quest’ultima frase Gerda rimase in silenzio. Nel suo cuore però si faceva largo uno sprazzo di felicità: ora sapeva dov’era Kay. – Quindi adesso vive con una principessa… ma almeno sta bene? E lei come lo tratta?
Il corvo la guardò profondamente a lungo, poi riprese la parola: – Devi sapere che in questo regno c’era una volta una principessa straordinariamente intelligente, dolce e gentile, che amava imparare ogni cosa. Leggeva ogni libro di sapienza e studiava le regole che governavano il mondo. Poi giunse il momento per lei di diventare regina, e quindi di prendere marito. Ma non voleva far da compagna ad un re tutto impettito, altezzoso e noioso, no, lei voleva un uomo a cui far domande e da cui ricevere risposte.
Gerda ascoltava il corvo rapita.
– La principessa quindi decise di andare in giro per il suo regno a cercare qualcuno che fosse degno di diventare il suo compagno. – E lo ha trovato in Kay… è sempre stato molto intelligente, parlare con lui era meraviglioso… – concluse la frase Gerda. Il corvo la guardò senza dire nulla.
– Devi portarmi al castello, subito! – esclamò Gerda. – Devo prima chiedere consiglio a una cornacchia mia amica che vive lì dentro perché, devo dirtelo, una ragazzina come te non la lascerebbero mai entrare – le rispose il corvo – aspettami qui, tornerò al più presto – poi allargò le ali e prese il volo in direzione del castello. Quando il corvo tornò era ormai sera. Nel becco aveva del pane e del formaggio e li pose nelle mani di Gerda – tieni, avrai fame – le disse. Gerda lo ringraziò molto e iniziò a mangiare. Aveva molta fame.
– Sei riuscito a trovare il modo di farmi entrare nel castello? – gli chiese. – Tutti gli ingressi sono difesi dalle guardie d’argento, da lì è impossibile passare… A Gerda cominciarono a formarsi le lacrime agli occhi, pensando che non avrebbe mai più potuto rivedere Kay. Il corvo però continuò a parlare.
– Aspetta a piangere mia cara… la cornacchia mia amica mi ha detto che esiste un passaggio nascosto che dalle stalle permette di entrare direttamente nel castello. Seguimi, ti accompagnerò. A Gerda non sembrava vero, finalmente avrebbe ritrovato Kay!
Camminò veloce seguendo il corvo in volo. Arrivarono al giardino posteriore del castello, poi si infilarono nelle stalle e in fondo, mezza coperta dalla paglia, trovarono una piccola porta. In quel momento comparve anche la cornacchia, che portava un mazzo di chiavi nel becco. Lo fece cadere proprio ai piedi di Gerda, lei prese le chiavi e aprì la porta.
Davanti a loro si apriva uno stretto corridoio, attraverso il quale Gerda seguì la cornacchia. Camminarono attraversando piccoli stanzini e ampi saloni, finché non furono in una camera da letto. Lì qualcuno stava dormendo, ma Gerda intravedeva solo una nuca di un giovane illuminata dalla fioca luce della luna.
– Kay! – gridò sottovoce Gerda. Il giovane si voltò di soprassalto, ma non era Kay… subito dopo si alzò anche una giovane ragazza ed entrambi erano molto sorpresi per la singolare visita.
Erano in realtà la principessa e il principe del castello. Il corvo, sentendo il racconto di Gerda, si era sbagliato in buona fede, convinto che Kay fosse davvero il ragazzo che la principessa aveva cercato. Gerda si mise a piangere disperata, la principessa ed il principe la consolarono e la invitarono a raccontare la sua storia. Una volta finito il racconto, decisero di aiutarla.
La fecero dormire nel castello, la vestirono come una dama di corte e le diedero una carrozza con cui poter andare alla ricerca di Kay. – Grazie mille, non vi dimenticherò mai! – disse Gerda salutandoli. – Ti auguriamo di ritrovare al più presto il tuo Kay! – le risposero.
Così Gerda partì e, poco dopo, si ritrovò fuori dal regno alla ricerca delle tracce di Kay.
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
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La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 3 – Il giardino della Maga dei Fiori
Kay sedeva di fianco alla Regina delle Nevi, e nonostante lei gli sorridesse, lui iniziava ad avere sempre più paura.
La neve scendeva copiosa, e loro scivolavano veloci nella foresta buia. Kay iniziava anche ad avere molto freddo, di quel passo in poco tempo si sarebbe congelato.
La Regina delle Nevi se ne accorse e gli disse: – Ti stai congelando ragazzo mio, vieni sotto il mio mantello – e aprendo il suo mantello di candida pelliccia, lo abbracciò – hai ancora freddo? – chiese lei.
Kay fece cenno di sì col capo, la signora di ghiaccio sorrise: – Adesso ti darò un altro bacio sulla fronte, e dimenticherai tutto, anche di avere freddo – e mentre gli accostava le labbra sulla fronte, gli occhi di Kay divennero grigi e freddi. In un istante aveva perso del tutto la memoria di sé e di tutte le persone a lui care, Gerda compresa.
La Regina delle Nevi continuò il suo viaggio verso il suo castello di ghiaccio. Intorno a loro il vento fischiava e la neve sibilava, mentre Kay riposava nel suo abbraccio.
Gerda pianse tutta la notte e non riuscì a dormire. Tutto il paese aveva preso parte alle ricerche di Kay, ma nessuno ne trovò la benché minima traccia.
Per Gerda quello fu un inverno lungo e buio.
Quando arrivò la primavera, la ragazza prese coraggio e si disse: “devo ritrovare Kay!” e, infilandosi le sue scarpette rosse, partì.
Viaggiò a lungo, finché non arrivò ad un fiume dov’era attraccata una barchetta: sembrava la stesse aspettando.
Gerda salì sulla barca e, come d’incanto, la corrente la portò via. “Forse il fiume sa dove posso trovare Kay” pensò.
La barca oltrepassò campi e alberi, fino ad arrivare ad un giardino con un ciliegio e una strana casetta, che aveva strane finestre rosse e blu e il tetto di paglia. Lì la barchetta si accostò alla riva e si fermò.
Gerda scese dalla barca mentre dalla casetta uscì una donna molto anziana. Si appoggiava a un bastone e indossava un ampio cappello di paglia con sopra dipinti degli splendidi fiori.
– Vieni, raccontami chi sei e come sei arrivata qui – le disse la vecchina. Gerda sulle prime ne ebbe paura, poi guardandola negli occhi capì che era una signora buona e le raccontò tutto.
L’anziana signora l’ascoltò e le disse di non essere triste. La invitò poi a stare da lei per qualche tempo, avrebbe potuto raccogliere le ciliegie e sentire il profumo del suo giardino pieno di fiori.
Gerda iniziò a mangiar ciliegie, e la vecchina prese a spazzolarle gli splendidi capelli dorati. Più glieli spazzolava, e più Gerda si sentiva serena e tranquilla.
L’anziana signora la ospitò nella sua casetta per la notte e il giorno seguente portò Gerda a vedere il suo giardino pieno di fiori. Erano di tutti i tipi ed erano tutti meravigliosi. C’era solo una piccola porzione di giardino senza fiori e di terra brulla, ma Gerda non vi fece caso.
Mentre passavano la giornata a raccontarsi le loro vite, la vecchina continuava a spazzolare i capelli di Gerda, e la ragazza era ogni giorno sempre più serena e pensava sempre meno a Kay. Finché non se ne scordò del tutto.
La vecchina era in realtà la Maga dei Fiori, una strega buona che cercava soltanto un po’ di compagnia. Ascoltando la storia di Gerda aveva fatto sprofondare le rose del giardino sotto terra, in modo che lei non potesse vederle. E con un incantesimo, mentre le pettinava i capelli, le faceva perdere il ricordo di Kay.
Le giornate passavano veloci e spensierate, Gerda curava il giardino e la vecchina col cappello di paglia le stava accanto.
“Le dona proprio quel cappello di paglia” pensò Gerda mentre innaffiava dei gerani. Poi guardò meglio i fiori dipinti sul cappello, e vide una rosa proprio come quelle che stavano nel suo giardino di casa e che piacevano tanto anche a Kay.
– Kay!! – gridò Gerda come risvegliandosi da un sogno – devo trovare Kay!! – si guardò intorno, spaesata, era ormai quasi autunno e non aveva ancora trovato Kay.
Si inginocchiò in lacrime proprio nel pezzo di giardino privo di fiori, una goccia cadde sul terreno e subito sbocciò una rosa.
Gerda la guardò incredula, era una rosa bella e splendida, che sembrava volerle dire qualcosa. La ragazza avvicinò l’orecchio e sentì sussurrare: – Cerca dove sorge il castello di ghiaccio…
Gerda salutò di fretta la Maga dei Fiori che la pregò invano di rimanere, e corse via per il bosco più veloce che poteva. Dal cielo stava iniziando a cadere qualche piccolo fiocco di neve.
… continua nel CAPITOLO 4: Il principe e la principessa
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
Speriamo che la nostra versione vi piaccia!
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Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Regina delle Nevi!
La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 2 – Kay e Gerda
Nella periferia della grande città vivevano due poveri bambini, si conoscevano fin da quando erano nati, essendo i loro genitori vicini di casa, e passavano tutti i giorni assieme. Lui si chiamava Kay e lei si chiamava Gerda.
Le loro case erano molto vicine, tanto vicine che bastava scavalcare una grondaia e attraversare una finestra per passare da una soffitta all’altra.
D’estate i due bambini prendevano le loro seggiole e si sedevano all’ombra dei ciliegi e delle rose nel giardino vicino, dove facevano giochi meravigliosi.
D’inverno, quando faceva troppo freddo per giocare fuori nel cortile, pulivano ben bene i vetri delle finestre per potersi guardare dalle rispettive case. Si salutavano sempre prima di andare a dormire.
Un pomeriggio in cui fuori stava nevicando fitto, Kay e Gerda si erano raccolti vicino alla stufa a fare compagnia alla vecchia nonna.
– Vedete miei piccoli – disse la nonna – quella neve è come le api bianche che sciamano! Kay, pensieroso e colpito dall’affermazione della nonna, rispose: – Anche le api bianche hanno una regina? – Certo che ce l’hanno! E vola proprio dove le api sono più fitte. É la più grande di tutte e non si posa mai a terra. Dove vola lei il cielo è sempre più scuro e, se per caso si avvicina ad una finestra, la fa ghiacciare in modo strano, come se volesse disegnare un fiore. Si chiama la Regina delle Nevi!
I bambini guardavano incantati i fiocchi di neve scendere fuori dalla finestra. Ad un certo punto Gerda chiese: – Ma la Regina delle Nevi può entrare anche nelle case? Subito Kay rispose – lasciala pure entrare, ci penserò io a infilarla nella stufa per scioglierla! Risero tutti, poi la nonna continuò raccontando altre storie.
Quella sera Kay, prima di addormentarsi, pulì con la mano il vetro ghiacciato della finestra e guardò fuori. Dalla casa di fronte Gerda aveva già fatto lo stesso e i due bambini si salutarono.
Gerda spense la candela della sua stanzetta mentre Kay rimase ancora qualche minuto a guardare la neve scendere copiosa. Guardò in particolare un grosso fiocco di neve posarsi sulla fioriera appesa al davanzale della finestra.
Quel fiocco di neve si era posato con una delicatezza inusuale, facendo uno svolazzo molto elegante prima di fermarsi. Dopo qualche istante il fiocco di neve iniziò a ingrandirsi, crescendo fino a diventare una elegante donna fatta di ghiaccio e tutta di bianco vestita.
I suoi occhi splendevano come le stelle e dopo un battito di ciglia incrociò lo sguardo incredulo di Kay. Gli fece un cenno con la mano, che tese quasi ad invitarlo a uscire di casa e seguirla in mezzo alla tormenta di neve.
Kay fece un balzo all’indietro per lo spavento e cadde per terra. Riuscì a vedere una grande ombra che passava davanti alla finestra, sembrava un enorme uccello che aveva spiccato il volo.
Quando Kay ebbe di nuovo il coraggio di avvicinarsi alla finestra e guardare fuori sulla fioriera, vide che la donna di ghiaccio era svanita. “Che fosse la Regina delle Nevi…?” pensò Kay.
Quel freddo inverno passò senza che la donna di ghiaccio si facesse più vedere. Arrivarono finalmente la primavera e poi la calda estate, le rose del roseto sbocciavano ed erano profumate più che mai.
Kay e Gerda stavano all’ombra, sfogliavano un libro illustrato. Erano completamente assorti nella lettura quando Kay all’improvviso esclamò: – Ahi! Ho una fitta al cuore, mi fa molto male… e mi è entrato qualcosa nell’occhio e mi brucia!
Gerda prese subito il capo di Kay e guardò bene mentre sbatteva gli occhi, ma non vide niente. Il ragazzo, per tranquillizzarla, le disse che forse il granello di polvere se n’era andato, anche se in realtà gli faceva ancora tanto male.
Kay non poteva immaginare che nel suo occhio si fosse conficcata proprio una delle minuscole schegge dello specchio fabbricato dal folletto malvagio. E, per ironia della sorte, una scheggia aveva raggiunto anche il suo cuore.
Gerda, in lacrime per lo spavento, corse a prendere una pezzuola bagnata con cui pulire bene l’occhio di Kay. Lui si calmò un poco, poi guardò in viso Gerda e le disse in modo sgarbato: – Perché stai piangendo?! Sei proprio brutta quando piangi!
Gerda rimase di stucco per il tono tutt’altro che gentile di Kay. Il ragazzo guardandosi intorno iniziò a dire cose cattive e malevoli: – Ma guarda quella mela sull’albero, viene mangiata da un verme… e poi queste rose sono proprio brutte e orribili… e quel libro illustrato è solo uno stupido passatempo per bambini!
– Kay! Ma cosa stai dicendo!? – Urlò Gerda al ragazzo. Non si era mai comportato in quel modo e non lo aveva mai visto così arrabbiato.
Kay la guardò con disprezzo e corse via. Da quel momento diventò insopportabile, trattava male anche la povera nonna quando gli raccontava le storie della buonanotte.
La piccola Gerda a poco a poco si allontanò da lui, non capiva il perché la prendesse sempre in giro e usasse sempre parole scortesi con lei. Non poteva sapere che era tutta colpa delle schegge malvagie conficcate nel suo occhio e nel suo cuore…
Tornò quindi l’inverno e, nonostante tutto, prima di dormire Kay puliva ancora il vetro dal ghiaccio e salutava brevemente Gerda.
Una di quelle sere entrambi rimasero a guardare la neve cadere fuori dalle loro finestre. Ad un certo punto qualcosa attirò l’attenzione di Kay, che come un fulmine aprì la finestra e si sporse sul davanzale.
Sulla fioriera si era posato un fiocco di neve molto speciale, più grande degli altri, e Kay lo prese fra le mani. Gerda, che osservava la scena, pensò che il ragazzo volesse buttarsi giù dalla finestra, allora gli urlò: – Cosa stai facendo Kay!? Attento!!
Ma Gerda non credette ai propri occhi quando vide il grande fiocco di neve tra le mani di kay trasformarsi in una bellissima e maestosa donna di ghiaccio. Era la Regina delle Nevi.
La donna prese il ragazzo per mano e magicamente lo accompagnò fino a terra, volando con dolcezza. Lì apparve dal nulla una slitta di ghiaccio trainata da cavalli, anch’essi fatti di ghiaccio.
– Kay!!! – gridò disperata Gerda, ma il ragazzo non la sentiva.
La Regina delle Nevi, prese la testa di Kay e gli diede un bacio sulla fronte. D’improvviso il ragazzo sembrò diventare di ghiaccio anche lui. Salirono sulla slitta e sparirono nella buia notte in mezzo alla tormenta di neve.
– Kay!!! – gridò ancora più forte Gerda, ma ormai Kay non c’era più…
… continua nel CAPITOLO 3: Il giardino della Maga dei Fiori
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
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Kay é stato rapito dalla Regina delle Nevi, solo Gerda riuscità a riportarlo a casa.
Anche la Disney si è lasciata ispirare da questo bellissimo e profondo racconto di Andersen per realizzare il famosissimo film “Frozen”
Seguite Gerda nel suo lungo viaggio per ritrovare il suo caro Kay, e scoprirete come riuscirà a superare tutte le dure prove che dovrà affrontare per arrivare fino a lui.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Regina delle Nevi!
La Regina delle Nevi ❄ CAPITOLO 1 – Lo specchio e le schegge
C’era una volta un perfido folletto che si dilettava a fare il mago e costruì uno specchio magico. Quel giorno era proprio di buon umore perchè aveva creato uno specchio capace di far sparire tutte le cose belle e buone che vi si specchiavano dentro.
Anche il paesaggio più incantevole, dentro lo specchio appariva come abbandonato e privo di bellezza. I volti delle persone venivano deformati e diventavano irriconoscibili, e anche le più belle persone apparivano repellenti.
E se lo specchio rifletteva qualcosa di brutto, lo rendeva persino orribile.
Il perfido folletto si divertiva un mondo a fare scherzi e a spaventare le persone, mostrando loro quello che lo specchio rifletteva.
E lui rideva, rideva così tanto che un giorno, per tenersi la pancia con le mani a causa delle troppe risate, fece scivolare lo specchio, che cadde a terra frantumandosi in mille pezzi.
Il perfido folletto gridò di rabbia. Il suo gioco preferito era ormai andato perduto.
Le schegge dello specchio erano così piccole e leggere che diventarono una piccola nuvola fatta di mille pezzettini scintillanti, grandi non più di un granello di sabbia, e il vento le sparse per tutto il mondo.
La più grande sfortuna era che ogni singola scheggia di specchio frantumato possedeva il medesimo malefico potere che aveva lo specchio intero.
Alcune schegge si conficcarono negli occhi delle persone, facendo sì che vedessero il mondo come un posto triste e insopportabile in cui dover vivere per forza. Altre schegge si posarono dentro i cuori, trasformando quelle povere persone in esseri privi di sentimenti e di amore.
Quando si rese conto di cosa i frammenti del suo specchio erano stati in grado di fare, il malefico folletto rise ancora di più e continuò a ridere per tutta la sua vita, perché sapeva che tutte quelle schegge sarebbero volate per il mondo e avrebbero portato la tristezza nelle persone per chissà quanto tempo ancora.
Ma non poteva immaginare l’avventura che i suoi frammenti di specchio avrebbero fatto affrontare a due bravi e cari bambini, il giovane Kay e la dolce Gerda…
La Regina delle Nevi è forse il racconto più lungo e complesso scritto da Hans Christian Andersen.
Racconta la storia di crescita e maturità di due ragazzi, Kay e Gerda, che dovranno affrontare le loro paure più profonde per poter alla fine essere finalmente felici insieme.
Il significato profondo di questa storia lo si intuisce già daslla suddvisione in sette capitoli, che in realtà possono essere letti quasi come storie assolutamente indipendenti tra loro, ma che insieme formano una elaborata storia in cui Gerda dimostrerà di riuscire ad affrontare il mondo contando solo sulle proprie forze, e un pizzico di fortuna (che non guasta mai). In fondo Gerda ha sempre avuto tutte le capacità di cui aveva bisogno, solo non sapeva ancora di possederle.
Mentre Kay, grazie all’amore di Gerda, solo alla fine si renderà conto di quanto illusorie e pericolose siano state le sue ambizioni.
Questo racconto è stato alla base dell’ispirazione per il famoso film della Disney “Frozen”.
Una precisazione, nel racconto originale di Andersen, Gerda incontra prima la donna di Lapponia e poi la donna di Finlandia, che però è un controsenso in quanto, ipotizzando un viaggio verso nord, si incontra prima la Finlandia e poi la Lapponia (che è una regione della stessa Finlandia). Per essere il più coerenti possibile con la geografia, abbiamo volutamente scambiato i nomi dei due personaggi.
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Sapete che Babbo Natale ha una renna col naso rosso? Ed è anche la più famosa nonostante sia la più giovane di tutte… Ma questo non è importante, perché la renna Rudolph ha un naso davvero speciale!
Rudolph la renna è stata creata da Robert L. May nel 1939, e da quel momento non ha mai smesso di essere la renna che col suo naso rosso è a capo della slitta di Babbo Natale.
Noi di fabulinis abbiamo preparato la nostra versione della sua storia, ascoltala o leggila qui con noi mentre aspetti il Natale!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Rudolph la renna!
Le renne abitano lassù a nord, dove le notti d’inverno sono lunghissime e la neve è bianchissima. Babbo Natale va sempre lì a cercare quelle più forti e più veloci: gli servono per far volare la sua slitta.
Lì a nord viveva una famiglia di renne che aveva cinque piccoli. Il più giovane si chiamava Rudolph ed era un cucciolo particolarmente vivace e curioso. Lui infilava il suo naso dappertutto. Ed era un naso veramente particolare. Infatti, quando Rudolph era felice, arrabbiato o si emozionava, il naso si illuminava e diventava rosso come un pomodoro.
I suoi genitori ed i suoi fratelli lo trovavano adorabile e lo amavano per questa sua particolarità, ma fin dall’asilo era diventato lo zimbello dei compagni. “Rudolph ha il naso rosso! Rudolph ha il naso rosso!” lo prendevano in giro. E alla scuola elementare andò anche peggio! Rudolph cercava con tutti i mezzi di nascondere il suo naso ma non ci riusciva.
Aveva provato a rimanere sempre serio, a metterci un cappuccio di gomma e addirittura a dipingerlo di nero, ma non c’era niente da fare. In qualche modo quel naso rosso e luminoso saltava sempre fuori e i suoi compagni ridevano a crepapelle. Rudolph ci restava molto male: piangeva amareggiato, e i suoi genitori e i suoi fratelli non riuscivano mai davvero a consolarlo.
Passarono gli anni e Rudolph divenne un giovane forte e agile. Finché fu abbastanza grande da poter partecipare alla selezione delle renne che avrebbero trainato la slitta di Babbo Natale. Anche quell’anno, infatti, l’inverno era ormai alle porte e la visita di Babbo Natale visita si avvicinava. In vista di quell’appuntamento, le renne giovani e forti si facevano belle. Le loro pellicce venivano strigliate e spazzolate fino a brillare come il rame, le corna venivano lucidate fino a risplendere più della neve. Ed ecco che arrivò il gran giorno.
Tutte le renne si riunirono nel piazzale dove di solito atterrava Babbo Natale in quell’occasione e, nell’attesa, cercavano di intimorire e impressionare gli altri concorrenti. Ciascuno avrebbe infatti voluto essere scelto: trainare la slitta di Babbo Natale è un onore immenso! Tra di loro c’era anche Rudolph, e bisogna ammettere che spiccava tra gli altri per bellezza e vigore.
Babbo Natale atterrò puntuale. Era partito da casa sua con la slitta leggera trainata solo da Donner, il suo fedele caporenna. Babbo Natale si mise subito al lavoro ed esaminò ogni concorrente. Siccome le renne erano molte e Babbo Natale ne avrebbe scelte solo otto, ci volle molto tempo per guardarle tutte con attenzione e il tempo sembrava non passare mai. Anzi, a Rudolph sembrava un’eternità.
Quando finalmente toccò a lui, però, il suo naso diventò incandescente per l’agitazione, era quasi luminoso come il sole. Babbo Natale lo guardò e sorrise amichevole, ma scosse la testa. – Sei grande e robusto. E sei un bellissimo giovanotto – disse – ma purtroppo non posso sceglierti. Il tuo naso rosso potrebbe spaventare i bambini.
Non potete immaginare la tristezza ed il dolore che queste parole diedero a Rudolph. Corse nel bosco più veloce che poteva, scalpitando e ruggendo per la rabbia. A tutti gli scoiattoli che venivano a chiedergli cosa succedesse, rispondeva: – Guarda come brilla il mio naso. Nessuno ha bisogno di una renna con il naso rosso! – e piangeva per la tristezza.
Piano piano si calmò e tornò a casa, dove i suoi genitori e i suoi fratelli lo abbracciarono forte. Lui riprese le sue normali attività, cercando di non badare a quanto si vantavano i suoi compagni che erano stati scelti da Babbo Natale. Spesso tornava nel bosco a salutare gli scoiattoli che l’avevano aiutato quel giorno che era stato tanto triste.
Intanto il Natale si avvicinava e tutti erano così occupati con i preparativi per le feste, che nessuno si accorse che il tempo peggiorava ogni giorno di più. Al punto che Babbo Natale, quando lesse le previsioni per la notte della Vigilia, disse preoccupato: – Come potrò trovare la strada per arrivare alle case dei bambini? Nevicherà così tanto che rischio di non vedere nemmeno le mie renne!
Quella notte non riuscì a dormire. Doveva trovare una soluzione. Perciò decise di tornare al paese delle renne, forse loro avrebbero potuto aiutarlo. Ma nevicava così tanto che Babbo Natale non riusciva a vedere niente tranne una luce rossa. Tutto ciò che era intorno a lei era illuminato a giorno.
Babbo Natale si avvicinò e si accorse che quella luce proveniva dal naso della renna che lui aveva scartato. La ricordava benissimo. – Ciao – le disse – mi ricordo ti te. Ti dissi che il tuo naso avrebbe spaventato i bambini, ma mi rendo conto che è eccezionale. Illumina a giorno la strada anche nella bufera. Ti va di essere la prima delle renne attaccate alla mia slitta e di mostrarmi così la strada per raggiungere i bambini?
Rudolph non credeva alle sue orecchie: per l’emozione inciampò nella neve e il suo naso divenne ancora più rosso. Finalmente rispose: – Naturalmente, lo farò volentieri. Mi fa un enorme piacere. – Allora ti aspetto domani sera con tutti gli altri. Dobbiamo partire puntuali per essere sicuri che i bambini ricevano i loro doni a mezzanotte.
Figuratevi la faccia dei compagni di Rudoplh quando lo videro a capo della squadra di renne. Loro l’avevano sempre preso in giro per il suo naso bizzarro, ma proprio quel naso si era rivelato indispensabile per permettere a Babbo Natale di portare a termine la sua missione. Nonostante la bufera di neve, la slitta partì puntuale e fece tutto il suo giro senza intoppi. La luce del naso di Rudolph aveva guidato le renne sane e salve.
Il giorno dopo Rudolph venne festeggiato come un eroe. Le renne ballarono e cantarono felici perché una di loro era entrata nella storia. Da allora Rudolph è sempre a capo della slitta di Babbo Natale, per illuminargli la strada e far sì che tutti i bambini ricevano il loro regalo di Natale.
Tanto tempo fa non c’erano gli alberi di Natale perchè nessuno li aveva ancora inventati! Ma chi sarà mai stato quindi ad avere questa splendida idea?!
Questa simpatica fiaba risponde in modo semplice e allegro a questa domanda; è stata ripresa da una leggenda nordica che noi di fabulinis abbiamo pensato di riscrivere usando un po’ di immaginazione.
Ecco allora una storia natalizia, adatta a questo periodo dell’anno in cui i bambini sognano e sperano di vedere realizzare i loro desideri.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del primo albero di Natale!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare il primo albero di Natale raccontata da Silvia!
Il primo albero di Natale 🎄 racconto completo
La vigilia di Natale, nel tardo pomeriggio, Babbo Natale camminava nel bosco col suo sacco in spalla, tutto nervoso… Tra poco sarebbe dovuto partire con la sua slitta per portare i doni ai bambini di tutto il mondo, ma un pensiero lo tormentava. Rifletteva su come lo spirito del Natale fosse cambiato negli ultimi anni.
Certo, i bambini erano felici di ricevere giocattoli e dolci, ma lui avrebbe voluto che cantassero e ballassero con le loro famiglie per festeggiare il Natale, cosa che purtroppo ormai accadeva sempre più raramente. Avrebbe voluto riportare di nuovo tutta questa gioia ai bambini, ma non gli era venuta nessuna bella idea. “Adesso ne parlerò con il mio aiutante Gimpy.” pensò. “Dobbiamo incontrarci per organizzare la distribuzione dei regali, magari insieme riusciamo a trovare una soluzione anche per questa cosa.”
Gimpy stava già aspettando Babbo Natale nella casetta in mezzo al bosco da dove partivano tutti i regali. Appena vide Babbo Natale gli corse incontro, ma si fermò, vedendolo così cupo. – Cosa succede, Babbo Natale? Non sei pronto per andare a portare i regali ai bambini?- – Non lo so – rispose Babbo Natale. – Quest’anno mi sento tanto stanco, forse è successo qualcosa che mi ha fatto perdere l’entusiasmo. Cibo e giocattoli vanno bene, ma bisognerebbe trovare un’idea nuova per rendere davvero felici le persone, per farle di nuovo cantare e ridere di gioia…
– Ci avevo pensato anch’io sai, ma non è così facile – disse Gimpy pensieroso. – Lo so – continuò Babbo Natale, – E io ormai sono troppo vecchio. A forza di pensare ad inventare qualcosa, mi è perfino venuto mal di testa. Se si va avanti così, rischiamo che il Natale diventi una festa come tutte le altre, e questo mi renderebbe davvero molto triste.
Nel frattempo era arrivata la sera. La luna ormai saliva in cielo e il tempo iniziava a stringere, perciò decisero di fare una passeggiata: camminare nel bosco li avrebbe forse aiutati a trovare un po’ di ispirazione. Cammina cammina, giunsero ad una grande radura circondata da piccoli e grandi abeti. Era un posto bellissimo. La neve brillava sui rami degli alberi e, sotto la luce della luna, sembrava fatta d’argento. Gli abeti scuri per la notte e bianchi per la neve formavano un paesaggio incantato.
Rimasero però colpiti da un abete in particolare: aveva dei ghiaccioli che penzolavano dalla punta dei rami e che scintillavano per i riflessi di luce. Non avevano mai visto niente di simile. Gimpy si avvicinò a quell’abete ed esclamò: – Che meraviglia! Babbo Natale, non è bellissimo quest’albero? – Sì, davvero… – rispose Babbo Natale.
Erano lì incantati a guardarlo, quando Gimpy all’improvviso disse – Dammi delle mele! – Mele? – chiese meravigliato Babbo Natale – Su, veloce, ho avuto un’idea. Dobbiamo legarle con delle cordicelle in modo da poterle appendere all’abete.
Babbo Natale era molto perplesso, ma iniziò a cercare nel suo grande sacco e trovò sia delle mele che un po’ di corda. Fabbricò dei piccoli lacci con la corda e, dopo averci legato le mele, le diede a Gimpy. L’elfo le prese, le lucidò bene fino a farle diventare di un rosso acceso e le appese all’albero. Quando finì sorrise soddisfatto. – Già che ci siamo, attacchiamoci anche delle noci – continuò Gimpy. Babbo Natale era sempre più confuso, non riusciva a capire dove l’elfo volesse andare a parare. Ma lo vedeva così deciso che non replicò.
Gimpy sfregò le noci su un panno speciale che portava sempre con sé, così da farle diventare dorate. Quando ebbero finito, Gimpy chiese ancora: – Per caso nel tuo sacco hai delle luci, Babbo Natale? – Purtroppo no, ma ho delle candeline, e dei fiammiferi per accenderle. – Perfetto! – gridò Gimpy con gioia. Così presero anche tutte le candeline e le misero sui rami dell’abete e sulla sua cima. Poi le accesero.
Lo spettacolo era meraviglioso.
Nel buio, questo piccolo albero brillava come una stella, le mele mandavano riflessi rossi e le noci lo facevano splendere come se fosse d’oro. Gimpy batteva le mani e rideva felice, mentre Babbo Natale non era più arrabbiato. Gimpy, serio ma felice, guardò Babbo Natale e disse – Ora portiamo l’albero giù in paese così com’è. Così fecero. Giunsero in paese a notte fonda, quando tutti ancora dormivano. Gimpy indicò la porta della casa più povera del villaggio, la aprì piano e aiutò Babbo Natale a portare dentro l’abete.
Lo sistemarono in mezzo al salotto e Babbo Natale ci lasciò sotto anche un sacco di belle cose: dolci, giochi, mele e noci. Poi, sempre in silenzio, andarono via. La mattina dopo, il più piccolo dei bambini che abitavano in quella casa si alzò per primo e, come sempre, andò in salotto. Immaginate quanto grande fu lo stupore nel vedere lo spettacolo dell’albero addobbato!
Corse subito a svegliare mamma, papà e i fratelli, e tutti, sbalorditi per quella meravigliosa sorpresa, cominciarono a ballare e cantare intorno all’albero tenendosi per mano. La gioia era talmente grande che non guardarono nemmeno i regali: l’albero era il vero dono per tutti. I vicini, sentendo tutto quel cantare, corsero a vedere e a poco a poco tutto il paese si riversò in quella casa.
Rimasero tutti incantati e volevano tutti un abete così in casa loro! Andarono nel bosco a prendere un abete e lo addobbarono con mele, noci e luci, proprio come quello fatto da Babbo Natale e Gimpy. Quando fu sera, in ogni casa si poteva vedere brillare un albero e si potevano sentire canti di Natale.
Nel giro di pochi anni tutte le famiglie del mondo iniziarono ad addobbare un abete per Natale. Ma la cosa più importante era che Babbo Natale era riuscito a rendere unica e indimenticabile la festa del Natale.
Jack ha trovato un fagiolo magico, ma ancora non sa quali avventure gli toccherà affrontare per salvare sè stesso e la sua mamma dal terribile gigante!
Jack e il fagiolo magico, conosciuto anche come Jack e la pianta di fagioli, è un racconto popolare di origine inglese, e a volte in italiano “Jack” viene tradotto come “Giacomino”.
Ne esistono molte varianti tra qui una molto elaborata scritta da Andrew Lang, noi di fabulinis abbiamo voluto renderla il più semplice e scorrevole possibile, così anche i più piccoli possano divertirsi a leggerla!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Jack e il fagiolo magico!
C’era una volta una povera vedova che viveva in una casetta sperduta in una valle con il suo unico figlio Jack, uno scavezzacollo dal cuore molto gentile e affettuoso.
Era appena finito un duro inverno e la mamma, che era rimasta malata per molto tempo, mandò Jack a vendere la loro unica mucca al mercato. Contava così di avere un po’ di denaro per andare avanti, in attesa di rimettersi in sesto e poter riprendere a lavorare.
Jack si recò quindi a vendere la mucca al mercato. La sua attenzione fu attirata da un vecchio mercante con una lunga barba bianca, che gli si avvicinò con in mano qualcosa.
Erano degli strani fagioli e raccontò al ragazzo che erano magici: – Se li pianti oggi, domani avrai una pianta così alta da toccare il cielo! – gli disse, e persuase Jack a scambiare la mucca con quei fagioli.
Quando sua madre, invece dei soldi che si aspettava per la mucca, vide in mano a Jack solo dei fagioli, andò su tutte le furie. Li prese e li gettò in giardino e per punizione mandò Jack a letto senza cena.
All’alba Jack si svegliò e d’istinto uscì in giardino, dove scoprì con stupore che uno dei fagioli era cresciuto durante la notte, ed era così alto che scompariva tra le nuvole!
“Sarebbe facile scalarlo” si disse Jack e, senza pensarci due volte, iniziò immediatamente a salire. Salì finchè persino l’alto campanile della chiesa sembrava piccolo, e ancora non riusciva a vedere la cima della pianta di fagioli!
Finalmente raggiunse la cima della pianta e si ritrovò in un bosco con al centro un grande castello.
Jack decise di entrare. Bussò forte e, poco dopo, la porta fu aperta da una spaventosa Gigantessa che, sorpresa, gli disse: – E tu da dove sbuchi fuori?
Non appena Jack la vide cercò di scappare, ma lei fulminea lo prese per la collottola e lo trascinò nel castello tutta felice.
– Oh che bello, finalmente ho trovato un nuovo sguattero e io sarò libera da tutte le faccende domestiche! Pulirai la casa, sistemerai il giardino e farai tutto quello che ti dico quando il Gigante mio marito è fuori dal castello – poi si fermò e lo guardò dritto negli occhi – però, quando lui è a casa, devo nasconderti, perché finora ha divorato tutti i miei sguatteri e tu saresti un boccone molto delizioso, ragazzino – e trascinò Jack fino alle cucine.
Il povero ragazzo era spaventato a morte… – Sono pronto ad aiutarvi e a fare tutto il possibile per servirvi, mia signora – disse – solo vi prego di nascondermi bene da vostro marito, perché non mi piacerebbe affatto essere mangiato…
– Sei un ragazzo molto intelligente – disse la gigantessa, annuendo – ora devo nasconderti, tra poco mio marito arriverà per colazione – e lo rinchiuse in un grande armadio con un’enorme serratura, da cui Jack poteva vedere cosa succedeva nella stanza.
Poco dopo si sentirono dei passi pesanti avvicinarsi alla cucina, e poi una grossa voce tuonare: – Moglie! Sento profumo di giovanotto nel castello! Fammelo mangiare a colazione!
– Sei invecchiato caro mio – gli rispose la gigantessa a voce alta – È solo il profumo di una bella bistecca di elefante… siediti e fai una buona colazione – e gli mise davanti un piatto enorme di carne saporita e fumante, cosa che gli fece molto piacere e gli fece dimenticare la sua idea di un giovanotto nel castello.
Jack osservava tutto dal buco della serratura.
Finita la colazione ordinò alla moglie di portargli la sua gallina che deponeva le uova d’oro. La Gigantessa tornò presto con una gallinella marrone, che posò sulla tavola davanti al marito che disse: – Deponi! – e immediatamente la gallina depose un uovo d’oro.
Jack non credeva ai suoi occhi, se avesse avuto una gallina del genere lui e sua madre non avrebbero mai più patito la fame…
Poco dopo il Gigante posò la gallina sul pavimento, e subito dopo si addormentò profondamente, la moglie invece aveva preso alcuni panni ed era andata al fiume per lavarli.
Jack allora aprì l’anta dell’armadio e sgattaiolò fuori con molta cautela, prese in braccio la gallina, e si affrettò a lasciare il castello il più velocemente possibile, scendendo dal gigantesco tronco del fagiolo magico come un fulmine.
Quando sua madre lo vide ritornare pianse di gioia, perché aveva temuto che Jack fosse scappato di casa per colpa della punizione della sera precedente.
Ma Jack posò la gallina marrone davanti a lei e le raccontò della scalata sul fagiolo magico, di come era entrato nel castello del Gigante e tutte le sue avventure. La madre fu molto contenta di vedere la gallina, che li avrebbe certamente tolti dalla povertà.
Passavano i giorni e il fagiolo magico era sempre lì, gigantesco e alto fino al cielo. Jack lo guardava e pensava a quali altri tesori poteva trovare dentro il castello del Gigante, così un giorno ebbe un’idea.
Si tinse i capelli e si travestì, risalì il tronco del fagiolo e bussò alla porta del castello. La Gigantessa non lo riconobbe, lo prese e lo trascinò dentro come aveva fatto la prima volta per farsi aiutare a fare i lavori di casa. Quando arrivò il marito lo nascose nell’armadio, senza pensare che fosse lo stesso ragazzo che aveva rubato la gallina.
Il Gigante entrò dicendo: – Moglie! Sento profumo di giovanotto nel castello! Fammelo mangiare a pranzo!
– Sei invecchiato caro mio – gli rispose la gigantessa a voce alta – È solo il profumo di un arrosto succulento… siediti e fai un buon pranzo – e gli mise davanti un piatto enorme, pieno di arrosto fumante, cosa che gli fece molto piacere e gli fece dimenticare la sua idea di un giovanotto nel castello.
Jack osservava tutto dal buco della serratura.
Finito il pranzo ordinò alla moglie di portargli i sacchi con i denari, che voleva contarli. La Gigantessa tornò presto con due grandi sacchi, che posò sulla tavola davanti al marito.
– Tieni – disse la Gigantessa – questo è tutto ciò che resta del denaro del barone che viveva nel castello, quando l’avrai speso tutto dovremo andare a prendere il castello di qualcun’altro – e uscì dalla stanza.
Il Gigante scrollò le spalle, tirò fuori mucchi e mucchi di monete d’oro, e iniziò a contarle finché non fu stanco. Poi rimise tutto nei sacchi e, appoggiandosi allo schienale della sedia, si addormentò profondamente.
Jack sgusciò fuori piano piano dall’armadio e, prendendo i sacchi di denaro, corse via. Ridiscese dal fagiolo magico e corse da sua madre.
– Guarda madre, ti ho portato due sacchi pieni d’oro! – Oh, Jack… tu sei un bravissimo ragazzo, ma non devi più mettere a rischio la tua preziosa vita nel castello del Gigante! Non devi andarci mai più! Jack annuì per far felice sua madre, ma era deciso a tornare ancora nel castello del Gigante.
Così, qualche giorno dopo, si arrampicò ancora una volta, entrò nel castello senza farsi vedere e si nascose dentro l’armadio.
Poco dopo il Gigante tornò a casa, e appena varcò la soglia ruggì: – Moglie! Sento profumo di giovanotto nel castello! Fammelo mangiare a cena!
– Sei invecchiato caro mio – gli rispose la gigantessa a voce alta – È solo il profumo di un porcellino grigliato… siediti e fai un buona cena – e gli mise davanti un piatto enorme con sopra un porcellino fumante, cosa che gli fece molto piacere e gli fece dimenticare la sua idea di un giovanotto nel castello.
Quando ebbe mangiato tutto il Gigante disse: – Moglie, portami la mia arpa farò un po’ di musica mentre tu farai la tua passeggiata.
La Gigantessa obbedì e tornò con una bella arpa tutta scintillante di diamanti e rubini e con le corde d’oro.
Il Gigante disse rivolgendosi all’arpa – suona! – e l’arpa, che era magica, si mise a suonare una dolce melodia che ben presto lo fece addormentare.
Jack sgattaiolò fuori dall’armadio, controllò che la Gigantessa fosse uscita, afferrò l’arpa dalle mani del Gigante e corse via come il vento. Ma proprio mentre stava per uscire dal castello, l’arpa magica gridò: – Aiuto! Aiuto!
Il Gigante si svegliò, con un tremendo ruggito balzò dalla sedia e in due passi raggiunse il portone. Voleva acciuffare il ladro che stava cercando di rubargli l’arpa magica.
E stava per riuscirci! Jack, però, era molto agile, sfuggì alle grinfie del Gigante e corse giù dal tronco del fagiolo magico.
Il Gigante cercò di inseguirlo ma, data la sua stazza, si muoveva in modo molto lento e goffo. Jack fece quindi in tempo ad arrivare a casa e prendere l’ascia, con la quale diede tre colpi ben assestati al tronco del fagiolo magico. La pianta, abbattuta, cadde a terra ma, non appena il tronco del fagiolo magico toccò il terreno, svanì come per magia, e con esso sparirono il Gigante, la Gigantessa e il loro Castello.
Jack e sua madre non credevano ai loro occhi. Si misero a cantare e ballare dalla gioia di essersi liberati del Gigante cattivo, e grazie alla gallina dalle uova d’oro, i sacchi di denaro e l’arpa magica che gli avevano sottratto, vissero per sempre felici e contenti.
Chi la fa l’aspetti, dice il proverbio… infatti Adele insieme ai suoi amici (ed anche ad una simpatica zia strega…) riuscirà a dare una bella lezione a chi si prende gioco dei bambini.
Halloween è una tradizione che ormai conosciamo bene anche in Italia, e “Dolcetto o scherzetto” è una frase familiare a tutti. Così noi di fabulinis abbiamo voluto scrivere una storia tutta nostra, simpatica ed adatta a tutti i bambini.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della strega Greta!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare lo scherzetto della strega Greta raccontata da Silvia!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
Lo scherzetto della strega Greta 🎃
Nella notte di Halloween, una strega pazzerella volava sulla sua scopa sopra i tetti del paese.
Greta, questo era il suo nome, stava andando dalle sue amiche, e siccome era in gran ritardo, volava via talmente veloce che perfino i gatti neri avevano paura di lei. Lei e le altre sue compari avrebbero fatto grande festa, perché quella era la notte di Halloween, la notte delle streghe!
Vola sopra un tetto, vola attorno ad un campanile, vola dentro un vicolo, ecco che per la strada vide una compagnia di bambini tutti mascherati. Erano tutti bimbi che andavano di casa in casa a chiedere “dolcetto o scherzetto”, per riempirsi le tasche di caramelle. Incuriosita, Greta si fermò dietro ad un albero a guardare la scena. Dovete sapere che anche lei aveva una nipotina grande come loro. Si chiamava Adele ed era tanto simpatica.
I bimbi stavano bussando ad una grande porta di legno, e dopo poco uscì un uomo grande e grosso, con la barba lunga così. Quando l’uomo si sentì chiedere “dolcetto o scherzetto”, fece una grossa risata. I bambini porsero comunque i loro sacchettini per raccogliere le caramelle, ma quel cattivone grande e grosso ci mise dentro solo dei piccoli pezzi di pane raffermo. Dopodiché chiuse loro la porta in faccia, ridendo sonoramente.
I bambini ci rimasero molto male, i più piccoli di loro avevano le lacrimone agli occhi. Non si aspettavano una cattiveria simile. La strega Greta, dopo aver visto tutta quella brutta scena, decise che quell’omone si meritava una bella lezione.
Con due parole magiche si trasformò in una bambina travestita da piccola strega, e si avvicinò alla compagnia di bimbi. – Ciao bambini, io mi chiamo Greta! I bimbi, ancora un po’ tristi per l’accaduto, la guardarono chiedendosi da dove saltasse fuori. – Ho visto tutta la scena – continuò Greta – e penso che quel cattivone grande e grosso si meriti una bella lezione! Gli occhi dei bimbi più grandi si ravvivarono subito – Quella bimba ha ragione! – disse uno di loro, e corsero tutti incontro a Greta. – Guardate qui – disse Greta.
Dalla sua borsa tirò fuori una boccetta color giallo fosforescente, versò un paio di gocce su una zucca intagliata che stava lì vicino, e… magia! La zucca iniziò a fare delle facce bruttissime! Alcuni bimbi furono molto impressionati da quella magia e stavano per mettersi a piangere dalla paura. – Non temete, questa zucca adesso andrà a far morire di paura quel cattivone! – Siiiii! – gridarono insieme tutti i bambini.
Mentre la zucca piano piano si avviava verso la porta della casa, Greta versò un altro paio di gocce su un grande lenzuolo, su un secchio di latte ed infine su un rastrello. Ed ecco che una piccola squadra di oggetti fluttuanti nell’aria stava per bussare alla porta della casa. Greta e tutti i bambini, intanto, si erano nascosti dietro ad un muretto, per gustarsi la scena. Quando finalmente il rastrello bussò alla porta, da dentro la casa si sentì una grossa risata, e poco dopo l’omone grande e grosso aprì la porta.
Immaginate che spavento quando di fronte a sé trovò una zucca intagliata che fluttuava a mezz’aria, un lenzuolo che sembrava un fantasma e un rastrello ed un secchio che sbattevano tra di loro, facendo un gran fracasso! L’uomo, per quanto fosse grande e grosso, non riuscì nemmeno a gridare per la paura, e corse via dentro casa. Ma la zucca, il lenzuolo, il rastrello e il secchio lo inseguirono ululando per tutte le stanze.
Il pover’uomo correva da una stanza all’altra terrorizzato, gridando: – Scusate! Scusate! Ho capito, sono stato cattivo! Scusate! Finché non andò in cucina, aprì la dispensa, prese tutti i dolci che aveva e li portò fuori ai bambini. – Scusatemi bambini, scusatemi! Sono stato cattivo! Eccovi tutti i miei dolci!
I bambini, vedendo l’omone portare fuori tutti quei dolci, scattarono da dietro il muretto e corsero a prenderli. Ma non li presero tutti, ne lasciarono un poco anche all’uomo grande e grosso, perché così anche lui poteva festeggiare la notte delle streghe! L’omone promise che l’anno successivo li avrebbe aspettati con ancora più dolci e caramelle, e i bambini tutti contenti poterono finalmente andare a bussare alla porta della casa vicina.
“Dolcetto o scherzetto?”
Nella confusione e felicità generale, i bambini non si erano accorti che Greta era sparita in groppa alla sua scopa, riprendendo il suo normale aspetto. Meglio così. Per la strega Greta quello che davvero era importante era il sorriso di quei bambini in festa.
Questo simpatico pipistrello ci insegna che, per migliorare la propria vita e trovare la felicità, bisogna avere il coraggio di credere nelle proprie forze senza arrendersi.
I racconti di Halloween spesso sono storie di paura, e non a torto! Noi di fabulinis, però, abbiamo voluto inventare una storia simpatica, per i più piccolini, che possono così divertirsi senza per forza spaventarsi 😉
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del pipistrello Brighello!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare il pipistrello Brighello raccontata da Silvia!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
Il pipistrello Brighello 🦇🎃 storia completa
C’era una volta un pipistrello che si chiamava Brighello. Lui Abitava tutto solo in una torre alta alta di un castello vicino ad un bosco, questa torre però era tutta piena di buchi, di spifferi e ci entrava tanto freddo, e quando faceva il temporale il povero pipistrello si ritrovava sempre zuppo e fradicio. Brighello, poverino, non ce la faceva più, così sentì che ne aveva abbastanza e una notte decise di andare via dalla sua torre umida e sgangherata.
Quella notte era proprio quella di Halloween ed era tanto buia, c’era anche qualche lampo in lontananza, ma Brighello prese coraggio e volò via lo stesso, deciso a trovare una nuova casetta. Cominciò a cercarla dal bosco vicino al castello e, vola vola, nel bosco incontrò un gufo.
– Buona sera signor gufo! – Buona sera a te pipistrellino mio, dimmi, cosa ci fai in giro con questo buio nella notte di Halloween, non vedi che là ci sono dei lampi? Forse arriverà il temporale…
Il pipistrello decise quindi di raccontare tutta la sua storia. – Io mi chiamo Brighello e abito nella torre del castello, che ha un sacco di buchi, è brutta, rotta, e piena di spifferi. Ci abito tutto solo e sto cercando una nuova casetta. Mi puoi aiutare signor gufo?
Il gufo gli rispose: – Io abito in quest’albero, dentro quel buco, però per te caro pipistrello mio non c’è posto… Brighello ci rimase un po’ male. – Vabbè andrò in cerca di un’altra casetta… grazie lo stesso signor gufo!
Salutò il gufo e continuò a volare nel bosco finché non incontrò una volpe. – Buonasera signora volpe! – Buonasera pipistrello, cosa ci fai in giro con questcon questo buio nella notte di Halloween ? Brighello allora raccontò la sua storia anche alla volpe:
– Io mi chiamo Brighello e abito nella torre del castello, che ha un sacco di buchi, è brutta, rotta, e piena di spifferi. Ci abito tutto solo e sto cercando una nuova casetta. Mi puoi aiutare signora volpe? La volpe allora gli rispose: – Io ti darei anche un lettino nella mia piccola tana, però sta sotto terra, e i pipistrelli come te non riescono a volare li dentro… Sarebbe una trappola per te! Brighello ci rimase un po’ male. – Vabbè andrò in cerca di un’altra casetta… grazie lo stesso signora volpe!
Salutò la volpe e continuò a cercare. Questa volta uscì dal bosco e si ritrovò sopra un grande prato, dove la luna ogni tanto riusciva a farsi vedere in mezzo alle nuvole scure e minacciose. Vola vola e vola a Brighello venne in mente un’idea: – Chiederò aiuto alla luna! Così Brighello volò sempre più in alto finché non riuscì a vedere in viso la luna che stava sonnecchiando.
– Buona sera signora luna! – Buona sera a te pipistrellino mio – disse la luna sbadigliando – cosa ci fai in giro con questo buio nella notte di Halloween? Il pipistrello prese coraggio e raccontò tutta la sua storia. – Io mi chiamo Brighello e abito nella torre del castello, che ha un sacco di buchi, è brutta, rotta, e piena di spifferi. Ci abito tutto solo e sto cercando una nuova casetta. Mi puoi aiutare signora luna?
La luna gli rispose: – Buon pipistrello mio, vola verso la montagna, li dovresti trovare una grotta dove abitano tanti pipistrelli come te, sono sicura che accetteranno ben volentieri la tua compagnia e ti lasceranno stare con loro! – Grazie! Grazie infinite signora luna, non so come ringraziarla!
E, salutata la luna, Brighello iniziò a volare verso la montagna. Arrivato lì, vide la grotta e vide che dentro c’era della luce. Fu subito fermato però da un pipistrello che faceva la guardia all’ingresso! – Chi sei tu?! Cosa ci fai qui?! – Io mi chiamo Brighello e abito nella torre del castello, che ha un sacco di buchi, è brutta, rotta, e piena di spifferi. Ci abito tutto solo e sto cercando una nuova casetta…
Sentito il racconto di Brighello, la guardia gli disse: – Allora penso proprio che tu abbia trovato la tua nuova casetta! Entra dentro alla nostra grotta, sono sicuro che tutti i miei amici pipistrelli ti accoglieranno ben volentieri, tra pipistrelli ci si deve sempre aiutare! – Davvero posso stare con voi? – rispose tutto emozionato Brighello. – Ma certo! Anzi, proprio stasera stiamo facendo una festa per Halloween, e la festa diventerà ancora più bella se si aggiunge un nuovo amico! Vieni con me!
Il pipistrello di guardia prese Brighello e lo portò al centro della grotta, dove si stava cantando, ballando e festeggiando. – Fermi tutti! – disse la guardia – Voglio presentarvi Brighello, un pipistrello solo soletto in cerca di una nuova casa. Dal gruppo di pipistrelli parlò uno di loro, che doveva essere l’anziano saggio, capo della tribù. – Se vuoi, caro pipistrello mio, questa sarà la tua nuova casa, e questa la tua nuova famiglia. Brighello non stava più in sé dalla gioia, tanto che riuscì solo a dire un fortissimo: – Siiiiiii!
Allora tutti i pipistrelli corsero ad abbracciarlo e salutarlo, e subito dopo ripresero le danze in suo onore! Da quel giorno Brighello non fu più solo, aveva finalmente trovato una bella casetta, e, cosa più importante aveva trovato tantissimi amici!
Anche i pelouche brutti e birichini possono avere un cuore d’oro…
Noi di fabulinis abbiamo voluto scrivere una storia di Halloween che fosse anche carica di un significato più profondo: solo perchè non si è perfetti non vuol dire che non si abbia un cuore a cui poter dare tanto amore e affetto.
Ma soprattutto che se impariamo ad andare oltre le apparenze possiamo essere tutti più felici, perché l’abito non fa il monaco… 😉
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di FrankenPlush!
Stano era un bambino molto curioso, non stava mai con le mani in mano e amava trafficare smontando e rimontando i suoi giochi.
Era quasi il giorno di Halloween e a Stano venne una bizzarra idea: per fare uno scherzo alla sua sorellina Sveva, avrebbe realizzato uno spaventosissimo peluche e gliel’avrebbe messo nel lettino prima della nanna. Lei si sarebbe spaventata moltissimo e lui avrebbe riso a crepapelle!
Allora andò nella sua cameretta, prese alcuni dei suoi pupazzi, i più rovinati e maltrattati, li scucì e li ricompose con ago e filo. Il risultato era alquanto bizzarro.
Questo nuovo pupazzo aveva la testa di un gatto blu a cui mancava un occhio (sostituito da un bottone attaccato male), con un orecchio di un orsetto e l’altro di un cagnolino.
Il corpo era quello di un panda a cui avevano fatto qualche strana operazione chirurgica, ricucito alla fine con del filo di lana rosso. Un braccio era quello di una zebra mentre l’altro era di un topolino.
Come gambe, Stano aveva usato due robuste zampette di elefante, mentre sulla schiena del pupazzo regnava trionfante la pinna di uno squalo. Stano ammirava compiaciuto la sua creazione.
“Sono stato proprio bravo!” si diceva tra sè, “bravo come il dottor Frankenstain!” ridendo in modo sguaiato “ah! ah! ah!”. Ricordando in modo vago la storia del dottor Frankenstein, raccontatagli da suo cugino Corrado proprio quell’estate, voleva ricopiare fedelmente il momento in cui “la creatura” prendeva vita.
Prese tutta una serie di cianfrusaglie, cavi, fili e tubetti per costruire una finta centrale elettrica con cui dare vita alla sua creazione. Come fosse un segno del destino, in lontananza si sentiva il rombo di alcuni tuoni e qualche lampo iniziava a farsi vedere. Stava arrivando un bel temporale.
Stano accese tutte le luci della stanza e infilò un paio di occhiali da sole, dopodichè afferrò una levetta di legno e l’abbassò. – E ora prendi vita mio FrankenPlush!
Ci fu un lampo fortissimo fuori dalla finestra e poi un fragoroso rombo di tuono. Per un paio di secondi la luce andò via.
Per lo spavento Stano si rifugiò sotto le coperte del suo lettino. Quando sbirciò fuori dalle coperte il suo FrankenPlush era sparito. “Dov’è finito il mio FrankenPlush?!” si chiese. Un agghiacciante urlo di Sveva arrivò dal soggiorno.
Stano preoccupato per la sorellina, ma allo stesso tempo terrorizzato, si precipitò a vedere cos’era successo in soggiorno. Non poteva credere ai suoi occhi: Sveva, con in mano una spada laser giocattolo, cercava di togliersi dalla gamba qualcosa… FrankenPlush! Il pupazzo era aggrappato alla gamba di Sveva e con il braccio da zebra cercava di toccarle il viso.
Stano si precipitò a salvare sua sorella, afferrò con forza FrankenPlush e lo strattonò via. – Lascia stare la mia sorellina, cattivo pupazzo! – gli urlò contro.
FrankenPlush per tutta risposta gli fece la linguaccia e una pernacchia e scappò via, infilando la porta di casa.
Stano non fece in tempo a capire che cosa fosse successo che sentì l’anziana vicina di casa urlare per lo spavento. Guardò allora fuori di casa e vide la vecchina semistesa a terra che, mentre si faceva aria col fazzoletto, per lo spavento gridava “Un mostro! Un mostro!”
Mentre Stano si infilava le scarpe, un altro urlo si udì poco lontano. Doveva fare in fretta! Inforcò la bici e partì all’inseguimento.
FrankenPlush aveva già sconvolto un paio di vicini, la signora del chiosco di fiori (a cui aveva rubato un mazzetto di fiori), il panettiere (dove aveva dato un morso ad una focaccia con le olive, sputazzando poi le olive…) e il bar, dove la barista per lo spavento si era rovesciata addosso un caffè macchiato caldo in tazza di vetro col manico in metallo e senza zucchero, che stava servendo al bancone.
“Ma è velocissimo! Meno male che gli ho messo delle zampette di elefante, pensa se usavo quelle del giaguaro…” pensava Steno tra sé, mentre lo inseguiva. In meno di dieci minuti FrankenPlush aveva già terrorizzato mezzo quartiere.
Stano, mentre pedalava in cerca di una pista da seguire, sentì d’improvviso il pianto di una bambina che proveniva dal parchetto. La raggiunse e le chiese cosa fosse successo.
– Un mostriciattolo mi ha rubato la bambola… – e continuò a piangere tra i singhiozzi. – Hai visto dov’è andato? – le chiese Stano, la bambina gli indicò la strada che portava al fiume. Stano la consolò, l’abbracciò e le promise che avrebbe cercato di riportarle la bambola, poi prese la bici e pedalò veloce giù al fiume.
Lo trovò lì, seduto immobile sulla riva con la bambola in mano. La stava fissando con uno sguardo intenso e curioso.
Stano si avvicinò cautamente per non farsi sentire, ma FrankenPlush non sembrava badargli. Arrivò fino al suo fianco, il pupazzo ruotò la testa dando uno sguardo veloce verso di lui, poi tornò a guardare la bambola.
FrankenPlush mostrò la bambola dal sorriso raggiante, gli occhi dolci e la faccia paffutella a Stano, poi con la sua zampetta di topolino indicò il suo viso ricucito e raffazzonato, e anche tutto sé stesso.
Cercò pure di farfugliare qualcosa, i suoi occhi erano tristi e se avessero potuto avrebbero versato qualche lacrima. Stano capì: – Mi stai chiedendo perchè ti ho fatto così… ? FrankenPlush annuì debolmente.
Stano non sapeva cosa rispondergli, per lui era stato un semplice scherzo, ma ora la sua creazione era lì davanti a lui, brutta e fatta male, ma piena di vita. E non capiva perché tutti avessero così paura di lui.
Stano si sedette vicino a FrankenPlush in silenzio, poi gli accarezzò la testolina. Il pupazzo si inclinò leggermente verso di lui, finché Stano non lo abbracciò forte forte.
– Ti voglio bene FrankenPlush, sei il pupazzo più straordinario che io abbia mai avuto – disse Stano. FrankenPlush si strinse forte al suo braccio, ringraziandolo.
– Dobbiamo riportare la bambola alla bambina! – disse di soprassalto Stano ricordandosi della promessa fatta. Corsero allora con la bici al parchetto, la bambina stava attendendo ansiosa la sua cara bambola.
Quando vide FrankenPlush la bimba si ritrasse paurosa, ma poi il pupazzo gliela porse gentilmente e cercò di scusarsi a suo modo. La bambina prese fra le braccia la sua bambola e guardando in faccia FrankenPlush, vide che aveva lo sguardo buono di chi vuole scusarsi.
La bimba gli sorrise, ora non aveva più paura di lui, anzi chiese come si chiamava. – FrankenPlush! – rispose orgoglioso Stano.
Passarono quindi da tutte le persone che FrankenPlush aveva spaventato per scusarsi delle marachelle e rimediare se possibile.
La signora del bar, all’inizio molto arrabbiata, dopo le scuse lo prese in braccio e lo coccolò con amore. Il panettiere finì per regalargli una focaccia, la fioraia dopo una bella chiaccherata con Stano disse che FrankenPlush era il pupazzo più straordinario del quartiere e la vicina di casa, colpita dalla dolcezza di Frankenplush gli chiese se voleva passare ogni tanto a farle compagnia.
Tutti dopo che lo ebbero conosciuto per davvero, non ebbero più paura di lui.
Neppure Sveva, che appena lo rivide scappò a nascondersi dietro al divano, ma poi dopo che FrankenPlush la abbracciò dolcemente facendo le fusa, iniziò a riempirlo di bacetti e carezze.
E tutte le volte che poteva cercava di rubarlo al fratello per giocarci insieme. Non capita tutti i giorni di avere un pupazzo che salta, balla, fa le linguacce e anche le pernacchie!
FrankenPlush era finalmente felice, e la sera Stano lo prendeva con sé, lo metteva nel lettino e gli teneva forte la zampetta. Così tutti e due avrebbero fatto di sicuro dei magnifici e stupendi sogni.
Che barba e che noia stare tutto il tempo da soli al cimitero…
Scheletrino e il suo nuovo amico Fantasmino si lanciano in un’avventura alla ricerca del Grande Mago della Foresta Oscura per chiedergli un favore, ma il “Grande Mago” non sembra volerli accontentare…
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Scheletrino!
Scheletrino e la maledizione di Halloween 💀 racconto completo
Era una notte buia buia e Scheletrino stava guardando il primo spicchio di luna crescente nel cielo pieno di stelle.
Scheletrino abitava in un piccolo e sgangherato cimitero di montagna, talmente piccolo che praticamente c’erano solo mamma, papà e le due bisbetiche zie… Una noia mortale.
A fargli compagnia c’erano solo gli animaletti del bosco e la luna d’argento.
Ma quella sera buia buia, mentre guardava la luna spostarsi piano piano nel cielo, sentì uno strano rumore provenire da appena fuori il cancello del cimitero.
Scheletrino corse a vedere cosa succedeva, e dietro ad una delle siepi vide qualcosa color bianco etereo che si muoveva.
Si avvicinò piano piano, senza far rumore, quando all’improvviso, dalla siepe…
‒ Bhoooooo!
Scheletrino fece un balzo all’indietro per lo spavento, mentre il Fantasmino che era saltato fuori dalla siepe ridacchiava per lo scherzo riuscito.
‒ Ti sei spaventato? ‒ chiese il Fantasmino mentre lo aiutava a rialzarsi da terra. ‒ Un po’…. ma tu chi sei? ‒ Sono Fantasmino, passavo di qua per caso e volevo vedere se c’era qualcuno con cui passare un po’ di tempo, sto facendo un lungo viaggio sai…
‒ Ci sono solo io sveglio… gli altri dormono tutti, ma che viaggio stai facendo? ‒ Sto andando dal Grande Mago della Foresta Oscura per chiedergli un favore. ‒ E cosa vuoi chiedergli?
‒ Di ritornare in carne ed ossa, mi ha raccontato una strega che lui può farlo… Vuoi venire con me? ‒ no… non posso, se vado via senza dire nulla a mamma e papà poi si arrabbiano ‒ disse poco convinto Scheletrino. ‒ Ma va’, vedrai ci mettiamo un attimo, domani mattina saremo di ritorno e nessuno si sarà accorto di nulla! ‒ gli sorrise Fantasmino.
Scheletrino ci pensò un attimo, pensò alla sua noiosa vita nel piccolo cimitero sgangherato e alle sue zie insopportabili. ‒ Ok vengo! ‒ e iniziarono a correre per il sentiero che portava al Bosco Oscuro.
Dopo poco sentirono un rumore metallico non molto lontano da loro. Era un treno che si stava fermando alla stazione.
Scheletrino disse a Fantasmino: ‒ E se prendiamo il treno? Così arriviamo Prima! ‒ Ottima idea compagno! rispose Fantasmino.
Così salirono sul treno, Scheletrino dalla porta del vagone, Fantasmino attraversando il finestrino della carrozza, sbucando e sedendosi di fianco ad un distinto uomo d’affari di ritorno dal lavoro.
L’uomo, avvertendo qualcosa di strano al suo lato, si voltò verso Fantasmino che…
‒ Bhoooooo!
L’uomo urlò talmente forte per lo spavento che tutti nel vagone si girarono a guardarlo mentre fuggiva via a gambe levate dalla carrozza. Poi quando gli altri occupanti della carrozza videro Scheletrino che li salutava felice, scapparono tutti urlando anche loro.
‒ Perchè vanno via urlando? ‒ chiese Scheletrino deluso. ‒ Penso perchè non gli piace il nostro aspetto ‒ rispose Fantasmino che stava ancora ridendo per la scena divertente della gente che scappava terrorizzata ‒ meglio così, viaggeremo comodi comodi. Scheletrino e Fantasmino si sedettero e il treno ripartì.
Arrivarono finalmente alla stazione di Foresta Oscura, dove scesero tra le urla spaventate di tutti i viaggiatori, ma loro non ci fecero caso e proseguirono per il sentiero che attraversava il bosco.
‒ Ma tu sai dove stiamo andando? ‒ chiese Scheletrino. ‒ Certo! Dobbiamo trovare la grande Quercia Maledetta, ha un grande buco proprio al centro del tronco, e dentro ci vive il grande Mago. “Dev’essere proprio grande questa quercia se dentro ci vive addirittura un mago!” pensò Scheletrino.
Si addentrarono nel bosco, e man mano che camminavano incontravano tanti animaletti, tutti che scappavano via urlando di paura non appena li vedevano passare.
Solo una civetta dagli occhi gialli che brillavano nel buio non ebbe paura di loro, anzi domandò dall’alto del suo ramo: ‒ Cosa ci fate qui nella Foresta Oscura? ‒ Stiamo cercando la grande Quercia Maledetta, dobbiamo parlare col grande Mago! ‒ rispose Fantasmino. ‒ Il grande Mago? Mai sentito nominare… però se cercate la grande Quercia Maledetta siete sulla strada giusta, la troverete poco più avanti non farete fatica a notarla, i suoi rami argentei brillano nel buio ‒ e detto questo volò via.
Cammina cammina i due erano ormai arrivati nel profondo della Foresta Oscura, dove era più buio della notte buia, e il silenzio era talmente denso che metteva i brividi anche a due come Scheletrino e Fantasmino.
Poi la videro, i suoi rami d’argento brillavano nel buio come aveva detto la civetta! Finalmente erano arrivati alla grande Quercia Maledetta.
‒ Scusi grande Mago è in casa? ‒ disse Fantasmino. Nessuno rispose. ‒ Grande Mago?! ‒ Dal buco della grande quercia si udì un rumore, poi due occhi di fuoco immersi nel buio spuntarono dal buco al centro dell’albero.
‒ Chi siete voi, e cosa volete!? ‒ rispose un vocione grosso e rauco. ‒ Siamo Fantasmino e Scheletrino e volevamo chiederti un favore… ‒ No! ‒ Rispose il vocione socchiudendo gli occhi di fuoco.
‒ Ma la Strega Griselda mi ha detto che tu esaudisci i desideri… Ci fu un momento di silenzio assoluto nella foresta, poi: ‒ Si ma solo nella notte di Halloween. ‒ Domani è Halloween! ‒ esclamò Scheletrino ‒ aspetteremo qui!
Dall’interno dell’albero si sentì un rumoraccio tipo imprecazione. ‒ Ma serve che ci sia anche la luna piena! ‒ rispose il vocione.
Scheletrino e Fantasmino si guardarono sconsolati in faccia, la prossima luna piena sarebbe stata tra 28 giorni e Halloween sarebbe passato da un pezzo. ‒ Ma non puoi aiutarci lo stesso? abbiamo fatto tanta strada… ‒ No! E ora sparite da qui! ‒ Ma dai, sei un grande Mago tu, facci un piccolo piacere… ‒ No! Sparite! ‒ e visto che i due non sembravano per nulla intenzionati ad andarsene, dal buco nella Quercia Maledetta vennero lanciate delle ghiande. Una colpì in testa Scheletrino, l’altra trapassò senza problemi il corpo di Fantasmino.
“Ghiande?” pensarono entrambi. Fantasmino si avvicinò a Scheletrino e sottovoce gli disse: ‒ Adesso gli faccio lo scherzetto… ‒ e ridendo sotto i baffi scivolò veloce fin sotto la Quercia maledetta e attraversò il tronco sbucando all’interno del buco.
‒ Bhoooooo! ‒ AHHHHRRRRGGGGG ‒ si sentì urlare da dentro il buco, e poi veloce come un fulmine sbucò un opossum che saltò giù dal tronco terrorizzato
‒ E tu saresti il grande Mago?! ‒ chiese Scheletrino sconcertato. ‒ No! sono il vecchio Opossum e non faccio nessuna magia, volevo solo prendere in giro due sprovveduti come voi! ‒ gridò. ‒ Ma la Strega Griselda mi aveva detto che… ‒ Di’ alla tua amica strega di aggiornarsi… il grande Mago è già da un secolo che non abita più qui, si era stufato di tutto questa noiosa foresta e ora vive su una spiaggia dei Caraibi… e ora tornatevene a casa che sta per diventare mattino!
Scheletrino e Fantasmino, tristi per la notizia e per il fatto che nessuno avrebbe esaudito i loro desideri, tornarono mestamente a casa.
Arrivati all’ingresso del cimitero si salutarono. ‒ Ciao Scheletrino, mi ha fatto piacere averti come compagno di viaggio. ‒ Ciao Fantasmino, anche a me è piaciuta la nostra avventura, sai qui è una noia mortale, non succede mai niente… ‒ Allora vorrà dire che andremo a fare qualche altro viaggetto io e te… ‒ sorrise furbamente Fantasmino. ‒ Ma certo! Ora però devo andare, che sennò chi la sente mia mamma…
Ma Scheletrino non fece in tempo a mettere piede nel suo sgangherato cimitero, che dal fondo di una tomba arrivò tonante la voce della mamma che lo chiamava per nome… ‒ Scheletrinooooooooooo…
Ma i fantasmi sono tutti cattivi? A volte ce ne sono alcuni che sono solo molto golosi di dolci…
Noi di fabulinis questa volta abbiamo giocato a inventare una storia su Halloween ispirandoci un po’ alla tradizione e un po’ alla nostra fantasia. Divertiti ad ascoltare la storia del fantasma golosone, e attento a non farti mangiare le caramelle!
C’erano quattro piccoli amici che il pomeriggio del 31 ottobre, prima della notte di Halloween, si erano ritrovati al parchetto del paese. Erano già vestiti pronti per andare a fare “dolcetto o scherzetto” in tutte le case, ma prima volevano decidere che giro fare, e dove era meglio bussare…
– Io so che i genitori di Giorgino hanno la dispensa piena zeppa di dolci! – disse Lino. – Ma anche Anita ha le tasche sempre piene di caramelle, e va in giro a vantarsene! – disse Adele. – Bene – disse Dino, il fratello di Lino – inizieremo a bussare proprio da loro. – E non dimentichiamoci dei vecchietti in fondo alla strada, ogni volta che li incontro mi allungano sempre un cioccolatino! – disse infine Tamara, e tutti annuirono.
Ma da nord arrivò una folata di vento gelido che li fece rabbrividire, e in pochi minuti tante nuvolone grigie iniziarono a formarsi sopra le loro teste. – Mi sa che sta per piovere… – disse preoccupata Adele. – Speriamo di no! – dissero in coro gli altri tre – sennò stasera niente “dolcetto o scherzetto”! – Conviene tornare a casa, prima che piova – disse Tamara.
Il parchetto dove si erano ritrovati, non era proprio in centro al paese, anzi, era più vicino al bosco, che alle case. E se si fosse messo a piovere, avrebbero dovuto correre a gambe levate! Ma proprio in quel momento si sentì il rombo di un tuono. I quattro bimbi non ebbero nemmeno il tempo di alzare lo sguardo al cielo, che già pioveva a dirotto. – Scappiamo! – gridò Dino. – Ma arriveremo a casa bagnati fradici! – rispose Tamara. – Dobbiamo trovare un riparo. Guardate la! – disse Adele indicando una casetta malconcia e dalle finestre sempre chiuse, appena fuori dal boschetto.
– Ma quella è una casa infestata dai fantasmi! – disse Lino. Ma gli altri tre stavano già correndo verso la casetta, così anche Lino si mise a correre, prima di ritrovarsi zuppo d’acqua.
I quattro si erano riparati sotto la veranda di quella casetta, che avevano sempre visto disabitata. Le finestre erano sempre state chiuse, e non avevano mai visto nessuno uscire o entrare da quella porta. Proprio per questo tutti i bambini del paese la chiamavano “la casa dei fantasmi”. Adele, che era abituata a frequentare case dove succedevano un sacco di cose strane (sua zia Greta era una strega, ma lei ancora non lo sapeva), non aveva mai dato peso a tutte quelle storie. L’importante era trovare un riparo per non bagnarsi e sgualcire il bellissimo costume da streghetta che indossava per Halloween.
– Speriamo che smetta di piovere presto – disse Tamara, stringendosi nel suo costume da zucca per il freddo. – Guardate qui! – disse Dino – la porta è aperta! – e aprì per bene la porta d’ingresso per darci uno sguardo dentro. – Ma lì dentro ci sono i fantasmi! Stai attento Dino! – gli gridò suo fratello Lino. – Io non credo ai fantasmi – disse Adele, e fece due passi per sbirciare dentro anche lei.
La casetta era buia, ma un po’ di luce filtrava dalle persiane mezze rotte. Dentro c’erano un tavolo e alcune sedie, una cucina e un divano. In fondo alla stanza si intravedevano le scale per andare al piano di sopra. – C’è nessuno? – disse timidamente Tamara, ma nessuno rispose.
Al piano di sopra, però, stava dormendo un fantasmino, che sentito tutto quel baccano decise di sbirciare al piano di sotto. Per lui era facile: siccome era un fantasma, gli bastava attraversare con la faccia il soffitto. – Quei monelli sono venuti a disturbarmi, devo mandarli via subito di qui! – disse sottovoce il piccolo fantasma.
Poi guardando meglio, vide che i quattro bimbi erano tutti vestiti per la notte di Halloween. – Se sono vestiti per Halloween, vuol dire che sono pieni di dolcetti e caramelle! Mmm… che voglia di dolci che ho, devo prenderglieli tutti!
Così il fantasma, senza farsi vedere, scivolò dietro di loro e con un colpo chiuse la porta alle loro spalle. I quattro bimbi gridarono tutti per lo spavento! Si precipitarono alla porta per uscire, ma la trovarono chiusa e non riuscivano ad aprirla.
Lino iniziò a piagnucolare: – Lo sapevo che questa casa è infestata dai fantasmi… Proprio in quel momento si sentì un “Buuuuuuuuuu” provenire dal piano di sopra. Tamara, Lino e Dino si strinsero forte forte tra loro, sussultando.
– Bimbi monelli, siete venuti a disturbarmi! Se volete che vi lasci in pace dovete darmi tutte le vostre caramelle! – Ma noi non abbiamo caramelle! – rispose Adele. – Non dite bugie, siete vestiti per Halloween e ad Halloween ci si riempie le tasche di dolcetti! – rispose il fantasma.
– Ma noi non siamo ancora andati in giro per le case! E’ ancora presto e siamo entrati qui solo perché fuori è cominciato il temporale – continuò Adele. – Ma davvero? – rispose il fantasmino, che non sapeva esattamente che ore erano. I quattro annuirono e risposero in coro – Siii…
Il fantasma decise allora di farsi vedere. Era bianco, pallido e semitrasparente, e Lino per la paura si nascose dietro a suo fratello Dino. Tutti e quattro i bimbi rimasero comunque impressionati.
– Ma allora i fantasmi esistono veramente… – esclamò Tamara. – Certo che esistono! –rispose il fantasma. Adele ci rimase un po’ male, lei era convinta che i fantasmi non esistessero.
– Ma tu sei un fantasma cattivo? – chiese Tamara leggermente impaurita. – Io cattivo? Ma no! Io sono un fantasma buono. Vi ho fatto paura solo perché avevo una gran voglia di dolci… è un sacco che non ne mangio, sapete sono tanto goloso…
– Come ti chiami? – chiese Dino. – Mi chiamo Bruno. – Io sono Dino, questo bimbo pauroso è mio fratello Lino e queste sono le mie amiche Adele e Tamara. Si presentarono tutti.
– Scusaci se siamo entrati in casa tua senza il permesso – disse Adele – ma forse possiamo aiutarci a vicenda… Gli altri bimbi e il fantasmino Bruno la guardarono con curiosità. – Questa sera potresti farci compagnia mentre andiamo per le case a chiedere “dolcetto o scherzetto”, e sono sicura che tu sarai bravissimo a spaventare la gente! Sai quanti dolci riusciremo a racimolare?! – propose Adele.
Si guardarono tutti in faccia, era un’ottima idea! Anche Lino, che ormai non aveva più paura di Bruno, ne fu entusiasta. Bruno aprì la porta e tutti guardarono fuori. Il temporale era passato e il cielo era diventato tutto arancione per il tramonto. Così poterono tornare a casa di corsa a prepararsi per la serata. Tutti assieme andarono a bussare alle porte delle case del paese, e quando aprivano Bruno faceva dei “buuuuu” spaventosissimi.
Così le loro tasche si riempirono di caramelle e dolci, e passarono tutti una bellissima serata.
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del piccolo principe!
Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 9
C’era, accanto al pozzo, un rudere di un vecchio muro di pietra. contro ogni speranza ero riuscito a riparare il mio aereo e, quando tornai la sera successiva, vidi da lontano il mio piccolo principe seduto lassù, con le gambe penzoloni. Stava parlando con qualcuno: – Quindi non ricordi? – disse – Non è proprio qui!
Qualcuno gli rispose, perchè poi aggiunse: – Sì! Sì! Il giorno è giusto, ma non il posto… Camminai verso il muro, ancora non vedevo né sentivo nessuno, eppure il piccolo principe rispose ancora: – … certo… Vedrai la mia traccia nella sabbia, devi solo aspettarmi lì. Ci vediamo stasera…
Ero a pochi metri dal muro e ancora non riuscivo a vedere nulla. Il piccolo principe dopo un breve silenzio disse ancora: – Hai del buon veleno? Sei sicuro che non mi farai soffrire a lungo?
Mi fermai. Il mio cuore sprofondava, ma continuavo a non capire. – Ora vattene – disse – voglio tornare giù!
Così abbassai gli occhi anch’io e saltai dallo spavento! C’era uno di quei serpenti gialli che se ti mordono ti uccidono in trenta secondi. Il serpente si lasciò sprofondare dolcemente nella sabbia e sparì.
Arrivai al muro giusto in tempo per prendere al volo il mio piccolo principe, pallido come la neve. – Cosa significa?! Perché parlavi col serpente?!
Lo feci bere, non osavo chiedergli altro. Mi guardò cupo in viso e mi mise le braccia al collo. Sentivo il suo cuore battere come quello di un uccello morente a cui hanno sparato con un fucile.
Lui mi disse: – Sono contento che tu abbia abbia riparato il tuo aereo, ora puoi tornare a casa… – Come lo sai? Non mi rispose, ma ha aggiunse: – Anche io oggi vado a casa… – poi malinconicamente – è molto più lontano… è molto più difficile…
Sentivo che stava accadendo qualcosa di straordinario. Lo stringevo forte fra le braccia come un bambino, eppure mi sembrava che stesse sprofondando in un abisso senza che io potessi fare nulla per trattenerlo…
Aveva uno sguardo serio, perso molto lontano: – Ho le tue pecore, e ho la cassetta e la museruola… – sorrise malinconicamente.
Aspettai a lungo, sentivo che a poco a poco si stava scaldando: – Hai paura…? – aveva molta paura, ovviamente! Ma sorrise: – Sarò molto più spaventato stasera…
Di nuovo mi sentii congelare al pensiero di quello che poteva succedere, e capii che non potevo sopportare l’idea di non sentire mai più quella risata. Per me era come una fontana nel deserto.
– Piccolo principe, voglio ancora sentirti ridere… Ma lui mi disse: – Stasera, sarà un anno che ho lasciato il mio pianeta, la mia stella sarà proprio sopra dove sono caduto l’anno scorso…
– É solo un brutto sogno… il serpente, l’appuntamento con una stella… vero? Ma senza rispondermi disse: – Ciò che è importante, non si vede… – Certo… – È come il fiore. Se ami un fiore che è su una stella, è dolce di notte guardare il cielo. Tutte le stelle sono fiorite. – Certo…
– Guarderai le stelle di notte. La mia stella è troppo piccola per mostrarti dov’è, meglio così… sarà per te una delle tante stelle, e ti piacerà guardarle… saranno tutte tue amiche. E poi ti faccio un regalo… – e rise di nuovo. – Ah! Piccolo uomo… mi piace sentire quella risata!
– Sarà questo il mio regalo… sarà come per l’acqua… – Cosa intendi? – Le stelle non sono tutte uguali per le persone: per quelli che viaggiano, le stelle sono guide. Per altri non sono altro che piccole luci. Per altri ancora sono problemi. Per il mio uomo d’affari erano oro. Ma tutte quelle stelle tacciono… tu, avrai stelle che nessuno ha…
– Cosa intendi? – Quando guarderai il cielo, di notte, visto che io vivrò su una di esse e riderò, allora sarà per te come se ridessero tutte le stelle. Avrai stelle che sanno ridere! E rise di nuovo.
– Sarai felice di avermi conosciuto, tu sarai sempre mio amico. Avrai voglia di ridere con me, e a volte aprirai la tua finestra, proprio così, per divertirti… e i tuoi amici saranno molto sorpresi di vederti ridere mentre guardi il cielo. Allora dirai loro: “Sì, le stelle mi fanno sempre ridere!” E penseranno che sei pazzo. Ti ho fatto uno scherzo molto brutto… E rise di nuovo.
– Sarà come se ti avessi dato, al posto delle stelle, mucchi di sonagli che sanno ridere… E rise di nuovo. Poi tornò serio: – Questa notte…sai, non venire.
– Non ti lascerò. – Sembrerà che io stia soffrendo… sembrerà un po’ come se stessi morendo… non venire a vederlo, non ne vale la pena…
– Non ti lascerò. Era preoccupato per me. – È per via del serpente… i serpenti sono cattivi, potrebbe morderti…
– Non ti lascerò. Ma qualcosa lo rassicurò: – È anche vero però che non hanno veleno per un secondo morso…
Quella notte non lo vidi partire, era scappato senza far rumore. Quando riuscii a raggiungerlo, camminava deciso con passo rapido. Mi disse solo: – Ah! Sei tu… E mi prese per mano, ma si rabbuiò: – Stai sbagliando, ne soffrirai… sembrerò morto, ma non sarà vero…
Rimasi in silenzio. – Capisci… è troppo lontano! Non posso portare con me questo corpo, è troppo pesante…
Rimasi in silenzio. – Sarà come una vecchia scorza abbandonata. Non sarà che una triste vecchia scorza…
Rimasi in silenzio. Si scoraggiò un poco, ma si fece forza: – Sarà bello, sai? Anch’io guarderò le stelle… tutte le stelle saranno pozzi con una carrucola arrugginita, tutte le stelle mi verseranno da bere…
Rimasi in silenzio. – Sarà così divertente! Tu avrai cinquecento milioni di sonaglietti, io avrò cinquecento milioni di fontane… E anche lui tacque, perché piangeva…
– È qui. Lasciami andare da solo. E si sedette perché aveva paura.
Poi disse: – Sai… il mio fiore… ne sono responsabile! Ed è così debole! Ed è così ingenuo… ha quattro spine inutili per proteggersi dal mondo… Mi sedetti pure io, perché non riuscivo più a stare in piedi.
– Questo è tutto… – concluse il piccolo principe. Esitò ancora un po’, poi si alzò. Fece un passo. Io non riuscivo a muovermi.
Non ci fu che un lampo giallo vicino alla sua caviglia. Rimase immobile per un momento. Non gridò. Poi cadde dolcemente senza nemmeno un rumore, sulla morbida sabbia.
EPILOGO
Sono già passati sei anni… Non ho mai raccontato questa storia prima. Gli amici che mi hanno rivisto tornare sono stati molto felici di vedermi vivo. Ero triste, ma dissi loro che era per la stanchezza…
So benissimo che è tornato sul suo pianeta, perché, all’alba, non trovai il suo corpo. Non era un corpo così pesante… Adesso mi piace ascoltare le stelle di notte, sono come cinquecento milioni di sonaglietti…
Guardai il disegno della museruola: l’avevo disegnata senza il cinturino in pelle! Non avrebbe mai potuto legarla al muso delle pecore. “Cosa sarà successo sul suo pianeta? Forse le pecore hanno mangiato il fiore… ma certo che no! Il piccolo principe ogni notte rinchiude il suo fiore sotto una teca di vetro, e guarda attentamente le sue pecore…”
Quindi sono felice.
E tutte le stelle sorridono dolcemente.
È un grande mistero questo. Per te che ami il piccolo principe, come per me, niente nell’universo è uguale se da qualche parte, non sappiamo dove, una pecora che non conosciamo ha mangiato una rosa, o forse no…
Guarda il cielo. Chiediti: le pecore hanno mangiato il fiore o no? E vedrai come tutto cambia…
E nessun adulto capirà mai perché conta così tanto!
Un giorno disegnai il paesaggio più bello e più triste del mondo: un deserto. È lo stesso paesaggio in cui il piccolo principe è apparso sulla terra, e poi è scomparso.
Se mai viaggerai in Africa, nel deserto, ti prego di non avere fretta, aspetta solo un po’ sotto le stelle!
Se poi un bambino viene da te, se ride, se ha i capelli d’oro e se non risponde mai quando viene interrogato, indovinerai chi è. Quindi sii gentile, non lasciarmi così triste: scrivimi presto che il piccolo principe è tornato…
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
Speriamo che questo adattamento vi sia piaciuto!
😊
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Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del piccolo principe!
Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 8
– Buongiorno – disse il piccolo principe. – Buongiorno – disse il controllore dei treni. Dopo tanto viaggiare il piccolo principe aveva trovato una stazione dei treni, e finalmente, gli uomini.
– Cosa stai facendo qui? – Smisto i viaggiatori in pacchi da mille – disse il controllore. Passò un treno veloce che fece tremare la cabina del controllore.
– Hanno fretta. – disse il piccolo principe – Cosa stanno cercando? – Anche chi guida il treno lo ignora – disse il controllore. E passò un altro treno veloce nella direzione opposta.
– Stanno già tornando? – chiese il piccolo principe. – Non è lo stesso treno… – rispose il controllore. – Non erano felici dov’erano? – Non si è mai felici dove si è – disse il controllore.
E passò rombando un terzo treno veloce. – Inseguono il primo treno? – chiese al piccolo principe. – Non stanno inseguendo proprio niente – disse il controllore – dormono lì dentro, oppure sbadigliano. Solo i bambini schiacciano il naso contro i vetri per guardare fuori.
– Solo i bambini sanno quello che cercano… – disse il piccolo principe – perdono tempo per una bambola di pezza e lei diviene così importante che, se gli viene tolta, piangono… – Sono fortunati – disse il controllore.
E il piccolo principe continuò il suo viaggio.
– Buongiorno – disse il piccolo principe. – Buongiorno – disse il venditore caramelle dissetanti. – Perché vendi queste caramelle? – È un grande risparmio di tempo, ne prendi una e per una settimana non senti più il bisogno di bere. Facendo i calcoli si risparmiano cinquantatré minuti a settimana.
– E cosa se ne fa di cinquantatré minuti? – Ci fai quello che vuoi… “Io, si disse il piccolo principe, se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei molto lentamente verso una fontana”. Il piccolo principe se ne andò…
Era ormai l’ottavo giorno nel deserto e avevo ascoltato la storia del mercante bevendo l’ultima goccia della mia scorta d’acqua: – Sono molto belli, i tuoi ricordi, ma non ho ancora riparato il mio aereo e non ho più niente da bere… sarei felice anch’io se potessi camminare molto lentamente verso una fontana!
Lui mi guardò e rispose: – Ho sete anche io… cerchiamo un pozzo.
Feci un gesto di stanchezza: è assurdo cercare un pozzo, a caso, nell’immensità del deserto. Tuttavia partimmo.
Dopo aver camminato per ore in silenzio arrivò la notte e le stelle cominciarono ad illuminarsi. Le vidi come in sogno, con un po’ di febbre, per la mia sete.
Le parole del piccolo principe danzavano nella mia memoria: – Anche tu hai sete? – Gli chiesi. Ma non mi rispose, mi disse semplicemente: – L’acqua può fare bene anche al cuore… Non capivo la sua risposta ma rimasi zitto, sapevo benissimo che non bisognava interrogarlo.
Era stanco, si sedette e io mi sedetti accanto a lui. Dopo un po’ di silenzio disse ancora: – Le stelle sono belle, per via di un fiore che non puoi vedere… – Certo – risposi e guardai, senza parlare, le pieghe della sabbia sotto la luna.
– Il deserto è bellissimo – aggiunse… Ed era vero. Ho sempre amato il deserto. Stavamo su una duna di sabbia, senza vedere niente, senza sentire niente, eppure qualcosa risplendeva nel silenzio…
– Ciò che rende bello il deserto – disse il piccolo principe – è che da qualche parte nasconde un pozzo… Fui sorpreso di capire improvvisamente questo misterioso splendore della sabbia. – Sì – dissi – che sia una casa, le stelle o il deserto, ciò che le rende belle è invisibile… – Sono contento – disse – che tu sia d’accordo con la mia volpe.
Quando il piccolo principe si addormentò, lo presi in braccio e ripartii. Mi sembrava di portare un fragile tesoro. Mi sembrava persino che non ci fosse niente di più fragile sulla Terra. Guardai, alla luce della luna, quella fronte pallida, quegli occhi chiusi, quelle ciocche di capelli che tremavano al vento, e mi dissi: “quello che vedo è solo apparenza, quello che più conta è invisibile…”
Mentre le sue labbra semiaperte abbozzavano un sorriso, mi dicevo ancora: “Ciò che mi commuove così tanto di questo piccolo principe addormentato è la sua fedeltà ad un un fiore, è l’immagine di una rosa che brilla in lui come la fiamma di una lampada, anche quando dorme…”
E intuii come fosse ancora più fragile. Bisogna proteggere bene le lampade, una folata di vento può spegnerle…
E camminando, all’alba, trovai il pozzo.
Il pozzo che avevamo raggiunto non assomigliava ad altri pozzi del Sahara, i pozzi sahariani sono semplici buchi scavati nella sabbia. Questo sembrava un pozzo di villaggio, ma lì non c’era nessun villaggio, e pensavo di sognare.
– È strano – dissi – è tutto pronto: la carrucola, il secchio e la fune… Il piccolo principe rise, tirò la corda e la carrucola cigolò. – Lascia fare a me – gli dissi – è troppo pesante per te.
Lentamente sollevai il secchio fino al bordo, nell’acqua ancora tremante vidi tremare il sole. – Ho sete, dammi da bere – disse il piccolo principe. E capii cosa stava cercando!
Portai il secchio alle sue labbra, bevve con gli occhi chiusi. L’acqua era dolce, era nata dal camminare sotto le stelle tutta la notte, dal cigolare della carrucola, dallo sforzo delle mie braccia. Faceva bene al cuore, come un regalo. Come quand’ero bambino e la luce dell’albero di Natale, la musica della messa di mezzanotte e la dolcezza dei sorrisi facevano risplendere i regali che ricevevo.
– Gli uomini del tuo pianeta – disse il piccolo principe – coltivano cinquemila rose nello stesso giardino… e non trovano quello che cercano…
– Non riescono a trovarlo – risposi. – Eppure quello che stanno cercando potrebbe essere trovato in una sola rosa o in un po’ d’acqua… – disse, e poi aggiunse: – Ma gli occhi sono ciechi, bisogna cercare con il cuore!
Bevvi anche io, stavo bene. La sabbia all’alba è color del miele. – Devi mantenere la tua promessa – mi disse piano il piccolo principe, che si sedette di nuovo accanto a me. – Quale promessa? – Sai…una museruola per la mia pecora…sono responsabile di quel fiore!
Tirai fuori dalla tasca i miei schizzi. Il piccolo principe li vide e disse ridendo: – I tuoi baobab assomigliano un po’ ai cavoli… – Oh! – dissi sottovoce, ero così orgoglioso dei miei baobab!
– La tua volpe…le sue orecchie…sembrano un po’ corna…e sono troppo lunghe! – e rise di nuovo. – Sei ingiusto, ometto, non sapevo disegnare… – Oh! andrà bene – disse – i bambini capiranno i tuoi disegni.
Quindi disegnai una museruola. Avevo il cuore pesante quando glielo diedi dicendogli: – Hai progetti che ignoro…
Senza rispondermi mi disse: – Sai, domani sarà un anno che sono arrivato qui sulla terra… ero caduto qui vicino… – e arrossì.
Senza capire perché provai uno strano dolore e gli domandai: – Quindi non è un caso che la mattina che ti ho incontrato, otto giorni fa, stavi camminando così, tutto solo, a mille miglia da tutte le regioni abitate… stavi tornando dove sei caduto?
Il piccolo principe arrossì di nuovo. Non ha mai risposto alle mie domande, ma quando arrossiva significava “sì”, vero? – Ora devi lavorare… torna al tuo aereo, ti aspetto qui. Torna domani sera…
Ma non ero per nulla rassicurato, mi ricordai della volpe: si rischia di piangere un po’ se ci lasciamo addomesticare…
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 7
Fu allora che apparve la volpe. – Buongiorno – gli disse. – Buongiorno – rispose il piccolo principe, che si voltò ma non vide nulla. – Sono qui, sotto il melo – continuò la volpe. – Chi sei? – disse il piccolo principe vedendola – sei piuttosto carina… – Sono una volpe – rispose.
– Vieni a giocare con me – aggiunse il piccolo principe – sono così triste… – Non posso giocare con te, non sono addomesticata. – Ah! Scusa – disse il piccolo principe che, dopo averci riflettuto, aggiunse: – Cosa significa “addomesticata”?
– Non sei di qui vero? – disse la volpe – cosa stai cercando? – Sto cercando gli uomini – disse il piccolo principe – Cosa significa addomesticata?
– È una cosa ormai dimenticata – disse la volpe – Significa “creare legami” – Creare legami? – Certo… per me tu sei solo un ragazzino simile a centomila altri ragazzini, e non ho bisogno di te. E neanche tu hai bisogno di me, ma, se mi addomestichi, avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai unico al mondo per me e io sarò unica per te.
– Comincio a capire… c’è un fiore… credo che mi abbia addomesticato… – È possibile – disse la volpe – succede di tutto sulla Terra…
– Oh, non è sulla Terra! – disse il piccolo principe. La volpe sembrava molto incuriosita: – Su un altro pianeta? – Sì.
– Interessante! – concluse la volpe, che poi continuò il suo discorso: – La mia vita è monotona, io caccio i polli, gli uomini danno la caccia a me. Tutti i polli sono uguali e tutti gli uomini sono simili, quindi sono un po’ annoiata. Ma, se mi addomestichi, la mia vita diventerà luminosa. Riconoscerò il tuo passo, che sarà diverso da tutti gli altri… e poi guarda i campi di grano laggiù, Il grano per me è inutile, ma tu hai i capelli d’oro come il grano, e questo mi farà ricordare di te.
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: – Per favore…addomesticami… – gli disse. – Volentieri – rispose il piccolo principe – ma non ho molto tempo. Ho amici da scoprire e tante cose da sapere.
– Conosciamo solo le cose che addomestichiamo. Gli uomini non hanno più il tempo di sapere nulla e comprano le cose già pronte… ma gli amici non si trovano in negozio e ormai gli uomini non hanno più amici… se vuoi un amico, addomesticami! – Cosa dovrei fare? – disse il piccolo principe. – Devi essere molto paziente – rispose la volpe – Per prima cosa ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e non dirai niente. La lingua è fonte di incomprensione, ma man mano che passano i giorni potrai sederti un po’ più vicino…
Il giorno dopo il piccolo principe tornò. – Sarebbe stato meglio tornare alla stessa ora – disse la volpe – Se vieni, per esempio, alle quattro del pomeriggio, alle tre comincerò ad essere felice. Più passa il tempo, più mi sentirò felice, e alle quattro sarò agitato e preoccupato; questo è il prezzo della felicità! Ma se ti presenterai in un momento qualsiasi, non saprò mai a che ora preparare il mio cuore… ci vogliono i riti.
– Cos’è un rito? – disse il piccolo principe. – È qualcosa di troppo dimenticato. – disse la volpe – Il rito è ciò che rende un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, tra i cacciatori: il giovedì ballano con le ragazze del villaggio, e quindi per loro il giovedì è una giornata meravigliosa! Se i cacciatori ballassero in qualsiasi momento, le giornate sarebbero tutte uguali…
Così il piccolo principe addomesticò la volpe, finchè non arrivò l’ora della sua partenza. – Piangerò – disse la volpe. – È colpa tua, tu hai voluto che ti addomesticassi… — disse il piccolo principe. – Hai ragione – disse la volpe. – Però ora piangerai! – continuò il piccolo principe. – Certo – rispose la volpe. – Quindi, cosa ci hai guadagnato?! – Ho guadagnato il colore del grano – disse la volpe – Vai a vedere di nuovo le rose, capirai che la tua è unica al mondo… poi torna a salutarmi e io ti farò dono di un segreto.
Il piccolo principe tornò a vedere le rose e capì che non erano affatto come la sua rosa, non erano niente di niente per lui.
– Voi siete belle, ma siete vuote per me – disse alle rose – La mia rosa vi somiglia, ma solo lei è importante per me, perché è lei che ho annaffiato, che ho protetto dal vento, che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi. Solo lei è la mia rosa.
E ritornò dalla volpe: – Addio… – le disse. – Addio… – disse la volpe – Eccoti il mio segreto, è molto semplice: si vede bene solo con il cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi.
– L’essenziale è invisibile agli occhi – ripeté il piccolo principe, per ricordarselo. – È il tempo che hai passato con la tua rosa che la rende così importante. – È il tempo che ho passato con la mia rosa… – ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
– Gli uomini hanno dimenticato questa verità – disse la volpe – non devi dimenticarlo: diventi responsabile per sempre di ciò che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa… – Io sono responsabile della mia rosa… – ripeté il piccolo principe, per ricordarselo.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 6
Il settimo pianeta fu quindi la Terra. La Terra non era un pianeta qualsiasi! C’erano centoundici re, settemila geografi, novecentomila uomini d’affari, sette milioni e mezzo di bevitori, trecentoundici milioni di vanitosi, e quasi due miliardi adulti.
Gli esseri umani occupano pochissimo spazio sulla terra, se stessero tutti in piedi e un po’ vicini tra loro, starebbero facilmente in una pubblica piazza lunga venti miglia e larga venti miglia. Potremmo stipare l’umanità sull’isolotto più piccolo del Pacifico.
Gli adulti, ovviamente, non ti crederanno, pensano di occupare molto spazio. Si considerano importanti come i baobab. Consigliate loro di fare il calcolo, amano i numeri: gli piacerà.
Il piccolo principe, una volta sulla terra, fu sorpreso di non vedere nessuno. Aveva già paura di aver trovato il pianeta sbagliato, quando vide qualcosa muoversi nella sabbia.
– Buongiorno – disse il piccolo principe educatamente. – Buongiorno – disse il serpente.
– Su quale pianeta sono? – chiese il piccolo principe. – Sulla Terra, in Africa – rispose il serpente. – Ah!… ma non c’è nessuno qui sulla Terra? – Qui sei nel deserto, non c’è nessuno nei deserti. La Terra è grande – disse il serpente.
Il piccolo principe si sedette su un sasso e guardò il cielo: – Mi chiedo se le stelle sono illuminate in modo che ognuno possa un giorno ritrovare la sua, guarda il mio pianeta, è lassù… Ma quanto è lontano!
– È bello – disse il serpente – Cosa ci fai qui? – Ho delle difficoltà con un fiore – disse il piccolo principe.
– Ah… – disse il serpente. Rimasero in silenzio.
– Dove sono gli uomini? – riprese finalmente il piccolo principe – Si è un po’ soli nel deserto… – Siamo soli anche tra gli uomini – disse il serpente.
Il piccolo principe lo guardò a lungo: – Sei una bestia buffa, sottile come un dito… – Ma io sono più potente del dito di un re – disse il serpente.
Il piccolo principe sorrise: – Non sei molto potente… non hai nemmeno le gambe… non puoi nemmeno viaggiare…
– Posso portarti più lontano di una nave – disse il serpente mentre avvolgeva la caviglia del piccolo principe come un braccialetto d’oro – chiunque tocco, lo faccio ritornare alla terra da cui è venuto. Ma tu sei puro e vieni da una stella… Il piccolo principe non rispose nulla.
– Mi fai pietà, così debole, su questa Terra di granito… Posso aiutarti un giorno, se ti mancasse troppo il tuo pianeta io posso… – Oh! Ho capito benissimo – disse il piccolo principe – ma perché parli sempre per enigmi? – Perché li risolvo tutti… – disse il serpente. E rimasero in silenzio.
Il piccolo principe si decise ad attraversare il deserto e incontrò solo un fiore, un piccolo fiore con solo tre petali… – Buongiorno – disse il piccolo principe. – Buongiorno – rispose il fiore. – Sai dove sono gli uomini? Il fiore qualche giorno prima aveva visto passare una carovana:
– Uomini? Ne ho visti sei o sette, ma non si sa mai dove trovarli, Il vento li fa vagare, mancano di radici…
Il piccolo principe ringraziandolo continuò il suo cammino salendo su un’alta montagna. Le uniche montagne che avesse mai conosciuto erano i suoi tre vulcani alti fino alle ginocchia, e usava il vulcano spento come sgabello. “Da una montagna così alta, pensò, vedrò tutto il pianeta e tutti gli uomini…” ma intorno a sè non vide altro che rocce aguzze.
– Buongiorno! – urlò al vento. “Buongiorno… buongiorno… buongiorno…” gli rispose l’eco. – Chi sei?! – disse il piccolo principe. “Chi sei… chi sei… chi sei…” rispose ancora l’eco. – Siate miei amici? Io sono solo – disse. “Io sono solo… io sono solo… io sono solo…” rispose l’eco.
“Che strano pianeta!” pensò allora il piccolo principe, “è tutto un deserto e agli uomini manca l’immaginazione, ripetono tutto quello che gli viene detto… almeno a casa mia avevo un fiore, e parlava sempre per primo…”
Ma accadde che il piccolo principe scoprì finalmente una strada e incontrò un giardino pieno di rose. – Buongiorno – disse il piccolo principe. – Buongiorno – risposero le rose. Il piccolo principe le guardò, sembravano tutte il suo fiore.
– Chi siete? – chiese loro, stupito. – Siamo rose. – Ah! – disse il piccolo principe…
Si sentiva molto triste, il suo fiore gli aveva detto che era l’unico della sua specie nell’universo. Ed ecco che qui invece ce n’erano cinquemila, tutti uguali, in un solo giardino!
“Pensavo di essere ricco con un fiore unico nel suo genere, e invece ho solo una comune rosa. Una rosa e tre vulcani che mi arrivano al ginocchio… non fanno di me un gran principe…” Si sdraiò sull’erba, e pianse.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 5
Il quinto pianeta era molto curioso. Era il più piccolo di tutti e c’era spazio appena sufficiente per una lanterna e per l’uomo che la accendeva.
Il piccolo principe pensò: “Forse quest’uomo è assurdo. Tuttavia, è meno assurdo del re, del vanitoso, dell’uomo d’affari e del bevitore, almeno il suo lavoro ha un senso… quando accende la sua lanterna è come se stesse dando alla luce una stella, o un fiore. Quando la spegne, fa addormentare il fiore o la stella. Questo lavoro è davvero utile e bellissimo”.
Si avvicinò salutandolo rispettosamente: – Buongiorno, perchè spegne la lanterna? – Questo è l’ordine – rispose l’uomo. – Qual è l’ordine? – È di spegnere la mia lanterna. E subito la riaccese.
– Ma perché l’ha riaccesa? – Questo è l’ordine – rispose l’uomo. – Non capisco – disse il piccolo principe. – Non c’è niente da capire – disse l’uomo della lanterna – un ordine è un ordine. E spense la lanterna.
Poi si asciugò la fronte con un fazzoletto e continuò:
– Faccio un mestiere terribile. Era ragionevole una volta, quando accendevo alla sera e spegnevo al mattino, avevo tutto il resto della giornata per riposarmi e il resto della notte per dormire…
– E da allora gli ordini sono cambiati? – Gli ordini non sono cambiati – disse l’uomo – È qui che sta il dramma! Il pianeta di anno in anno ha iniziato a ruotare sempre più velocemente e gli ordini non sono cambiati! Ora che il pianeta fa un giro completo al minuto, non ho mai riposo, accendo e spengo una volta al minuto!
– Bello! Da te le giornate durano un minuto! – Non è affatto bello! – disse l’uomo della lanterna – Lo sai che stiamo parlando insieme da un mese ormai? – Un mese?! – Sì, trenta minuti qui equivalgono a trenta giorni! – e riaccese la lanterna.
Il piccolo principe lo guardò e provò simpatia per lui. Ricordò i tramonti sul suo pianeta. Voleva fare qualcosa per lui: – Sai… conosco un modo per riposarti se vuoi… – Dimmi… – Il tuo pianeta è così piccolo che gli giri intorno in tre passi, devi solo camminare lentamente per stare sempre al sole. Quando vorrai riposarti camminerai… e la giornata durerà quanto vorrai.
– Non mi serve a molto, quello che vorrei poter fare è dormire… – Allora non hai fortuna – disse il piccolo principe. – Non ho fortuna – disse l’uomo – e spense la lanterna.
Questo, pensò il piccolo principe, proseguendo il suo viaggio, sarebbe stato disprezzato da tutti gli altri, dal re, dal vanitoso, dal bevitore, dal commerciante. Tuttavia, è l’unico che non mi sembra ridicolo, forse è perché si prende cura di qualcosa che non sia se stesso.
Sospirò e pensò che quella era l’unica persona che avrebbe potuto diventare suo amico. Ma quel pianeta era troppo piccolo e non c’era posto per due…
Ciò che il piccolo principe non osava ammettere a se stesso era che su quel pianeta avrebbe potuto vedere millequattrocentoquaranta tramonti ogni ventiquattro ore!
Il sesto pianeta era dieci volte più grande ed era abitato da un vecchio signore che scriveva libri enormi.
– Ecco un esploratore! – gridò quando vide il piccolo principe. Il piccolo principe si sedette sul tavolo e sospirò un poco. Aveva già viaggiato tanto!
– Da dove vieni? – gli chiese il vecchio signore. – Cos’è questo grande libro? Cosa stai facendo qui? – disse il piccolo principe. – Sono un geografo – disse il vecchio signore.
– Cos’è un geografo? – È uno studioso che sa dove sono i mari, i fiumi, le città, le montagne e i deserti. – Molto interessante – disse il piccolo principe e lanciò uno sguardo intorno a sé sul pianeta del geografo. Non aveva mai visto prima un pianeta così maestoso.
– È molto bello, il tuo pianeta. Ci sono oceani? – Non posso saperlo – disse il geografo. – Ah… – Il piccolo principe rimase deluso – E le montagne? – Non posso saperlo – rispose il geografo. – E città, fiumi e deserti? – Non posso sapere nemmeno quello – disse il geografo.
– Ma tu sei un geografo! – Esatto, ma non sono un esploratore! Su questo pianeta mancano gli esploratori… Il geografo non lascia mai il suo ufficio. Ma riceve gli esploratori, li interroga e prende nota dei loro viaggi.
E tu mi sembri proprio un esploratore! Descrivimi il tuo pianeta! Il geografo aprì il suo grande libro e affilò la sua matita. – Quindi? chiese il geografo.
– Oh! Il mio pianeta non è molto interessante, è piccolissimo. Ho tre vulcani, due attivi e uno spento.Ho anche un fiore.
– Noi geografi non annotiamo i fiori – disse. – Perchè?! Sono molto belli! – Perché i fiori sono effimeri. – Cosa significa “effimero”?
La “geografia” non passa mai di moda, è raro che una montagna cambi posto, è molto raro che un oceano si svuoti della sua acqua. Scriviamo cose eterne.
– Ma i vulcani spenti possono svegliarsi – lo interruppe il piccolo principe – Cosa significa “effimero”? – Se i vulcani sono estinti o svegli, per noi è la stessa cosa , ciò che conta per noi sono le montagne, quelle non cambiano. – Ma cosa significa “effimero”? – ripeté il piccolo principe che, in vita sua, non aveva mai rinunciato a una domanda una volta che l’aveva fatta.
– Significa “che scompare in fretta”. – Il mio fiore è destinato a scomparire in fretta? – Certo. Il mio fiore è effimero, si disse il piccolo principe, e ha solo quattro spine per difendersi dal mondo! E l’ho lasciato solo a casa! Questo fu il suo primo momento di rimpianto, ma riprese coraggio e chiese:
– Cosa mi consiglieresti di visitare? – Il “Pianeta Terra” – rispose il geografo – Ha una buona reputazione… E il piccolo principe se ne andò, pensando al suo fiore.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 4
Il secondo pianeta che visitò era abitato da un vanitoso:
– Ah! Ah! Arriva un ammiratore! – gridò il vanitoso non appena vide il piccolo principe. Perché, per i vanitosi, gli altri uomini sono ammiratori.
– Salve – disse il piccolo principe – Hai un buffo cappello. – È per salutare – rispose l’uomo vanitoso – è per salutare quando vengo acclamato, ma purtroppo nessuno passa mai di qui.
– Ah sì? – disse il piccolo principe, che non capiva. – Batti le mani – consigliò il vanitoso.
Il piccolo principe batté le mani e Il vanitoso si inchinò modestamente, sollevando il cappello. “È più divertente della visita al re” si disse il piccolo principe che ricominciò a battere le mani. L’uomo vanitoso riprese a salutare sollevando il cappello.
Dopo cinque minuti di battimani il piccolo principe si stancò della monotonia del gioco: – E per far cadere il cappello, cosa si deve fare? Ma l’uomo vanitoso non lo udì. I vanitosi non sentono altro che lodi.
– Mi ammiri molto? – chiese al piccolo principe. – Cosa significa ammirare? – Ammirare significa riconoscere che sono l’uomo più bello, più elegante, più ricco e più intelligente del pianeta.
– Ma sei solo sul tuo pianeta! – Fammi questo piacere, ammirami comunque! – Ti ammiro – disse il piccolo principe alzando le spalle, e non avendo più nulla da chiedere al vanitoso, se ne andò.
Gli adulti sono decisamente strani, si disse durante il suo viaggio.
Il pianeta successivo era abitato da un bevitore. Questa visita fu brevissima, ma fece venire al piccolo principe in una grande malinconia:
– Cosa fai? – chiese al bevitore, che trovò in silenzio davanti a una serie di bottiglie di vino vuote insieme ad altre piene. – Bevo – rispose con aria triste. – Perché stai bevendo? – chiese il piccolo principe. – Per dimenticare – rispose il bevitore.
– Per dimenticare cosa? – domandò il piccolo principe che già provava compassione per lui. – Per dimenticare che mi vergogno – confessò il bevitore, abbassando la testa. – Vergogna di cosa? – continuò il piccolo principe, che voleva aiutarlo.
– Mi vergogno di bere! – disse il bevitore che si chiuse poi in un cupo silenzio.
E il piccolo principe se ne andò, perplesso. Gli adulti sono decisamente molto, molto strani, si disse durante il viaggio.
Il quarto pianeta era abitato da un uomo d’affari. Era così impegnato che non alzò nemmeno la testa quando arrivò il piccolo principe.
– Ciao – gli disse – La tua sigaretta è spenta. – Tre e due fanno cinque, cinque e sette dodici, dodici e tre quindici. Buongiorno. Quindici e sette ventidue, ventidue e sei ventotto. Non ho tempo per riaccenderla. Ventisei e cinque trentuno… uff! Quindi sono cinquecentoeunmilioneseicentoventiduemilasettecentotrentuno!
– Cinquecento milioni di cosa? – Eh? Sei ancora qui? Cinquecento e un milione… non so… ho tanto lavoro! Dico sul serio, non perdo tempo a giocare! Due e cinque sette…
– Cinquecento milioni di cosa?! – ripeteva il piccolo principe, che mai in vita sua aveva rinunciato a una domanda una volta che l’aveva fatta.
L’uomo d’affari alzò la testa: – Nei cinquantaquattro anni che ho vissuto su questo pianeta, sono stato disturbato solo tre volte: la prima volta ventidue anni fa, da un insetto che mi girava intorno facendo un rumore terribile e ho commesso quattro errori in una sola aggiunta. La seconda volta è stata undici anni fa, per un attacco di reumatismi. La terza volta… eccolo! Quindi stavo dicendo cinquecento e un milione…
– Milioni di cosa? L’uomo d’affari capì che non c’era speranza di pace: – Milioni di quelle piccole cose che a volte vedi nel cielo. – Mosche? – No, piccole cose che brillano. – Api? – Ma no! Piccole cose d’oro che fanno sognare ad occhi aperti le persone pigre. Ma sono serio io! Non ho tempo per sognare ad occhi aperti.
– Ah! Le stelle!? – Giusto, le stelle. – E quindi ci sono cinquecento milioni di stelle?
– Cinquecentounomilioniseicentoventiduemilasettecentotrentuno. Sono un uomo serio io, sono uno preciso io. – E che cosa ci fai con le stelle?
– Cosa me ne faccio? – Sì. – Niente, le possiedo. – Possiedi le stelle? – Sì. – Ma ho incontrato un re che… – I re non possiedono, loro “regnano”, è molto diverso.
– E a che serve possedere le stelle? – Mi rende ricco. – E a che serve essere ricchi?
– A comprare altre stelle, se qualcuno ne trova.
“Questo ragiona un po’ come il bevitore” si disse il piccolo principe. Tuttavia, continuò con altre domande:
– Come si possono possedere le stelle? – Di chi sono? – ribatté, scontroso, l’uomo d’affari. – Non lo so, di nessuno. – Allora sono mie, perché ci ho pensato per primo io.
– E questo basta? – Certo. Quando trovi un diamante che non appartiene a nessuno, è tuo. Quando trovi un’isola che non appartiene a nessuno, è tua. Quando sei il primo ad avere un’idea, la brevetti ed è tua. Io possiedo le stelle, dal momento che nessuno prima di me ha mai pensato di possederle.
– E cosa ci fai? – Mi occupo di loro. Le conto e le riconto – disse. Il piccolo principe non era ancora soddisfatto.
– Io, se ho una sciarpa, posso metterla al collo e portarla via. Se ho un fiore, posso cogliere il mio fiore e portarlo via. Ma non puoi prendere le stelle! – No, ma posso depositarle.
– Cosa significa? – Significa che scrivo su un pezzo di carta il numero delle mie stelle. E poi chiudo quel pezzo di carta in un cassetto. – E questo basta? – Basta.
Il piccolo principe aveva idee molto diverse rispetto agli adulti su quali siano le cose serie.
– Io, disse ancora, ho un fiore che innaffio tutti i giorni. Ho tre vulcani che pulisco ogni settimana, e spazzo anche quello spento. È utile ai miei vulcani, ed è anche utile al mio fiore, che io li possegga. Ma tu non sei utile alle stelle…
L’uomo d’affari aprì la bocca ma non trovò nulla da poter dire per rispondere, e il piccolo principe se ne andò.
Gli adulti sono decisamente strani, si disse durante il suo viaggio.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 3
Imparai presto a conoscere meglio il fiore. Sul pianeta del piccolo principe, c’erano sempre stati fiori semplicissimi, che non occupavano spazio e che non disturbavano nessuno.
Ma questo fiore era germogliato da un seme portato da chissà dove, e il piccolo principe aveva osservato molto da vicino questo germoglio che non somigliava a nessun altro.
Poteva essere un nuovo tipo di baobab. Ma l’arbusto smise presto di crescere e iniziò a preparare un bocciolo di fiore.
Il piccolo principe assistette alla formazione del fiore che non aveva nessuna fretta di mostrarsi, sceglieva con cura i suoi colori e sistemava i petali uno per uno.
E infine un mattino si mostrò nel pieno del suo splendore, e disse sbadigliando: – Ah! Mi sono appena svegliato… scusami… sono ancora tutto arruffato…
Il piccolo principe non poté trattenere la sua ammirazione: – Come sei bello! – Vero – rispose il fiore. Il piccolo principe intuì che non era un fiore troppo modesto, ma era così tenero!
– Credo sia ora di colazione – aggiunse il fiore – saresti così gentile da pensare a me…?
Il piccolo principe, tutto confuso, andò a prendere un annaffiatoio e con l’acqua fresca gli diede da bere.
Il fiore iniziò subito a tormentare il piccolo principe con la sua vanità un po’ permalosa. Un giorno, per esempio, parlando delle sue quattro spine,gli disse: – Possono venire, le tigri, con i loro artigli! – Non ci sono tigri sul mio pianeta – obiettò il piccolo principe – e poi le tigri non mangiano l’erba. – Non sono un’erbaccia! – rispose il fiore. – Perdonami…
– Non ho paura delle tigri, ma odio le correnti d’aria… non potresti farmi un riparo? – e iniziò a tossire in modo forzato.
“Questo fiore è molto complicato…” pensò il piccolo principe, iniziando a dubitare della serietà del fiore. Gli costruì un globo di vetro con cui coprirlo la sera
– Non avrei dovuto ascoltarlo – mi confidò quel giorno – non bisogna mai ascoltare i fiori, basta guardarli e respirarli. Lui profumava tutto il mio pianeta, e mi rendeva felice… non avrei dovuto andarmene via, avrei dovuto intuire la sua tenerezza nascosta dalla sua vanità. I fiori sono così incoerenti, ma ero troppo giovane per apprezzarlo.
Immaginai il piccolo principe, la mattina della sua partenza, mettere in ordine il suo pianeta, pulire attentamente i suoi vulcani attivi. Aveva due vulcani attivi, comodi per riscaldare la colazione al mattino. Aveva anche un vulcano spento, ma siccome “non si sa mai”, pulì anche quello.
Se adeguatamente puliti, i vulcani bruciano lentamente e costantemente, senza eruzioni.
Il piccolo principe sradicò, con un po’ di malinconia, gli ultimi germogli di baobab. Pensava che non sarebbe mai più tornato. E, quando annaffiò il fiore e lo mise sotto il suo globo di vetro, scoprì di voler piangere.
– Addio – disse al fiore. Ma lui non gli rispose. – Addio – ripeté. Il fiore tossì. – Sono stato stupido – gli disse infine – ti chiedo scusa, cerca di essere felice.
Fu sorpreso dall’assenza di rimproveri da parte del fiore. Non capiva questa calma dolcezza.
– Ti voglio bene – disse il fiore – non te l’ho mai detto, cerca di essere felice anche tu e lascia stare questo globo di vetro, non lo voglio più! – Ma il vento… ? – Non ho molto freddo… L’aria fresca della notte mi farà bene. Sono un fiore. – Ma gli animali…? – Devo sopportare due o tre bruchi, ma poi conoscerò le farfalle… altrimenti chi mi farà compagnia? … tu sarai lontano… quanto alle grandi bestie, non temo nulla, ho i miei artigli.
E mostrò ingenuamente le sue quattro spine, poi aggiunse: – Non stare lì impalato, è fastidioso! Hai deciso di partire e allora vai!.
Non voleva che lo vedessi piangere. Era un fiore così orgoglioso…
Il piccolo principe partì, e il primo pianeta che visitò era abitato da un re. Il re, vestito di porpora ed ermellino, sedeva su un trono semplice ma maestoso.
– Ah! Ecco un suddito – gridò il re vedendo arrivare il piccolo principe. Il piccolo principe si domandò “Come può conoscermi visto che non mi ha mai visto prima?”
Non sapeva che per i re il mondo è semplice. Tutte le persone sono sudditi.
– Avvicinati, così posso vederti meglio – disse il re, che era molto orgoglioso di essere re per qualcuno. Il piccolo principe cercò un posto dove sedersi, ma il pianeta era tutto ingombrato dal magnifico mantello di ermellino. Così rimase in piedi e, stanco, sbadigliò.
– È contro l’etichetta sbadigliare in presenza di un re – gli disse il monarca – Lo proibisco. – Non posso farne a meno – rispose il piccolo principe – Ho fatto un lungo viaggio e non ho dormito…
– Allora ti ordino di sbadigliare, non vedo nessuno sbadigliare da anni. Andiamo! sbadiglia di nuovo. È un ordine.
– Non mi escono a comando… – disse il piccolo principe arrossendo.
Il re borbottò qualcosa seccato. Non era preoccupato per la sua autorità non rispettata, però non tollerava la disobbedienza. Era un monarca assoluto, ma siccome era anche molto bravo, dava ordini ragionevoli.
– Posso sedermi? – domandò timidamente il piccolo principe.
– Ti ordino di sederti – rispose il re, che maestosamente tirò indietro un lembo del suo mantello di ermellino.
Il piccolo principe fu sorpreso. Il pianeta era minuscolo. Su cosa potrebbe regnare il re?
– Sire… su cosa regni? – Su tutto – rispose il re, con grande semplicità. – Su tutto? Il re con gesto discreto indicò il suo pianeta, gli altri pianeti e le stelle.
– Su tutto questo? – chiese il piccolo principe. – Su tutto questo… – rispose il re.
Perché non solo era un monarca assoluto, ma era un monarca universale.
– E le stelle ti obbediscono?
– Certo – gli disse il re – Obbediscono immediatamente, non tollero l’indisciplina.
Tale potere stupì il piccolo principe. Se l’avesse avuto lui, avrebbe potuto assistere non a quarantaquattro, ma a settantadue, o anche a cento, o addirittura a duecento tramonti nello stesso giorno, senza dover mai spostare la sedia! E poiché si sentiva un po’ triste per il ricordo del suo piccolo pianeta abbandonato, chiese al re:
– Vorrei vedere un tramonto… Fammi un favore, ordina al sole di tramontare…
– Se ordinassi a un generale di volare da un fiore all’altro come una farfalla, o di trasformarsi in un uccello marino e non eseguisse l’ordine ricevuto, non sarebbe colpa del generale. Sarebbe colpa mia. Dobbiamo chiedere a ciascuno ciò che ciascuno può dare
– L’autorità si basa principalmente sulla ragione – continuò il re – Se ordinassi al mio popolo di gettarsi in mare, avrei una rivoluzione. Ottengo obbedienza perché i miei ordini sono ragionevoli.
– Quindi il mio tramonto? – gli ricordò il piccolo principe che non dimenticava mai una domanda una volta che l’aveva fatta. – Il tuo tramonto lo avrai, lo richiederò. Ma aspetterò finché le condizioni non saranno favorevoli. – Quando sarà? – domandò il piccolo principe. – Ehm… sarà… sarà… questa sera intorno alle sette e quaranta! E vedrai quanto bene sarò obbedito.
Il piccolo principe sbadigliò. Si dispiacque per il tramonto mancato. E poi iniziava ad annoiarsi: – Non ho più niente da fare qui – disse al re – parto!
– Non andare – rispose il re che era così orgoglioso di avere finalmente un suddito – Non andare, ti nomino ministro! – Ministro di cosa? – Di… di giustizia! – Ma qui non c’è nessuno da giudicare!
– Non si sa mai – gli disse il re – Non ho ancora visitato tutto il mio regno, sono molto vecchio e camminare mi stanca. – Oh! Ma io l’ho già visto – disse il piccolo principe sporgendosi per dare un’altra occhiata dall’altra parte del pianeta – Non c’è nessuno nemmeno lì…
– Giudicherai te stesso! – rispose il re – È molto più difficile giudicare se stessi che giudicare gli altri. Se riesci a giudicarti bene è perché sei una persona saggia. – Posso giudicarmi ovunque, non ho bisogno di vivere qui – rispose il piccolo principe.
Il piccolo principe, terminati i suoi preparativi per la partenza, non voleva dare troppo dolore al vecchio monarca: – Se Vostra Maestà volesse essere obbedita puntualmente, potrebbe darmi un ordine ragionevole. Potrebbe ordinarmi, per esempio, di andarmene entro un minuto. Mi sembra che le condizioni siano favorevoli…
Il re non rispose, il piccolo principe dapprima esitò, poi, con un sospiro, se ne andò.
– Ti nomino mio ambasciatore – si affrettò a gridare il re con una grande aria di autorità mentre il piccolo principe si allontanava.
Gli adulti sono molto strani, si disse il piccolo principe durante il suo viaggio.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
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Il Piccolo Principe 💫 CAPITOLO 2
Mi sento molto triste nel raccontare questi ricordi.
Sono già passati sei anni da quando il mio amico è andato via con le sue pecore.
Se provo a raccontarlo qui, è per non dimenticarlo. È triste dimenticare un amico. Non tutti hanno avuto un amico.
E rischio di diventare anch’io come gli adulti a cui interessano solo i numeri.
È anche per questo che ho comprato una scatola di colori e matite. È difficile tornare a disegnare, alla mia età.
Faccio qualche errore nel disegnarlo. Qui il piccolo principe è troppo grande. Lì è troppo piccolo. Sono anche titubante riguardo al colore del suo costume.
E sono sicuro che sbaglierò su alcuni dettagli più importanti, Ma perdonatemi, il mio amico non mi ha mai dato spiegazioni.
Forse pensava che fossi come lui, Ma io, purtroppo, non so vedere le pecore attraverso le scatole. Forse sono un po’ come gli adulti. Devo essere invecchiato.
Ogni giorno imparavo qualcosa di più sul suo pianeta, sulla partenza, sul viaggio.
È così che, il terzo giorno, ho vissuto il dramma dei baobab.
Anche questa volta è stato grazie alle pecore, perché all’improvviso il piccolo principe mi interrogò, come preso da un serio dubbio:
– È vero che le pecore mangiano gli arbusti? – Sì. È vero. – Meno male! Sono felice.
Non capivo perché fosse così importante che le pecore mangiassero gli arbusti. Ma il piccolo principe aggiunse:
– Quindi mangiano anche i baobab?
Gli dissi che i baobab non erano arbusti, ma alberi grandi come chiese e che, anche se portasse con sé un intero branco di elefanti, questo branco non supererebbe un solo baobab.
L’idea del branco di elefanti fece ridere il piccolo principe: – Bisognerebbe metterli uno sopra l’altro… – poi osservò saggiamente: – Anche i baobab, prima di crescere, sono piccoli. – Giusto! Ma perché vuoi che le tue pecore mangino i baobab? – Beh, è ovvio! – disse.
Mi ci volle un po’ per capire questo problema da solo.
Sul pianeta del piccolo principe, c’era, come su tutti i pianeti, erba buona e erba cattiva. E quindi dei buoni semi di erbe buone e dei cattivi semi di erbe cattive.
Ma i semi sono invisibili. Dormono nel segreto della terra finché non hanno voglia di svegliarsi.
Così si allunga verso il sole un bel rametto di ravanello o rosa. Ma se è una pianta cattiva, la pianta va sradicata subito, non appena l’hai riconosciuta.
C’erano semi terribili sul pianeta del piccolo principe… questi erano semi di baobab. Il suo pianeta ne era infestato. Ma un baobab, se te ne accorgi troppo tardi, ingombra l’intero pianeta!
– È una questione di disciplina – mi disse più tardi il piccolo principe – devi pulire accuratamente il pianeta, devi sradicare i baobab non appena li distingui dalle rose, si somigliano molto quando sono giovani… è un lavoro molto noioso ma molto facile.
A poco a poco capivo la sua piccola vita malinconica. Per molto tempo aveva avuto come momento di svago solo la dolcezza dei tramonti.
Il quarto giorno al mattino mi disse: – Mi piacciono i tramonti. Andiamo a vedere un tramonto… – Dovremo aspettare… – Aspettare cosa? – Che il sole tramonti…
All’inizio sembrava molto sorpreso, poi si mise a ridere e disse: – Credo sempre di essere a casa!
In effetti quando è mezzogiorno negli Stati Uniti, il sole tramonta sulla Francia. Basterebbe poter andare in Francia in un minuto a guardare il tramonto, ma la Francia è troppo lontana.
Sul suo piccolo pianeta invece, tutto ciò che bastava fare era tirare indietro la sedia di qualche passo per guardare il tramonto ogni volta che voleva…
– Un giorno, ho visto il sole tramontare quarantatré volte! Sai… quando si è tristi si amano i tramonti…
Il quinto giorno, sempre grazie alle pecore, compresi un’altro segreto della vita del piccolo principe. Mi chiese bruscamente:
– Una pecora, se mangia arbusti, mangia anche fiori? – Una pecora mangia tutto ciò che trova. – Anche i fiori con le spine? – Sì, anche i fiori che hanno le spine. – Allora le spine, a cosa servono?
Non lo sapevo. In quel momento ero molto preoccupato perché l’acqua da bere stava finendo e non riuscivo a riparare l’aereo.
– Le spine, a cosa servono?
Il piccolo principe non ha mai rinunciato a una domanda una volta che l’ha fatta. Ero molto irritato e gli diedi una risposta a caso:
– Le spine sono inutili, è pura cattiveria da parte dei fiori! – Oh!
Ma dopo un silenzio mi rispose con rancore: – Non ti credo! I fiori sono deboli e ingenui, si rassicurano come meglio possono e pensano di essere terribili con le loro spine…
Non risposi, poi Il piccolo principe continuò: – E tu credi che i fiori… – Ma no! Ma no! non credo niente! Ho detto una risposta a caso, mi occupo di cose serie io!
Mi guardò stupito. – Cose serie!?
Mi vide con chino sul motore del mio aereo mentre cercavo di ripararlo.
– Parli come un adulto!
Mi fece un po’ vergognare poi, spietato, aggiunse:
– Tu confondi tutto… mescoli tutto! – disse – Conosco un pianeta dove c’è un uomo che non ha mai annusato un fiore, non ha mai guardato una stella e non ha mai amato nessuno. E tutto il giorno ripete come te: “Sono un uomo serio! Sono un uomo serio!” e questo lo fa gonfiare d’orgoglio. Ma non è un uomo, è un fungo!
– Cosa?! – Un fungo!
Il piccolo principe era bianco per la rabbia.
– I fiori producono spine da milioni di anni. Le pecore mangiano fiori da milioni di anni. E non è serio cercare di capire perché fanno di tutto per fare spine che non servono a nulla? Non è importante la guerra delle pecore e dei fiori? … E se io conosco un fiore unico al mondo, che non esiste da nessuna parte se non sul mio pianeta, e se una pecorella può mangiarlo tutto in una volta, così di colpo, non è importante questo!?
Arrossì, poi proseguì:
– Se qualcuno ama un fiore che esiste solo in un esemplare tra milioni di stelle, gli basta guardarlo per essere felice. Dice a se stesso: “Il mio fiore è là da qualche parte…” Ma se la pecora mangia il fiore, per lui è come se, all’improvviso, tutte le stelle si fossero spente! Questo non è importante!?
All’improvviso scoppiò in lacrime. Era già scesa la notte. Non mi importava più del motore del mio aereo o dell’acqua che scarseggiava. Vicino a una stella, su un pianeta, il mio, la Terra, c’era un piccolo principe da consolare! Lo presi tra le mie braccia cullandolo e gli dissi:
– Il fiore che ami non è in pericolo… disegnerò una museruola per le tue pecore e un’armatura per il tuo fiore… io… – non sapevo proprio cosa dirgli.
Mi sono sentito molto a disagio. Non sapevo come raggiungerlo, dove raggiungerlo… È così misterioso, il paese delle lacrime.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto original efanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
Speriamo che questo adattamento vi sia piaciuto!
😊
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Pinocchio 🤥 CAPITOLO 9: Pinocchio diventa un bambino.
Piano piano Pinocchio riaprì gli occhi. Era tutto buio e non vedeva nulla. – Ma dove sono? – disse con sorpresa, iniziando a tastarsi tutto – ma mi è tornata la voce! Ma sono di nuovo un burattino!!! Tutto felice iniziò a saltellare nel buio più completo, finché i suoi occhi non si abituarono all’oscurità e videro un piccolo chiarore baluginare in lontananza.
Si incamminò lentamente, i suoi piedi sguazzavano come se fosse dentro una pozzanghera d’acqua grassa e sdrucciolevole, nell’aria c’era un forte odore di pesce. Man mano che camminava, la luce si faceva sempre più distinta.
E sapete cosa trovò? Una tavola apparecchiata con seduto un vecchietto coi capelli tutti bianchi. Pinocchio non credette ai suoi occhi. – Papà, papà mio! – era Geppetto e gli corse subito incontro per abbracciarlo. – Figliuolo mio! – gli rispose ricambiando l’abbraccio. – Si, si, sono io papà! Sapessi quante avventure ho passate… – e Pinocchio prese a raccontargli tutto quello che gli capitato: il Gatto e la Volpe, la Fata Turchina, il Campo dei Miracoli, la scuola, il Paese dei Balocchi, il circo…
– Ma papà, dove siamo? – Siamo nella pancia del gigantesco Pesce-Cane, che mi ha divorato quando ho costruito una barchetta per venirti a cercare dall’altra parte del mondo, e ora ha inghiottito pure te… – Dobbiamo fuggire! – E come? – Scappando dalla bocca del Pesce-Cane.
All’inizio Geppetto era titubante, ma Pinocchio prese la candela e la sua mano e iniziarono a risalire su per lo stomaco del grande pesce, fino ad arrivare alla bocca. – Aspettiamo che apra la bocca e poi ci lanciamo! – disse Pinocchio a Geppetto, e non appena il Pesce-Cane la aprì, si tuffarono in mare, nuotando verso riva.
Giunti a riva, si riposarono un attimo e si asciugarono per quello che potevano, poi si incamminarono in cerca di un capanno per passare la notte. Ma sulla strada Pinocchio incontrò due vecchie conoscenze: il Gatto e la Volpe.
– Pinocchio, amico nostro, facci la carità! – i due erano conciati male e vestiti di stracci, le zampe fasciate e tremavano dal freddo. – Non mi imbrogliate più voi due, ben vi sta se adesso patite la fame, le mie quattro monete d’oro non vi hanno portato fortuna! – così Pinocchio li salutò e li lasciò lì dov’erano a chiedere l’elemosina.
Cammina cammina, Pinocchio e Geppetto arrivarono ad una graziosa casetta di paglia, bussarono alla porta ma nessuno rispose. Così entrarono e non videro nessuno, ma poi una voce li salutò. I due si voltarono, era il Grillo Parlante! – Oh! Mio caro grillino! – disse Pinocchio, salutandolo gentilmente. – Ora mi chiami il “tuo caro Grillino”, ma ti ricordi quando mi hai tirato dietro il martello a casa di Geppetto?
– Hai ragione… se vuoi vendicarti tira un martello addosso a me, ma lascia stare il mio papà Geppetto – rispose Pinocchio con lo sguardo basso. – Non preoccuparti, ti ho già perdonato. – Ora però devi aiutarmi, il mio papà è molto stanco e ha bisogno di un bicchiere di latte. – Vai a chiedere al fattore che ha tre mucche.
Pinocchio corse dal fattore e gli chiese del latte. – Per un bicchiere di latte fa un soldo – gli rispose il fattore. – Ma io non ho nemmeno un soldo bucato! – Allora potresti far girare la ruota per turare su l’acqua dal pozzo, sai il mio ciuchino si è ammalato proprio ieri.
– Potrei vedere quel ciuchino? – chiese Pinocchio. – Certo! – gli rispose il fattore, conducendolo nella stalla. Dentro, disteso sulla paglia, c’era una vecchia conoscenza di Pinocchio. Era Lucignolo, malato e stanco per aver girato la ruota ogni giorno, tutto il giorno, dal momento che si erano lasciati al mercato.
A Pinocchio si strinse il cuore, e allora iniziò a girare la ruota, guadagnando il bicchiere di latte da portare a Geppetto. E da quel giorno in poi, per più di cinque mesi, si alzò ogni mattina per andar a girare la ruota al posto di Lucignolo e guadagnare un bicchiere di latte da portare al suo caro papà. La sera, stanco dalla fatica, Pinocchio si esercitava sempre a leggere e scrivere usando un vecchio libro usato e tutto consumato, comprato per un soldo al paese.
Finché una mattina disse a suo padre: – Vado qui al mercato di paese, mi compro una giacchina, un berretto e un paio di scarpe, che quando torno ti sembrerò un gran signore! E uscito di casa cominciò subito a correre tutto allegro e contento.
Sulla strada incontrò un cane vestito da cocchiere, era quello che aveva portato Pinocchio svenuto e appeso all’albero, dalla Fata Turchina. – Come sta la mia cara Fata?! – gli chiese subito Pinocchio. – Male, molto male, si è ammalata e sta in ospedale, e non ha neppure più nulla per potersi permettere neppure un boccone di pane.
Pinocchio prese i quaranta soldi che aveva in tasca e li diede al cane. – E il tuo vestito nuovo? – gli chiese il cane. – Non mi importa! Venderei anche quelli che ho addosso per la mia Fatina! Ora va’ e portale questi soldi, e tra due giorni torna qui che te ne darò altri! Il cane prese i soldi e corse subito dalla Fata.
Pinocchio tornò a casa e disse a Geppetto che non aveva trovato nessun vestito che gli andasse bene. Quella sera Pinocchio, invece di star sveglio fino alle dieci a studiare, andò a letto dopo mezzanotte; e invece di lavorare sodo otto ore al giorno, iniziò a lavorarne dieci.
Così una sera, stanco ma felice, si addormentò e sognò che la Fata dai capelli turchini lo perdonava di tutte le monellerie fatte fino a quel giorno, e gli dava un bacio sulla fronte. Lì finì il suo bel sogno e continuò a dormire beato fino al mattino.
La mattina Pinocchio riaprì gli occhi. Si sentiva strano, si stiracchiò tutto e si guardò allo specchio: non era più un burattino ma un ragazzo in carne ed ossa! Pinocchio gridò di felicità.
Nella camera entrò Geppetto richiamato dal grido, e rimase di stucco nel vedere il suo burattino trasformato in un ragazzo vero! Pinocchio lo abbracciò forte. – Ma come è potuto succedere?! – gli chiese Pinocchio. – Sai a volte quando i ragazzi, da monelli diventano buoni, hanno la capacità di cambiare aspetto, loro e tutta la famiglia intera…
Pinocchio guardò in un angolo della camera, sopra una seggiola c’era seduto sopra un burattino, e dopo un po’ che lo guardava, disse dentro di sé con grandissima emozione: – Com’ero buffo quando ero un burattino, e come son contento di essere diventato un ragazzo perbene!
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Il viaggio era durato tutta la notte, e al mattino erano finalmente arrivati. Nel paese c’erano solo ragazzi, dagli otto ai quattordici anni, tutti che correvano a destra e sinistra, che urlavano e gridavano, che giocavano e si divertivano tra loro. Era un pandemonio incredibile. Festa dalla mattina alla sera e feste in ogni angolo del paese.
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi che avevano fatto il viaggio assieme sul carretto, si fiondarono in mezzo alla baraonda, e nel giro di pochi minuti diventarono amici di tutti. – Che spasso! – diceva Lucignolo. – Che bella vita! – gli faceva eco Pinocchio.
Parlando con gli altri ragazzi, però, a volte non si capivano. Quelli che erano lì da più tempo spesso sbagliavano a pronunciare le parole, dicevano “arin metica” al posto di aritmetica, “abasso la schola” al posto di abbasso la scuola ecc. Ma nè Pinocchio né Lucignolo ci badarono più di tanto. Così in quel paese della cuccagna continuarono a divertirsi, non facendo nulla e non aprendo mai più un libro, per ben cinque mesi
Una mattina, però, accadde una cosa strana. Svegliandosi, Pinocchio si accarezzò la testa e al posto delle sue minuscole orecchie intagliate nel legno, trovò due enormi orecchie da asino. Subito cercò uno specchio e, disperato, vide le due grandi orecchie ai lati della testa.
Poco dopo bussò alla porta Lucignolo, anche a lui erano spuntate due enormi orecchie da asino ed era disperato tanto quanto Pinocchio. Ma non riuscirono nemmeno a chiedersi cosa fosse successo che le loro gambe iniziarono a tremare, così che dovettero mettersi giù a quattro zampe. In pochi minuti tutti e due si erano trasformati in due Asini completi, giusta punizione per chi, non volendo saperne di libri, scuole e maestri, passava le giornate a giocare e perdere tempo.
Qualcuno bussò alla porta, era l’omino che guidava il calesse. Era venuto a prenderli per venderli al mercato. Lucignolo fu comprato da un contadino, mentre Pinocchio fu comprato dal direttore di un circo.
Il direttore del circo lo aveva comprato per preparare un grande spettacolo mai visto prima: un asino danzante. Pinocchio non poteva neppure lamentarsi, perché al posto di parlare ragliava, e il direttore del circo lo convinse ad imparare il balletto a suon di frustate.
Così arrivò il giorno del debutto di Ciuchino-Pinocchio. Iniziò a fare i suoi numeri, prima al trotto, poi al galoppo e infine il salto nel cerchio, ma mentre saltava, Pinocchio, si accorse che tra il pubblico c’era la Fata Turchina che lo osservava, e cadde malamente azzoppandosi una gamba.
Per il circo Ciuchino-Pinocchio era ormai diventato inutile, così il direttore lo portò sopra una scogliera e lo buttò in mare. Ciuchino-Pinocchio, non sapendo nuotare, andò subito a fondo, si agitò tutto cercando di ritornare a galla, ma per lo spavento e per lo sforzo piano piano perse i sensi e si lasciò trascinare dalla corrente…
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Quei quattro mesi di prigione sembrarono a Pinocchio un’eternità. Li aveva passati pensando a suo papà Geppetto, alla Fata Turchina e anche a quei due ladri del Gatto e la Volpe. Ma ora finalmente poteva uscire.
Appena fuori, iniziò a correre verso la casa della Fata Turchina, ma non appena arrivò sul posto si accorse che la casa della Fata non c’era più, al suo posto c’era una lapide che riportava questa scritta:
Qui giace la Fata Turchina Morta di dolore per essere stata abbandonata dal suo caro Pinocchio
Pinocchio a quel punto si inginocchiò sulla tomba ed iniziò a piangere disperato. Il suo pianto attirò l’attenzione di un grosso uccello che volava lì in tondo. – Se tu Pinocchio? – gli chiese l’uccello. – Si sono io… – gli rispose Pinocchio singhiozzando. – Vieni con me allora! Tuo padre Geppetto, disperato, si sta fabbricando una barca per andarti a cercare in mare!
A quel punto il grande uccello prese Pinocchio sulla groppa ed iniziò a volare più veloce che poteva, ma arrivati alla spiaggia videro tanta gente affollata che gridava in direzione di una barchetta in balìa delle onde di un mare grosso e tempestoso.
– Papà!!! – gridò Pinocchio, gettandosi giù dalla groppa dell’uccello e cadendo sulla spiaggia. Ma Geppetto, per via del forte vento e delle grandi onde, non lo sentì. Allora Pinocchio si gettò in mare per raggiungerlo, ma il mare era troppo mosso, e lui non sapeva nuotare… Per fortuna che era fatto di legno e riusciva a stare a galla!
Dopo molte ore di naufragio, Pinocchio si ritrovò su una spiaggetta di un’isola sconosciuta. Pinocchio si incamminò per un sentiero, e vide tante persone che andavano avanti e indietro per la strada. La pancia gli brontolava dalla fame, ma non aveva neppure un soldo bucato per pagarsi del pane, così decise di sedersi e chiedere l’elemosina.
Tutti quelli che passavano, però, lo prendevano a male parole: “trovati un lavoro!”, “scansafatiche!”, “vergognati!” gli dicevano. Finchè non passò una donna con una sciarpa che le copriva parte del volto e due brocche piene d’acqua. – Scusi signora, posso avere una sorsata d’acqua? – chiese Pinocchio. – Bevi pure ragazzo mio! – gli rispose la donna.
Pinocchio, per la sete, bevve quasi tutta una brocca d’acqua, poi disse alla donna: – La sete me la son levata, avete per caso anche qualcosa da mangiare? – Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d’acqua, ti darò un bel pezzo di pane. Pinocchio allora prese la brocca e aiutò la donna a portarla fino a casa.
Entrati in casa la tavola era già apparecchiata con pane, affettati e anche il dolce. Pinocchio non credeva ai suoi occhi e si lanciò sul cibo, iniziando a divorare tutto quanto, poi una volta finito tutto quello che stava sulla tavola guardò in volto la padrona di casa che, togliendosi la grande sciarpa che le copriva la faccia, gli stava sorridendo.
– Ma tu… – Pinocchio sgranò gli occhi, quasi non credeva a quello che vedeva. – Cos’è tutta questa meraviglia? – gli rispose lei, iniziando a sorridere ancor di più. – Ma tu sei la Fata Turchina!!! – e con un balzo la abbracciò.
– Birba d’un burattino, dov’eri finito? – Sapessi mia cara Fata… ma com’è che sei cresciuta? – E’ una magia… mi hai lasciato che ero una bambina e ora mi ritrovi che sono una donna.
– Anche io voglio cambiar vita! Da domani prometto che andrò a scuola e diventerò un bravo ragazzo. Così il giorno dopo Pinocchio iniziò ad andare a scuola. All’inizio tutti lo prendevano in giro perché era un burattino, ma in poco tempo diventò uno studente modello, e i maestri lo lodavano.
Ma un giorno, tornando da scuola, un gruppo di monelli suoi compagni di classe gli andarono incontro, uno di loro, Lucignolo, gli disse: – La sai la notizia? Stanotte passa il carretto che porta i bambini al “Paese dei Balocchi”, dove si fa quel che si vuole dalla mattina alla sera. Ci sono divertimenti e dolci per tutti e soprattutto, non si deve mai andare a scuola! Noi andiamo, vieni anche tu?
Sulle prime Pinocchio non voleva andare, ma poi Lucignolo e tutti gli altri continuavano a decantargli tutte le meravigliose cose che avrebbero fatto e tutti i divertimenti che avrebbero trovato, tanto che il tempo passò e si era già fatto buio. Dopo poco iniziarono a sentire il rumore del carretto che si avvicinava.
– Eccolo! – gridò Lucignolo verso il carretto guidato da un omino e trainato da dodici piccoli asinelli. Tutti i ragazzi facevano a gara per saltarci su. Salito sul carro, Lucignolo gridò a Pinocchio: – Dai vieni anche tu che ci divertiamo! – No, io resto – gli rispose con un filo di voce Pinocchio. – Dai vieni anche tu che ci divertiamo! – ripeterono tutti in coro.
Il carretto a quel punto ripartì, e Lucignolo gli urlò per l’ultima volta: – Mai più scuola Pinocchio, mai più! Pinocchio, sentendo quelle parole, senza pensarci troppo, prese la rincorsa e saltò sul carretto anche lui, dicendo fra sé e sé “chissà cosa penserà di me la povera Fata Turchina”. Ma ormai il carretto si stava già allontanando verso il Paese dei Balocchi.
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Mentre correva per il bosco, Pinocchio vide sul sentiero due persone che gli sembrava di conoscere. Erano il Gatto e la Volpe, che appena si accorsero di Pinocchio gli corsero incontro a fargli le feste. – Ecco il nostro caro Pinocchio – gridò la Volpe abbracciandolo – cosa ci fai qui?! – Cosa ci fai qui?! – ripetè anche il Gatto, che aveva una delle zampette tutta fasciata.
– Voi non ci crederete, ma ieri notte ho incontrato due banditi che volevano rubarmi le monete d’oro! Il Gatto e la Volpe fecero una faccia sbalordita. – Ma io sono scappato – continuò Pinocchio – e adesso vado incontro al mio papà Geppetto. – Bravo! – gli dice la Volpe – ma le monete d’oro? – Le ho qui in tasca! Me ne sono rimaste solo quattro che una l’ho dovuta spendere all’osteria del Gambero Rosso… – E pensare che quelle quattro monete potrebbero diventare più di mille domani… – sospirò la Volpe – perché non vai a seminarle nel Campo dei Miracoli? E’ a pochi chilometri da qui! Pinocchio esitò un attimo, pensò alla Fata Turchina, a Geppetto e anche al Grillo Parlante, ma poi scrollò le spalle e disse – Va bene, andiamo!
Dopo aver camminato due buone ore, arrivarono finalmente al Campo dei Miracoli. – Eccolo! – esclamò la Volpe – ora scava una buca poco profonda, mettici le monete, ricopri tutto di terra, annaffia un po’ e vedrai che tra soli venti minuti sarà già cresciuta una piantina.
Una volta fatto tutto, la Volpe disse a Pinocchio che era stato un piacere aiutarlo e, insieme al Gatto gli consigliarono di andare a riposarsi al paesino che avevano attraversato poco prima e aspettare lì che il Campo dei Miracoli facesse il suo dovere. Quindi Pinocchio e il Gatto e la Volpe si salutarono e se ne andarono ognuno per la sua via.
Pinocchio, ascoltando il consiglio della Volpe, andò al paese, dove rimase giusto i venti minuti che erano necessari al Campo dei Miracoli per far spuntare la piantina dalle monete d’oro, poi tornò di corsa indietro. Ma della sua piantina non trovò nemmeno l’ombra, anzi dove aveva lasciato le monete d’oro era rimasta solo una buca senza nulla dentro.
Sopra la sua testa Pinocchio sentì un pappagallo ridere. – Cosa ridi tu!? – Rido perché mentre tornavi al paesino qui vicino, il Gatto e la Volpe son tornati qui a prendersi le tua monete d’oro! – gli rispose il Pappagallo.
Pinocchio, a bocca aperta, non voleva credere al pappagallo e iniziò a scavare nella buca, senza trovare nulla… A quel punto si disperò e decise di tornare al paese a denunciare il Gatto e la Volpe. Il giudice che lo accolse era un grosso Gorilla con gli occhiali d’oro, e Pinocchio iniziò a raccontargli tutto.
Il giudice ascoltò attentamente Pinocchio con occhi fissi, senza mai dire nulla. Alla fine chiamò le due guardie accanto a sé. – Questo burattino ha derubato quattro monete d’oro, mettetelo subito in prigione per quattro mesi! – No! Lei non ha capito! Non sono io il ladro, sono stati… – ma Pinocchio non riuscì a finire la frase che le guardie lo presero e lo portarono dritto in cella.
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Da una delle finestre si affacciò una bambina dai capelli turchini, che disse: – In questa casa non c’è nessuno… – E tu chi saresti allora? La Bambina dai capelli turchini guardò i due banditi avvicinarsi di corsa vero la casa, e chiuse le imposte della finestra.
– Eccoti qua! Ora ti daremo una bella lezione – gridarono i banditi, prendendo Pinocchio. Lo portarono sotto una grande quercia, lo legarono e lo appesero ad uno dei rami dell’albero. – E ora sputa le monete! – continuarono i banditi.
Pinocchio faceva di no con la testa tenendo la bocca chiusa. Intanto uno dei due banditi, quello a cui Pinocchio aveva dato un morso, si leccava la zampetta, che sembrava essere quella di un gatto. Le ore passavano, Pinocchio dondolava piano piano al vento, ma non apriva la bocca.
I due banditi, assonnati e sfiniti decisero di andarsene a dormire. – Ci vediamo domani burattino, e vedi di farci la cortesia di farti trovare con la bocca spalancata piena di monete… – e s’incamminarono sparendo nel buio della notte. Pinocchio pensava a quanto fosse in pensiero per lui Geppetto, poi sbadigliò e si addormentò.
La bambina dai capelli turchini aveva assistito a tutta la scena dalla finestra, preoccupata per quel povero burattino. Battendo le mani, chiamò un un cane vestito da cocchiere che camminava sulle due zampe. – Lo vedi quel burattino penzoloni dall’albero? Portamelo qui. Il cane obbedì subito e, pochi minuti dopo, Pinocchio era steso sotto le coperte di un grande letto in una delle camere della casa.
Pinocchio pareva morto, e subito la bambina convocò i dottori più bravi della zona: un Corvo, una Civetta ed un Grillo Parlante. Il Corvo si avvicinò a pinocchio, lo guardò, gli tastò il polso e disse: – Questo burattino è morto, ma se non è morto, è sicuramente vivo. – No, no, mio collega – gli rispose subito la Civetta – Questo burattino è sicuramente vivo, ma se non è vivo, è certamente morto.
A quel punto prese la parola il Grillo Parlante. – Io quel burattino lo conosco, è un birbante – a quelle parole Pinocchio aprì a fessura un occhio per vedere cosa succedeva, ma il Grillo continuò – è un monello, uno svogliato, un vagabondo!
Pinocchio piano piano si nascose sotto le lenzuola, e senza farsi vedere prese le monete d’oro dalla bocca e le mise in tasca. – Quel burattino è un disubbidiente che fa morire di crepacuore il suo papà. Da sotto le lenzuola si sentiva singhiozzare, era Pinocchio che piangeva.
La fata fece cenno ai dottori di uscire dalla stanza. Pinocchio da sotto le lenzuola guardò la bambina. – Chi sei tu? – le chiese Pinocchio. – Sono la Fata Turchina, e voglio aiutarti – poi poggiò la sua mano sulla fronte e sentì che aveva la febbre. Gli preparò allora un bicchiere d’acqua con dentro la medicina.
– Raccontami Pinocchio, com’è che ti sei ritrovato di notte inseguito dai banditi? Allora Pinocchio le raccontò tutta la sua avventura, fino a quando i due banditi, per prendergli le monete d’oro, lo appesero all’albero. – E dimmi, se le avevi in bocca, dove sono adesso le monete d’oro? – Le ho perse! – le risponde Pinocchio.
Appena detta la bugia, il suo naso che già era grosso, gli si allungò di colpo di due dita. – E dove le hai perse? – Nel bosco qui vicino… – a questa seconda bugia il naso gli si allungò ancora. – Allora sarà facile ritrovarle – continuò la Fata. – Ora che mi ricordo le monete non le ho perse, le ho inghiottite prima quando ho bevuto la medicina…
A questa terza bugia il naso di Pinocchio diventò talmente lungo che non potè più girarsi dentro la stanza senza urtare qualcosa. La Fata Turchina lo guardò e scoppiò a ridere. – Perché ridi!? – le chiese Pinocchio che stava per mettersi a piangere. – Rido per le bugie che hai detto. Sai ci sono due tipi di bugie, quelle dalle gambe corte e quelle dal naso lungo. Le tue, come puoi vedere, sono bugie dal naso lungo.
Allora Pinocchio iniziò a piangere a dirotto, e la Fata lo lasciò piangere per una buona mezz’ora. Poi, quando le sembrava che Pinocchio fosse veramente pentito, battè le mani e fece arrivare due picchi che presero a beccargli il nasone, riportandolo alle dimensioni naturali.
– Prometto che non dirò più bugie mia Fata… – le disse Pinocchio asciugandosi le lacrime. La Fata Turchina lo abbracciò e gli disse: – Ho pensato anche al tuo papà, l’ho già fatto avvisare ed entro stasera sarà qui. Pinocchio iniziò a saltare dalla felicità. – Non vedo l’ora di poterlo abbracciare! Posso corrergli incontro?! – Vai Pinocchio, ma stai attento a non perderti! Ma ormai Pinocchio stava già correndo verso il bosco per abbracciare di nuovo Geppetto.
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
– Buongiorno Pinocchio – lo salutò la volpe. – Com’è che sai il mio nome? – domandò il burattino. – Conosco bene il tuo papà, l’ho visto ieri in maniche di camicia che tremava dal freddo. – Povero papà… ma se tutto va bene non dovrà mai più patire il freddo, perché oggi son diventato un gran signore!
– Un gran signore, tu?! – la volpe si mise a ridere sonoramente, e il gatto rideva anche lui. – C’è poco da ridere, guardate qui, sono cinque monete d’oro! – Pinocchio le tirò fuori dalla tasca e le fece vedere al gatto e alla volpe.
Per la sorpresa il gatto cieco spalancò entrambi gli occhi e la volpe zoppa saltò con entrambe la gambe, poi aggiunse: – E cosa ne vuoi fare di tutti questi soldi? – Voglio comprare una nuova giacca al mio papà ed un abbecedario per me! La volpe guardò Pinocchio con aria pensosa e gli disse – Vuoi raddoppiare le tue monete d’oro? – Magari fosse possibile… – gli rispose Pinocchio.
– Basta che tu ci segua nel paese dei Barbagianni, dove c’è il Campo dei Miracoli. Tu in quel prato fai una piccola buca, ci metti dentro le monete e le annaffi. Poi te ne vai tranquillo a letto e, quando la mattina dopo torni, ci trovi un albero pieno di monete d’oro. Pinocchio non credeva alle sue orecchie, eppure il Gatto e la Volpe gli sembravano due persone perbene, quindi decise di seguirli.
S’incamminarono per il paese dei Barbagianni, ma cammina cammina, arrivò la sera e si fermarono stanchi morti all’osteria del Gambero Rosso, dove si riempirono per bene la pancia. La volpe ordinò all’oste: – Dateci due buone camere, una per noi e una per il nostro amico Pinocchio, ma svegliateci a mezzanotte, che dobbiamo ripartire per un lungo viaggio! – Certamente – rispose l’oste alla volpe strizzandogli l’occhio.
Pinocchio, non appena si mise sotto le coperte si addormentò subito, e iniziò a sognare di alberi strapieni di monete d’oro, ma mentre stava sognando di afferrare le monete, l’oste entrò in camera per dirgli che era ormai mezzanotte.
– I miei amici Gatto e Volpe sono pronti? – Sono partiti due ore fa, il figlio maggiore del Gatto non stava bene e sono dovuti correre via senza poter pagare la cena purtroppo… – Ah… – disse Pinocchio allungando una moneta d’oro all’oste per saldare il conto – e dove hanno detto che li avrei ritrovati? – hanno detto di incontrarvi domani mattina al Campo dei Miracoli.
Pinocchio si incamminò nella notte scura e silenziosa, interrotta ad un certo momento solo da uno strano sbattere d’ali che sembrava seguirlo. – Chi va là? – gridò Pinocchio dalla paura. – Sono il Grillo Parlante! Non fidarti ragazzo mio di chi dice di farti ricco dalla mattina alla sera, sono solo imbroglioni!
– Non darmi fastidio grillaccio del malaugurio! – gli rispose indispettito Pinocchio. – Ricordati Pinocchio, i ragazzi che non ascoltano i buoni consigli, prima o poi se ne pentono… – Bla bla bla… buona notte, Grillo. – Stai attento, che di notte ci sono in giro i banditi… Ma Pinocchio ormai camminava a passo spedito e non lo sentiva più.
Pochi minuti dopo Pinocchio, pensieroso per le parole del Grillo parlante, sentì dei rumori dietro di sé e vide due persone tutte vestite di nero che lo stavano seguendo. Pinocchio capì subito che si trattava dei banditi, proprio come aveva detto il Grillo Parlante. “Vorranno le mie monete d’oro” pensò il burattino, e con un gesto veloce le tolse dalla tasca e se le mise in bocca, iniziando a correre.
Ma una mano gli afferrò forte il braccio, e una voce orribile gli disse: – O la borsa o la vita! Pinocchio, che con le monete in bocca non poteva parlare, cercò sbracciandosi in tutti i modi di far capire che era solo un povero burattino.
– Meno storie e fuori i soldi! – gridavano minacciosamente i due banditi – se non ci dai le monete prima tireremo il collo a te, e poi anche a tuo padre! – No! Il mio povero babbo no! – gridò allora Pinocchio, ma facendo così i banditi videro le monete d’oro nella sua bocca. – Sputa subito le monete, birbante! – gli gridarono. Ma Pinocchio non le sputava.
Allora i due banditi lo presero e cercavano in tutti i modi di aprirgli la bocca. Ma Pinocchio non mollava, anzi, morse una delle mani dei banditi facendolo urlare di dolore, e riuscì a liberarsi. Iniziò a correre a più non posso verso una casetta lì vicino e, arrivato alla porta, iniziò a bussare forte.
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Pinocchio 🤥 CAPITOLO 3: Mangiafuoco e il teatro dei burattini.
Il giorno dopo Pinocchio uscì di casa per andare a scuola col suo abbecedario sotto braccio, ma non appena voltò la via, sentì in lontananza una musica di pifferi molto invitante.
La musica veniva dalla piazza grande del paese e, incuriosito da tutta la gente che si accalcava davanti, Pinocchio prese la strada che portava alla piazza. – So che dovrei andare a scuola, ma ci andrò domani, oggi voglio sentire i pifferi… – disse tra sé Pinocchio.
Arrivato in piazza, Pinocchio chiese ad un signore cosa fosse quel trambusto. – Ti basta leggere il cartello appeso lì sopra ragazzo mio – rispose il signore. – Mi piacerebbe tanto, ma non so leggere… – disse mortificato Pinocchio. – Bravo asino! Allora te lo leggerò io, è il gran teatro ambulante dei burattini. Lo spettacolo comincia proprio ora. – E quanto costa lo spettacolo? – Quattro soldi.
Pinocchio sapeva di non avere nemmeno un soldo bucato, ma voleva a tutti i costi vedere quello spettacolo. – Buon uomo, mi prestereste quattro soldi? L’uomo lo guardò dall’alto in basso, poi aggiunse: – Ti do’ quattro soldi in cambio dell’abbecedario.
Pinocchio tentennò un attimo, ma poi diede l’abbecedario al signore e prese i quattro soldi, dimenticando il sacrificio che Geppetto aveva fatto per comprarglielo.
Pinocchio entrò così nel teatro dei burattini. In scena sul palco c’erano Arlecchino e Pulcinella, che non appena si accorsero che Pinocchio, burattino come loro, era venuto a vederli, iniziarono ad urlare di gioia e fargli tutte le feste possibili.
Lo invitarono a salire sul palco, lo abbracciarono e lo portarono in trionfo. Ma giù nella platea gli spettatori iniziarono ad arrabbiarsi perché lo spettacolo si era interrotto, e urlavano “vogliamo la commedia di Arlecchino e Pulcinella!”
In quel momento uscì il burattinaio, si chiamava Mangiafuoco, era un omone grande e grosso, con una barba lunga fino ai piedi e con due occhi rossi come il fuoco. In mano aveva una frusta ed iniziò a schioccarla.
– Perché sei venuto a gettar lo scompiglio nel mio teatro?! – gridò forte Mangiafuoco. – Ma la colpa non è stata mia! – ribattè disperato Pinocchio. – Basta così, adesso facciamo i conti.
Mangiafuoco prese il burattino e lo portò in cucina. Sulla stufa c’era un bell’arrosto, ma mancava la legna per finire di cuocerlo e Mangiafuoco era intenzionato ad usare Pinocchio come legna da ardere.
Pinocchio, capita la fine che avrebbe fatto, iniziò a piangere e implorare pietà – Non voglio morire! Non voglio morire! – gridava. Mangiafuoco, che era sì un omaccione, ma in fondo aveva il cuore tenero, iniziò a commuoversi, finché, scappata anche una lacrimuccia, starnutì sonoramente.
Arlecchino e Pulcinella, che avevano seguito la scena nascosti, sorrisero e gioirono, sapevano che il burattinaio si era commosso, e non avrebbe fatto del male a Pinocchio.
– Grazie di avermi risparmiato la vita, sua… eccellenza – aggiunse Pinocchio. A sentirsi chiamare eccellenza, Mangiafuoco divenne ancora più tenero, e iniziò a chiedere a Pinocchio da dove arrivasse e che cosa ci facesse lì nel suo teatro.
Così Pinocchio raccontò tutta la sua storia. – Sei un bravo ragazzo Pinocchio mio, tieni, ti do’ cinque monete d’oro, portale al tuo caro papà Geppetto e salutalo tanto da parte mia. – Grazie mille signor Mangiafuoco, non saprò mai come ringraziarla – Pinocchio abbracciò Mangiafuoco, Arlecchino e Pulcinella e si incamminò per la strada di casa, lungo la quale incontrò una volpe zoppa ed un gatto cieco…
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Mentre il povero Geppetto veniva condotto in carcere, Pinocchio se la filava via per tornare in fretta a casa e, non appena entrato, si sedette per terra, stanco ma contento. – Cri-cri-cri! – Chi è?! – disse subito Pinocchio. – Sono io!
Pinocchio girò la testa e vide un grosso grillo poggiato al muro. – E tu chi sei?! – Io sono il Grillo Parlante e abito in questa casa da più di cent’anni. – Oggi però questa casa è mia – disse Pinocchio – quindi vattene. – Io non me ne andrò di qui finché non mi avrai ascoltato.
– Dimmi quello che hai da dire e vattene – gli rispose sgarbatamente Pinocchio. – Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, non avranno mai nulla di buono dalla vita. – Canta pure grillo mio, tanto io domani me ne andrò di casa, che se rimango qui di sicuro mi manderanno a scuola! – gli rispose ormai spazientito Pinocchio.
– Così rimarrai un somaro e tutti ti prenderanno in giro! Se non vuoi studiare, perché non impari un mestiere e ti guadagni da vivere? – rispose il grillo parlante a tono. – Io di mestiere voglio fare il vagabondo! – Tutti quelli che fanno questo mestiere, prima o poi finiscono in ospedale o in prigione. – Guarda che mi sto arrabbiando grillaccio del malaugurio! – Sei proprio una testa di legno… – sospirò il grillo scuotendo la testa.
A queste ultime parole, Pinocchio prese un martello e glielo lanciò contro, mancandolo solo per un soffio. Il grillo però non ci pensò due volte e, con un salto, si buttò fuori dalla finestra. Pinocchio udì solo un flebile “cri-cri-cri” un po’ arrabbiato che si allontanava.
– Ecco, adesso senza quel grillaccio potrò finalmente mangiare qualcosa. Pinocchio iniziò a cercare per tutta la casa qualcosa da mangiare, ma non trovò nulla finchè, stanco, affamato e assonnato, si sedette sulla sedia, distese le gambe sulla stufa (che era ancora accesa e caldina) e si addormentò.
Il giorno dopo Geppetto fu liberato e tornò di corsa a casa. Era molto arrabbiato e deciso a sgridare sonoramente Pinocchio, ma quando entrò e vide il suo burattino ancora addormentato con le gambe ormai tutte bruciacchiate distese sulla stufa, il suo cuore si intenerì.
– Ma cosa ti è successo Pinocchio! Pinocchio si risvegliò di soprassalto. – Le mie gambe! Mi si sono bruciate le gambe! – Pinocchio cominciò a piangere e Geppetto lo prese tra le braccia chiedendogli cosa fosse successo. Pinocchio raccontò del grillo parlante, della fame, di come non avesse trovato nulla da mangiare e di come poi si fosse addormentato con i piedi sulla stufa, per scaldarsi un po’.
– Non lo farò più! Non lo farò più, prometto! – piangeva Pinocchio. Geppettò lo abbracciò, prese subito a fargli un nuovo paio di gambe e gliele incollò così bene che non si vedeva neppure la giuntura.
Pinocchio era talmente felice di riavere le gambe che, per ringraziare e far felice Geppetto, gli disse che il giorno dopo sarebbe andato a scuola. – Per andare a scuola serve un vestito – così dicendo, Geppetto prese della carta a fiorellini e gli confezionò un vestitino, con della mollica di pane fece il cappellino.
– Ora per andare a scuola mi manca solo l’abbecedario – disse Pinocchio. Geppetto non aveva molti soldi, ma per il suo Pinocchio avrebbe fatto qualunque cosa, perciò prese la sua giacca di fustagno rattoppata e gli disse di aspettarlo a casa.
Poco dopo Geppetto rincasò con l’abbecedario, ma addosso non aveva più la sua giacca. Pinocchio capì subito che Geppetto, pur di comprargli l’abbecedario, aveva venduto la sua giacca, nonostante fosse inverno e facesse freddo. Gli corse incontro e lo abbracciò forte forte.
● Carlo Lorenzini, vero nome di Carlo Collodi, scrisse Pinocchio in un momento di difficoltà della sua vita.
● In realtà il vero Pinocchio era lui stesso, sempre pronto a far “bambinate” e pieno di debiti al gioco d’azzardo, si mise così a scrivere una storiella per bambini per guadagnare qualche soldo. Ma già dopo pochi capitoli si era stancato e aveva scritto la parola fine del suo racconto più o meno quando i due banditi appendono Pinocchio all’albero.
● Ma ormai Pinocchio aveva iniziato a viver di vita propria dentro l’entusiasmo e l’immaginazione dei bambini tanto che, a furor di popolo, fu costretto a tirar giù Pinocchio dall’albero e rimetterlo di corsa a vagabondare per la sua strada. Una strada piena di avventure e di crescita interiore che lo porterà a diventare finalmente un bambino in carne ed ossa.
● La verità è che dentro le pagine del libro, ognuno di noi può immedesimarsi in Pinocchio, perchè racconta con parole semplici e senza troppi giri di parole, il birbante che si nasconde dentro tutti i bambini.
● Pinocchio è anche stato un racconto da cui poi sono stati ripresi concetti e modi di dire che oggi sono di uso comune, come:
“le bugie dal naso lungo o dalle gambe corte” per indicare chi mente;
“il paese dei balocchi” per indicare un luogo immaginario e fantastico dove non si fa nulla dalla mattina alla sera;
“Sono fritto!” che si riferisce ad un momento non presente nella nostra versione della fiaba, dove Pinocchio rischia di essere messo in padella e mangiato da un pescatore.
“Il Gatto e la Volpe” per indicare una coppia di persone poco affidabili
● Il libro divenne talmente famoso in tutto il mondo (è il libro in lingua italiana più venduto nella storia e vanta ben 240 traduzioni in lingua estera) che anche Tolstoj nel 1936, ne scrisse una versione molto simile.
● Di Pinocchio si sono fatti film di animazione (il più famoso è sicuramente quello della Walt Disney) che dal vero (come non ricordare il Pinocchio interpretato da Benigni nel 2002 o, l’ultimo del 2019, con alla regia Garrone in cui sempre lo stesso Benigni interpreta Geppetto?)
● E la canzone di Edoardo Bennato sul Gatto e la Volpe chi può scordarla? ascoltatela su youtube 😉
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Mago di Oz!
Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 7: La Strega Buona del Sud.
Dorothy, vedendo ogni sua speranza di ritornare a casa dagli zii sfumare, si mise a piangere disperata. Tutti corsero a consolarla. Quando si fu calmata, lo Spaventapasseri cercando di rincuorarla le disse che avrebbero potuto vivere tutti felice assieme lì a Oz, e che non le sarebbe mai mancato nulla.
– Ma io voglio tornare nel Kansas dai miei zii – piagnucolò ancora Dorothy. Ci fu silenzio per un lungo momento, poi lo Spaventapasseri riprese la parola dicendo: – Perché non chiami le Scimmie Alate e non chiedi loro di portarti nel Kansas?
Così fece Dorothy, e le Scimmie Alate arrivarono in un battibaleno, ma alla richiesta della bambina il Re delle Scimmie dovette scuotere il capo. – Purtroppo non possiamo, noi apparteniamo solo a questo magico paese, e non abbiamo possibilità di andare dove tu ci chiedi. Arrivederci mia signora… – e volarono via lasciando ancor più triste sconsolata e Dorothy, pensando che aveva pure sprecato il secondo dei tre desideri della Cuffia d’Oro per niente.
Lo Spaventapasseri nel frattempo si era rimesso a pensare e pensare, finchè chiamò la guardia della Città di Smeraldo e gli chiese: – Dorothy deve tornare a casa nel Kansas, conosci qualcuno che può aiutarla?
– Forse Glinda, la Strega Buona del Sud… – rispose la guardia – è una potente maga e regna sul popolo dei Quadling, il suo castello è al limite del deserto, forse lei vi può dire come attraversarlo.
– Come posso raggiungerla? – chiese Dorothy. – Basta andare verso sud – e salutando, la guardia se ne andò. Dorothy era pronta a partire, ma con gran sorpresa si accorse che anche tutti gli altri lo erano!
– Noi veniamo con te! – dissero in coro lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone. E così partirono. Il viaggio fu tranquillo e sereno, finché non si ritrovarono in una fitta foresta piena di alberi secolari.
– Che luogo magnifico! – esclamò il leone – è proprio il posto dove vorrei passare il resto dei miei giorni! Dopo pochi passi si ritrovarono in una radura dove un rumore forte e cupo li colse d’improvviso. Centinaia di animali feroci di ogni tipo erano lì radunati: tigri, orsi, lupi e molti altri, Dorothy ebbe molta paura.
Ma il Leone, sentendo i latrati degli animali li tranquillizzò, e spiegò loro che erano in assemblea per discutere di un pericolo tremendo. Il Leone si avvicinò loro per capire meglio cosa stesse succedendo, tutti gli animali nel vederlo arrivare si inchinarono.
– Benvenuto Re degli animali! – esclamò una tigre. – Cosa succede, vi vedo preoccupati – rispose il Leone. – E’ così, una creatura orribile ci sta minacciando, si tratta di un ragno gigante che sta seminando terrore in tutta la foresta… – continuò la tigre.
– Ma non ci sono leoni a difendervi? – proseguì il Leone. – Si c’erano ma sono stati tutti mangiati dal ragno. – disse la tigre. – Allora, se mi farete diventare il vostro re, io ucciderò il ragno!
Tutti gli animali radunati gridarono di gioia acclamando il Leone che poco dopo partì alla caccia del ragno. Non ci mise molto, lo trovò mentre stava dormendo sonoramente e, con una zampata ben assestata lo eliminò.
Quando ritornò nella radura fu portato in trionfo per tutta la foresta. Tutti gli animali si inchinarono al suo cospetto e lo proclamarono Re della foresta.
Il leone promise che sarebbe tornato presto, prima doveva mantenere la promessa di accompagnare Dorothy fin dalla Strega Buona del Sud, così ripartirono tutti insieme.
Purtroppo, dopo qualche ora di cammino, si trovarono davanti ad un muro altissimo ed invalicabile, che sembrava non avere confini.
– E adesso come facciamo a scavalcare questo muro? Il castello della Strega Buona del Sud deve essere giusto dall’altra parte… – disse Dorothy. – Perché non chiami le Scimmie Alate per farci trasportare dall’altra parte? – chiese il Boscaiolo di Latta.
– Buona idea! – Dorothy si mise la Cuffia d’Oro in testa, pronunciò la formula magica e in un attimo le scimmie furono lì da loro – portateci dall’altra parte del muro! – chiese la bambina.
– Sarà fatto! – disse il Re delle Scimmie, così li presero e li trasportarono dall’altra parte del muro, dove finalmente si poteva vedere il castello della Strega Buona del Sud – questa era l’ultima volta che potevi chiamarci, ti auguriamo buona fortuna, addio! – disse il Re prima di sparire definitivamente nel cielo con tutta la sua banda.
Non molto lontano, davanti a loro si stagliava il castello di Glinda, la Strega Buona del Sud. Felici per aver raggiunto finalmente la meta si avviarono di buon passo.
Arrivati sotto le mura del castello furono accolti da una guardia che dopo aver ascoltato la loro storia li fece accomodare in una stanza in attesa di essere accolti dalla Strega.
La guardia ritornò presto e li accompagnò alla grande sala di Glinda. Entrarono e finalmente videro la Strega che li accolse con un sorriso.
– Cosa posso fare per te bambina mia? – disse con un tono gentile e premuroso. Dorothy le raccontò tutta la sua storia, dal tornado fino alla mongolfiera di Oz, infine disse: – Sono qui a chiederle se può aiutarmi a tornare a casa dai miei zii, nel Kansas.
– Posso aiutarti bimba mia, ma in cambio devi darmi la Cuffia d’Oro – disse Glinda. – Certamente! Tanto ormai a me non serve più… – Dorothy gliela porse, e la Strega la guardò brillare fra le sue mani.
– Penso che avrò bisogno dei servigi delle Scimmie Alate per le tre volte che mi sarà concesso – disse Glinda – una per riportare lo Spaventapasseri a Oz, dove dovrà regnare con saggezza, una per portare il Boscaiolo di Latta nei regni dell’ovest, dove i Munchkin aspettano una persona che li possa governare con cuore e l’ultima per riportare il Leone nella sua amata foresta.
Tutti, sentendo queste parole furono immensamente felici, Glinda era proprio una strega buona.
Poi Dorothy chiese – Ma io come faccio a ritornare a casa dei miei zii?! La strega sorrise – Bimba mia, tu sei completamente all’oscuro degli straordinari poteri racchiusi nelle tue scarpette d’argento, saranno loro a riportarti a casa, oltre il deserto.
Dorothy rimase stupita, avrebbe potuto ritornare subito a casa e non lo sapeva! Però a ripensarci non avrebbe vissuto una fantastica avventura assieme allo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo. Poi guardò la Strega in cerca di spiegazioni.
– Non devi far altro che battere tre volte i tacchi e comandare di essere portata ovunque tu desideri – disse Glinda.
Dorothy guardò le scarpette, poi guardò i suoi compagni di avventure e li abbracciò affettuosamente uno per uno. Poi prese un grosso respiro e batté tre volte i tacchi delle scarpette d’argento.
In quel momento d’istinto chiuse gli occhi stringendo forte al petto Toto, e chiese con un filo di voce di essere riportata a casa, nel Kansas. Per un momento ebbe paura di riaprirli e avere di nuovo la delusione di essere ancora a Oz con lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta ed il Leone.
Ma zia Em era lì davanti a lei e le corse incontro a braccia aperte. Finalmente era tornata a casa.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Mago di Oz!
Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 6: Il ritorno dal Mago di Oz.
Non c’erano strade per la Città di Smeraldo, sapevano solo che dovevano andare verso est, ma arrivò sera e ancora della città non c’era l’ombra. Quando erano attaccati dalle scimmie alate, avevano volato velocissimi sopra i campi, adesso a piedi era tutto molto più complicato.
Il giorno dopo il gruppo si consultò sul da farsi. – Secondo me ci siamo persi – disse lo Spaventapasseri. – Così non raggiungeremo mai la Città di Smeraldo e io non avrò mai un cuore – disse il Boscaiolo di Latta. – E io il mio coraggio – aggiunse il Leone. – E se chiamassimo i Topi di Campagna? – propose Dorothy.
Così fecero e dopo poco li raggiunse la Regina dei Topi di Campagna – Cosa posso fare per voi, miei amici? – chiese. – Ci potresti indicare la direzione per la Città di Smeraldo? – disse Dorothy. – Certo! Ma è molto lontana da qui, stavate andando nella direzione sbagliata… – poi notando la cuffia d’oro indossata dalla bambina, la Regina aggiunse – ma perché non chiamate le Scimmie Alate?
– E come si fa? – chiese Dorothy. – Basta usare l’incantesimo della Cuffia d’Oro, la formula magica è scritta all’interno. – Non sapevo fosse magica! – esclamò.
Dorothy si tolse la cuffia e lesse la formula magica ad alta voce, in pochi minuti la banda delle Scimmie Alate era tutta davanti a loro. – Cosa comanda mia signora? – chiese il Re delle Scimmie Alate con un inchino. – Vogliamo tornare alla Città di Smeraldo – disse Dorothy – e abbiamo smarrito la strada! – Vi portiamo noi – e girandosi verso le Scimmie Alate il Re comandò loro di prenderli e portarli alla Città di Smeraldo. Così lo presero sulle loro spalle e iniziarono a volare per i campi spogli e desolati delle terre dell’ovest.
In poco tempo arrivarono alla Città di Smeraldo, dove le Scimmie Alate li deposero con dolcezza. – Ricordati che hai ancora a disposizione solo due comandi da impartire a noi Scimmie Alate – disse il Re a Dorothy prima di volare via con tutta la sua banda.
Il guardiano della porta, stupito nel vederli tornare tutti sani e salvi, li fece entrare nella città. – Abbiamo ucciso la Strega Cattiva dell’Ovest, adesso il Mago di Oz ci deve ricevere ed esaudire le nostre richieste – disse Dorothy alla guardia, che subito corse da Oz ad avvertirlo.
Tutti si aspettavano di essere ricevuti immediatamente dal mago e anche in modo trionfale, ma così non fu. Anzi, furono fatti di nuovo accomodare nelle loro stanze e fatti aspettare, aspettare e aspettare. I giorni passavano ma nulla accadeva.
Alla fine, spazientiti, Dorothy e gli altri fecero recapitare un massaggio a Oz in cui dicevano che se non li avesse subito ricevuti, avrebbero chiamato in loro aiuto le Scimmie Alate.
Oz dopo aver ricevuto quel messaggio li convocò al suo cospetto per il mattino seguente.
Quando finalmente furono portati nella grande sala di Oz, ognuno di loro si aspettava di vedere il mago sotto le sembianze con cui lo aveva visto prima di partire. E invece con gran sorpresa di tutti, nella stanza sopra il trono, non c’era nessuno.
Ad un tratto sentirono una voce che proveniva da un punto indistinto della grande sala. – Io sono Oz, il grande e terribile, perché mi cercate? – Abbiamo Eliminato la Strega Cattiva dell’Ovest e siamo venuti a chiedervi di mantenere le vostre promesse – disse Dorothy.
– Quali promesse? – rispose Oz. – A me avete promesso di riportarmi a casa nel Kansas! – disse con fermezza la bambina. – E a me avete promesso un cervello! – aggiunse lo Spaventapasseri. – E a me avete promesso un cuore! – continuò il Boscaiolo di Latta. – E a me avete promesso di darmi il coraggio! – concluse ruggendo il Leone Codardo.
Nella sala ci fu silenzio. – Tornate domani, ho bisogno di riflettere – disse Oz. – No! Non aspetteremo un minuto di più! – urlò Dorothy. A quel punto il Leone ruggì così forte che per lo spavento il cagnolino Toto fece un balzo e andò a nascondersi dietro un paravento che stava proprio lì accanto.
Il paravento cadde, e dietro stava nascosto un vecchino calvo e pieno di rughe. – Chi sei tu?! – disse il Boscaiolo di Latte che con l’ascia pronta a colpire gli fu subito addosso. – io sono Oz, il grande e terribile… ma ti prego non farmi del male… farò tutto quello che volete… Tutti quanti lo guardarono sbalorditi e sorpresi – adesso spiegaci tutto – dissero.
Oz chinò il capo e iniziò a raccontare. – Non sono un mago, sono un illusionista e lavoravo per il circo. Un giorno durante uno dei miei spettacoli in mongolfiera, la fune che la teneva legata a terra si spezzò, e io volai e volai lontano, fino ad atterrare qui a Oz. Gli abitanti del posto, vedendomi arrivare dal cielo credettero subito che io fossi un potente mago e quindi mi proclamarono re per poterli difendere dalle Streghe Cattive.
– Ma quindi sei un impostore! – disse Dorothy. – Si, sono un impostore… – rispose a capo chino Oz mentre sul loro volto si dipingeva la delusione – ma non abbiate paura, recito la parte del mago da così tanti anni, che forse posso ancora aiutarvi.
Negli occhi di Dorothy e gli altri si riaccese la speranza. – Se manterrete il segreto sulla mia identità, venite qui domani mattina, ed esaudirò i vostri desideri.
Così il mattino dopo si ripresentarono tutti quanti nella grande sala davanti ad un Mago di Oz pensoso e silenzioso. – Sono qui per il mio cervello – disse lo Spaventapasseri. – Per darti un cervello dovrò levarti la testa – disse con solennità teatrale Oz.
E così tolse la sua testa, levò un poco di paglia e prese da una scatoletta un po’ di crusca e una manciata di chiodi con cui la riempì. Rimise a posto la paglia e riattaccò con cura la testa al corpo dello Spaventapasseri.
– D’ora in poi sarai un grande uomo, perché ti ho dato un cervello pieno di acume! – esclamò Oz. Lo Spaventapasseri, felice ed orgoglioso del suo nuovo cervello, ringraziò di cuore il Mago.
– Ora è il mio turno! Sono venuto a prendermi un cuore! – disse il Boscaiolo di Latta. – Siediti, dovrò fare un buco nel tuo petto per metterci un cuore – gli rispose Oz indicandogli una sedia su cui sedersi.
Oz prese un paio di cesoie e fece un foro nel petto di latta del Boscaiolo, poi frugò in una borsa e ne tirò fuori un cuore di pezza che sistemò con cura al suo interno, infine richiuse tutto al meglio che poteva.
– Ecco fatto! Adesso hai un cuore di cui qualunque uomo andrebbe fiero. – disse Oz mentre il Boscaiolo non finiva più di ringraziarlo.
Venne il turno del Leone Codardo – sono qui per il coraggio! – disse. – Vado subito a prenderlo, aspetta un attimo – gli rispose Oz, che aprì un armadio e ne estrasse una bottiglietta che porse al Leone – bevila – gli disse, e il Leone bevve tutto il contenuto.
– Ora sei pieno di coraggio – aggiunse Oz, e il Leone ruggì forte sentendo il nuovo coraggio che si stava infondendo in lui.
Infine toccò a Dorothy – ora devi farmi tornare nel Kansas – disse a Oz. Il Mago di Oz sorrise, le prese la mano e la accompagnò alla finestra, dicendole di guardare fuori. Sul piazzale di fronte al palazzo stava gonfiata una enorme mongolfiera.
– Quella è la mongolfiera che mi ha portato qui al paese di Oz, ora sono stanco di far finta di essere un grande mago e voglio tornare a casa, come te, quindi oggi stesso partiremo!
Dorothy saltò dalla felicità insieme a Toto. Oz la accompagnò fino alla mongolfiera e iniziò i preparativi per la partenza al viaggio slegando le grosse funi che tenevano la mongolfiera ancorata al suolo, poi salì nella cesta salutando i suoi sudditi.
– Sto andando a trovare un grande mago che abita tra le nuvole – disse loro – fino al mio ritorno sarà il saggio Spaventapasseri a governarvi! – tra gli applausi della gente, lo Spaventapasseri gonfiò il petto d’orgoglio per l’incarico ricevuto.
Intanto la mongolfiera iniziava a staccarsi dal suolo. Le grida di gioia della gente furono così forti che Toto per la paura scappò via dalle braccia di Dorothy nascondendosi. La bambina che proprio in quel momento stava salendo nella cesta della mongolfiera corse subito a cercare il cagnolino.
– La mongolfiera sta per partire Dorothy! – le urlò Oz. Proprio in quel momento una folata di vento iniziò a spingere la mongolfiera che si staccò definitivamente dal suolo e iniziò piano piano l’ascesa verso le nuvole.
Dorothy riacciuffò Toto e guardò verso la mongolfiera – torna indietro! Voglio venire anche io! – strillò la bambina.
– Non posso mia cara… Addio! – gridò di rimando Oz mentre si faceva piccolo piccolo nell’azzurro cielo.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
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Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 5: Alla ricerca della Strega Cattiva dell’Ovest.
La compagnia quindi uscì dalle mura della Città di Smeraldo, e chiese alla guardia che li aveva accolti qualche giorno prima quale fosse la strada da seguire.
– Non c’è nessuna strada, nessuno vuole andare nel regno della Strega Cattiva dell’Ovest… – Ma allora come facciamo a trovarla?! – chiese Dorothy. – Non preoccupatevi, non appena arriverete nel paese dei Winkie sarà lei a trovarvi per farvi diventare suoi schiavi… comunque dirigetevi verso ovest, dove tramonta il sole, e la troverete di sicuro.
Dorothy e gli altri salutarono e iniziarono la loro marcia verso ovest intimoriti dalle parole della guardia, ma determinati a portare a termine la loro missione.
Man mano che si allontanavano dalla Città di Smeraldo il terreno si faceva sempre più brullo ed impervio e non c’erano né case né fattorie nei territori dell’ovest. Non c’era nulla che non fossero pietre e terra bruciata dal sole.
Con facilità, quindi, qualcuno da molto lontano si accorse di loro. Era la Strega Cattiva dell’Ovest, a cui era rimasto un occhio solo, ma potente come un telescopio, e dalla torre del suo palazzo si era subito accorta che degli stranieri stavano attraversando i suoi aridi e desolati territori.
La strega andò su tutte le furie. Vide che tra quegli stranieri vi era pure un grande e possente leone, quindi senza indugio prese la magica Cuffia d’Oro e la indossò sulla testa.
La Cuffia d’Oro era incantata e permetteva di richiamare le fortissime Scimmie Alate che avrebbero obbedito a tre desideri che il proprietario della cuffia avesse impartito loro. Due di questi desideri erano già stati usati, ne restava soltanto uno e la Strega Cattiva dell’Ovest decise di usarlo.
La strega pronunciò la formula magica «Zizzi, Zuzzi, Zik!» a squarciagola. Quasi immediatamente il cielo si oscurò e si udì il rombo di un tuono, in un attimo arrivarono le Scimmie Alate, il loro Re si avvicinò inchinandosi alla Strega.
– Cosa ci comandate Strega Cattiva dell’Ovest? – disse il Re delle Scimmie Alate. – Annientate quegli stranieri che stanno attraversando le mie terre, ma non toccate il leone, lo voglio nel mio zoo! – gridò con forza la Strega. – I tuoi ordini saranno eseguiti, ma ricordati mia strega, questo è il tuo ultimo desiderio, dopo di che saremo liberi dai tuoi comandi – detto questo il Re volò via insieme a tutte le sue scimmie fino a raggiungere Dorothy e gli altri, che ancora non immaginavano cosa sarebbe successo loro.
Alcune scimmie presero il Boscaiolo di Latta, lo sollevarono in aria e lo trasportarono fino ad un crepaccio pieno di rocce aguzze, dove lo lasciarono andare a schiantarsi e ammaccare tutto.
Altre agguantarono lo Spaventapasseri e con le loro veloci manine estrassero tutta la paglia dai vestiti, la sparsero sul terreno e appesero quel poco che rimaneva di quegli indumenti ad un ramo di un albero.
Un altro gruppo di scimmie gettò delle corde attorno al leone, legandolo e catturandolo. Con enorme sforzo lo sollevarono e lo trascinarono al palazzo della Strega.
Dorothy era rimasta immobile, come pietrificata, con Toto tra le braccia, a guardare con gli occhi pieni di lacrime il destino dei suoi poveri compagni. Il Re delle Scimmie Alate in persona volle occuparsi di lei, e la stava già per colpire quando si accorse del luminoso bacio della Strega Buona del Nord sulla sua fronte, allora si fermò e non le torse un capello.
Ordinò alle sue scimmie di prenderla dolcemente tra le braccia e ti trasportarla dalla Strega senza farle alcun male. Quando furono al palazzo il Re delle Scimmie Alate disse: – Strega Cattiva dell’Ovest, abbiamo esaudito i tuoi desideri, ma alla bambina non abbiamo potuto far nulla perché è protetta dal bacio della Strega Buona del Nord. Con questo ultimo favore noi ti salutiamo, addio! – E tutte le Scimmie alate sparirono volando lontano nel cielo.
La Strega Cattiva guardò Dorothy, il bacio stampato sulla sua fronte e le scarpette argentate, e si preoccupò molto. Pensò all’incantesimo custodito dalle scarpette, ma sapeva che non poteva toccare la bambina nemmeno con un dito. Avrebbe comunque dovuto tenerla d’occhio giorno e notte.
– Bene! – disse infine la Strega – tu diventerai la mia serva personale! – e la portò in cucina dove le disse di lavare e sistemare tutte le stoviglie e le pentole. Dorothy, mesta e triste ma sollevata per non essere stata uccisa dalla Strega, iniziò a lavorare sodo.
Iniziò così un lungo periodo in cui Dorothy tutti i giorni doveva obbedire ad ogni singolo ordine della Strega Cattiva dell’Ovest, mentre la sera, di nascosto andava a scambiare due chiacchiere col suo amico Leone che era stato rinchiuso in una gabbia.
La Strega Cattiva dell’Ovest voleva impossessarsi a tutti i costi delle scarpette di Dorothy, ma la bambina le indossava anche quando dormiva, le toglieva solo quando faceva il bagno. Alla Strega Cattiva dell’Ovest però l’acqua faceva paura, di più, ne era terrorizzata e quindi non si avvicinava mai a Dorothy per rubarle le scarpette quando lei faceva il bagno.
Un giorno alla Strega Cattiva dell’Ovest venne in mente uno stratagemma, prese una sbarra di ferro e la rese invisibile, poi la poggiò sul pavimento della cucina e attese che Dorothy vi inciampasse.
Dorothy cadde a terra, e nella caduta una delle scarpette le si sfilò dal piede. La Strega subito se ne impossessò. – Ridatemi la scarpa! – gridò subito Dorothy. – Nemmeno per sogno! – sghignazzò ridendo la Strega – e prima o poi mi prenderò anche l’altra! Ah! Ah! Ah!
A quelle parole Dorothy si arrabbiò così tanto che prese un secchio pieno d’acqua e glielo rovesciò tutto addosso. La strega, colpita dall’acqua, lanciò un urlo terribile – Mi sto sciogliendooooo – gridò, e pochi minuti dopo la Strega era ormai evaporata e sparita come per magia. L’acqua era l’unica cosa che poteva uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest.
Dorothy, ancora sorpresa per aver sconfitto la Strega, si rimise la scarpetta d’argento e corse a liberare il suo amico Leone dalla gabbia.
Poi andarono insieme dal popolo dei Winkie, spiegarono loro che la Strega Cattiva dell’Ovest ormai non esisteva più e che erano finalmente liberi. I Winkie festeggiarono, e chiesero a Dorothy come poterla ringraziare per averli finalmente liberati dalla schiavitù.
– Potreste aiutarci a ritrovare i nostri amici Spaventapasseri e Boscaiolo di Latta! – disse la bambina, così si organizzarono delle squadre di soccorso. Dopo mezza giornata di ricerche ritrovarono il Boscaiolo di Latta, tutto ammaccato, lo presero e lo riportarono al paese dei Winkie.
Lì i fabbri del paese iniziarono a riparare e lucidare tutte le parti del Boscaiolo, quando misero a posto anche la bocca finalmente riuscì a dire un sonoro ”Grazie!”.
Organizzarono quindi le ricerche anche dello Spaventapasseri. Arrivarono fino all’albero dove erano stati appesi i vestiti, li raccolsero e una volta tornati al paese dei Winkie li riempirono tutti con paglia fresca e pulita, facendolo tornare più bello di prima.
Finalmente Dorothy, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta, il Leone Codardo e il cagnolino Toto erano riuniti, e fu gran festa. – Dobbiamo tornare dal Mago di Oz per dirgli che la Strega Cattiva dell’Ovest è stata battuta e chiedergli di mantenere le promesse! – disse Dorothy.
Il giorno dopo, durante i preparativi per il viaggio, mentre prendeva un po’ di cibo dalla dispensa, Dorothy notò la Cuffia d’Oro, se la provò e vide che le stava a pennello, così decise di portarla con sé. Poi partirono alla volta della Città di Smeraldo.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
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Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 4: La Città di Smeraldo.
Dopo un lungo cammino, finalmente, raggiunsero le porte della Città di Smeraldo. C’era una piccola campana da suonare e Dorothy tirò la cordicina.
Dopo poco la porta si aprì e si presentò davanti a loro un ometto piccoletto tutto vestito di verde che li fece entrare in una stanza tutta verde tempestata di sfavillanti smeraldi.
– Cosa vi porta alla Città di Smeraldo? – chiese l’ometto che aveva il ruolo di guardia della città. – Siamo venuti per incontrare il Grande Mago di Oz – disse Dorothy
La guardia rimase sorpresa dalle parole della bambina, poi disse – Sono anni che nessuno chiede di disturbare le sagge meditazioni di Oz, lui è un mago potente e terribile, se si tratta di sciocchezze di sicuro si arrabbierà… – Ma non si tratta di sciocchezze! – replicò lo Spaventapasseri – sono richieste molto importanti!
Vedendo la convinzione con cui lo Spaventapasseri aveva risposto la guardia decise di condurli all’interno della Città di Smeraldo, dove tutto era verde: le strade, le case, i vestiti della gente, le caramelle nelle vetrine dei negozi…
La guardia condusse il gruppetto fino al palazzo del Grande Mago di Oz e li fece accomodare in un grande e sontuoso salone ricoperto di marmi e cristalli verdi.
– Andrò ad annunciare il vostro arrivo al Mago di Oz, aspettate qui il mio ritorno – e la guardia sparì dietro una porticina. Passò molto tempo prima che la guardia ritornasse, Dorothy, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta ed il Leone Codardo lo guardarono con il fiato sospeso in attesa che parlasse.
– Oz vi concederà udienza, ma ognuno di voi dovrà presentarsi al suo cospetto da solo e in giorni differenti per non stancarlo troppo. Vi mostro le stanze dove potrete attendere la sua chiamata – E li condusse ognuno in una stanza diversa – Ecco, fate come foste a casa vostra, qui potrete riposarvi dalle fatiche del viaggio e domani mattina verrà chiamato uno di voi per incontrare il Grande Oz – detto questo la guardia sparì.
Tutti quanti riposarono e dormirono profondamente quella notte. Il mattino seguente, una ragazza tutta vestita di verde svegliò Dorothy per condurla dal Grande Mago di Oz. Attraversarono lunghi corridoi, sale e saloni, fino ad arrivare ad una porticina con un soldato a farvi da guardia.
Poco dopo la porticina si aprì, e Dorothy entrò nella grande sala del Mago di Oz. Era grandissima e tonda, tutta illuminata dalla luce che colpiva gli smeraldi verdi.
Al centro della stanza stava un enorme trono di marmo verde, con al di sopra una enorme testa fluttuante che la fissava intensamente negli occhi. – Io sono Oz, il grande e terribile. Tu chi sei e perché vuoi parlarmi? – la voce profonda ma per niente terribile, riempì la stanza. – Io sono Dorothy, e sono qui per chiederti aiuto. Sono arrivata qui per colpa di un tornado che ha fatto volare via la mia casa, che poi è atterrata sulla testa della Strega Cattiva dell’Est, e purtroppo l’ho uccisa, ma non volevo… Sono qui a chiedervi di farmi tornare a casa dai miei zii, nel Kansas.
L’enorme testa la guardò severa, poi parlò: – Dove hai preso quelle scarpette d’argento? E il segno che hai sulla fronte? – Le scarpette le ho prese alla Strega Cattiva dell’Est, il bacio in fronte me l’ha dato la Strega Buona del Nord per proteggermi.
La testa gigante rimase a lungo silenziosa, infine disse: – Se vuoi che io ti aiuti a tornare a casa dai tuoi zii, tu in cambio devi fare qualcosa per me: uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest. – Ma non posso! – urlò Dorothy sconcertata – non ho ucciso di proposito la Strega Cattiva dell’Est! – e si mise a piangere e singhiozzare. – Così ho deciso! Finchè la Strega Cattiva dell’Ovest non sarà morta non ripresentarti al mio cospetto, e ora và – rispose con voce accesa il Grande Mago di Oz.
Dorothy uscì dalla stanza triste e sconfortata, e andò a piangere nella sua stanza.
Il mattino seguente fu il turno dello Spaventapasseri incontrare il Mago di Oz. Quando entrò nella grande sala si ritrovò davanti una bellissima fata che stava seduta sul trono.
– Io sono Oz, il grande e terribile. Tu chi sei e perché vuoi parlarmi? – la voce dolce e delicata della fata si udì a malapena nella stanza. – Sono uno Spaventapasseri imbottito di paglia, e sono venuto qui a chiedervi un cervello per poter essere più intelligente. – Posso esaudire il tuo desiderio solo se anche tu farai qualcosa in cambio per me: uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest – furono le ultime parole della dama.
Anche lo Spaventapasseri uscì triste e demoralizzato dalla sala per poi rinchiudersi nella sua stanza a meditare sul da farsi.
Toccò quindi al Boscaiolo di Latta che si trovò davanti seduta sul grande trono una belva feroce, con testa di rinoceronte, corpo di elefante, cinque braccia e cinque gambe.
– Io sono Oz, il grande e terribile. Tu chi sei e perché vuoi parlarmi? – la voce potente come un ruggito riecheggiò per tutta la sala. – Sono un boscaiolo e sono fatto di latta, perciò mi manca un cuore che sono venuto a chiedervi in dono – disse con un po’ di timore. – Se davvero desideri un cuore devi guadagnartelo: devi uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest – ruggì la belva.
Il Boscaiolo di Latta tornò mogio mogio nella sua stanza, deluso e triste.
Infine toccò al Leone Codardo, quando entrò nella sala del Mago di Oz di fronte a sé si ritrovò una enorme palla infuocata talmente splendente che quasi accecava.
– Io sono Oz, il grande e terribile. Tu chi sei e perché vuoi parlarmi? – la voce bassa e calma si diffuse per tutta la sala. – Sono il Leone Codardo e manco di coraggio, sono qui a chiedervi di infondermelo per diventare davvero il Re della Foresta – disse tremante di paura.
La palla di fuoco si accese ancora di più – se vuoi che ti infonda il coraggio, tu devi fare qualcosa per me: uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest – rispose diventando ancora più splendente e calda.
Il Leone, sconfortato uscì dalla sala, e si ritrovò finalmente con i suoi amici. Si confrontarono sul fatto che nessuno di loro aveva visto il Mago di Oz con le stesse sembianze e conclusero che doveva essere proprio un grande mago per potersi trasformare in tutti quei modi.
– E ora cosa facciamo? – chiese Dorothy tutta triste. – Non abbiamo scelta, dobbiamo andare a uccidere la Strega Cattiva dell’Ovest… – disse il leone. Tutti, a malincuore, furono d’accordo. Si rimisero quindi in viaggio il mattino seguente.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
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Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 3: Il viaggio verso Oz.
Dorothy, il cagnolino Toto, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo, camminarono a lungo finché non arrivò la notte e si accamparono sotto un grande albero.
Al mattino seguente ripresero il viaggio lungo il sentiero di mattoni dorati, attraversarono un fitto e buio bosco fino ad arrivare alla riva di un fiume. Il Boscaiolo di Latta prese la sua ascia e si mise a fabbricare una zattera per attraversarlo, ma non appena si misero in acqua si accorsero subito che la corrente del fiume era molto forte.
Lo Spaventapasseri ed il Boscaiolo di Latta cercarono di tenere la zattera dritta con dei lunghi bastoni che facevano da pertiche, per non farla ribaltare.
Ma il povero Spaventapasseri ci mise talmente tanta foga che la sua pertica rimase impigliata nel fondo fangoso del fiume. Cercò di estrarre il bastone dal fondo fangoso ma non ci riuscì, e siccome lui era fatto di leggera paglia, rimase appeso alla pertica in mezzo al fiume mentre la zattera gli scivolava via da sotto i piedi.
– Addio miei cari amici! – gridò lo Spaventapasseri. Gli altri lo guardarono dalla zattera, allarmati ma impossibilitati a fare qualsiasi cosa, perché la corrente li stava trascinando velocemente via dal punto in cui lo Spaventapasseri era rimasto impigliato. Lo salutarono tristemente con la mano, cercando di capire come si sarebbero potuti mettere in salvo.
Dopo molto tempo passato in balia della corrente del fiume, e senza nessuna speranza di riuscire a salvare lo Spaventapasseri, qualcosa balenò nella testa del Leone Codardo.
– Tenetevi stretti alla mia coda! – esclamò, e si gettò nel fiume nuotando con tutta la forza che aveva in corpo verso riva. La sua idea funzionò. Tutti quanti, ancora spaventati e stanchi morti, si riposarono a riva.
– E adesso che si fa? – chiese il Boscaiolo di Latta. – In un modo o nell’altro dobbiamo ritrovare la strada per la Città di Smeraldo – disse Dorothy. – La soluzione migliore è risalire lungo la riva del fiume finché non la troviamo – consigliò il Leone.
La soluzione piacque a tutti quanti e svelti si incamminarono, finché ad un certo punto il Boscaiolo di Latta non esclamò: – Guardate! Laggiù! Tutti si girarono e videro lo Spaventapasseri ancora aggrappato alla pertica in mezzo al fiume. Aveva un aria triste e sconsolata.
– Come possiamo salvarlo? – Chiese Dorothy. Il Leone Codardo e il Boscaiolo di Latta scossero la testa, non ne avevano idea… Così si misero tutti a sedere sulla sponda del fiume a guardare lo spaventapasseri.
Proprio in quel momento passò sopra di loro una cicogna. – Chi siete voi? Dove state andando? – Chiese. – Io sono Dorothy e questi sono i miei amici il Boscaiolo di Latta e il leone Codardo, stiamo andando alla Città di Smeraldo, ma abbiamo perso il nostro amico Spaventapasseri là in mezzo al fiume…
– Se non fosse così grande e grosso ve lo riporterei io a riva… – rispose la cicogna. – Ma non è per niente pesante, è molto leggero perché fatto di paglia! – Io ci provo, ma se è troppo pesante lo lascio cadere nel fiume… – Così la cicogna si avvicinò allo spaventapasseri, lo prese per le spalle e senza sforzo lo portò fino a riva.
Non appena fu a riva lo Spaventapasseri iniziò a saltare dalla gioia abbracciando tutti quanti – grazie mille signora cicogna! – gridò – come posso sdebitarmi?!
– Non preoccuparti, aiutare le persone in pericolo è un dovere! Vi auguro un buon viaggio verso la Città di Smeraldo, il vostro cammino è ancora lungo… – con un forte battito di ali si allontanò e nessuno di loro riuscì a sentire l’avvertimento che quella non era la strada giusta per la Città di Smeraldo.
L’allegra comitiva, ignara di andare nella direzione sbagliata riprese il viaggio, fino ad arrivare ad un immenso campo pieno di magnifici papaveri rossi, il loro profumo era intensissimo.
Mentre avanzavano nel campo di papaveri, a Dorothy iniziarono a diventar pesanti le palpebre e dopo poco, non riuscendo a tenere più gli occhi aperti, si addormentò, come pure il cane Toto ed i Leone Codardo. Tutti caddero in un sonno profondo, tranne lo Spaventapasseri ed il Boscaiolo di Latta, che non avendo necessità di respirare, non avevano subito l’effetto sonnifero del profumo dei papaveri.
I due si guardarono in faccia – dobbiamo portarli via da questo campo di papaveri il più in fretta possibile – disse lo Spaventapasseri, così insieme al Boscaiolo di Latta, presero Dorothy che aveva ancora Toto in braccio e corsero attraverso lo sconfinato campo di papaveri che sembrava non finire mai.
Arrivarono fino alla riva del fiume, dove deposero Dorothy con dolcezza. Poi pensarono a come trasportare via da lì il Leone Codardo, ma si resero conto che per loro era troppo grosso e pesante, e a malincuore dovettero lasciarlo in mezzo al campo di papaveri.
– Dobbiamo ritrovare il sentiero di mattoni dorati – disse lo Spaventapasseri. – Non dovremmo essere lontani, siamo di nuovo al fiume, basterà ripercorrerlo a ritroso – gli rispose il Boscaiolo di Latta.
Proprio in quel momento sentirono un ringhio non lontano, una lince stava inseguendo un povero topolino; il Boscaiolo di Latta prese la sua ascia e si mise in mezzo proprio tra la lince ed il topolino a difesa di quest’ultimo. Alla vista di quello strano uomo tutto di metallo, la lince scappò via a gambe levate.
– Non so come ringraziarvi – disse il topolino. – Figurati! – disse il Boscaiolo di Latta – anche se non ho un cuore sento il bisogno di aiutare chi sta in pericolo, anche se si tratta di un piccolo topolino.
– Ma io non sono un semplice topolino, io sono la Regina dei Topi di Campagna, e voglio sdebitarmi per il vostro atto di coraggio – così, richiamò a sé tutta la sua corte di topolini, un centinaio circa, che si inchinarono di fronte al Boscaiolo di Latta.
Allo Spaventapasseri venne un’idea – Regina dei Topi, voi siete centinaia, e noi abbiamo un nostro amico, un leone, che è rimasto addormentato in mezzo al campo di papaveri, riuscireste a trasportarlo fin qui? Così vi sdebitereste col Boscaiolo di Latta!
– Un leone?! – gridarono spaventati in coro i topolini – ci mangerà tutti in un sol boccone! – Oh no, questo è un Leone Codardo, garantiamo noi che non vi farà nulla di male, e poi, ora dorme come un ghiro…
La Regina dei Topi confabulò con i suoi consiglieri, finché non iniziarono ad organizzarsi per andare a recuperare il leone. Chiesero aiuto al Boscaiolo di Latta e allo Spaventapasseri per costruire un carretto dove mettere il grosso leone, per poi trasportarlo fin li sulla riva.
In men che non si dica il carretto fu pronto, e tutti i topolini andarono a recuperare il leone, con grandi sforzi lo misero sopra il carretto e lo portarono vicino a Dorothy e Toto che si stavano lentamente risvegliando.
Dopo aver deposto il leone, i topolini corsero via per paura di essere mangiati. Rimase solo la Regina dei Topi che disse: – Abbiamo riportato qui il vostro amico, se doveste avere ancora bisogno di noi, non esitate a tornare qui nei campi a chiamarci, noi accorreremo in vostro aiuto! – e dopo un cenno del capo corse via anche lei in mezzo all’erba alta.
Poi sedettero tutti accanto al Leone Codardo ad aspettare che si svegliasse. Pian piano il leone si riprese, e il Boscaiolo di Latta e lo Spaventapasseri raccontarono a lui e Dorothy l’incredibile avventura avuta con i topolini.
Ripresero quindi il viaggio verso la Città di Smeraldo, per fortuna riuscirono quasi subito a ritrovare il sentiero di mattoni dorati. In lontananza iniziavano ad intravedere quella che sembrava proprio la Città di Smeraldo.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Mago di Oz!
Il Mago di Oz 🌪 CAPITOLO 2: Dorothy incontra lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone.
Superata la collina, Dorothy trovò l’inizio del sentiero di mattoni dorati. Rimase meravigliata dal paesaggio che la circondava, pieni di prati verdi, alberi da frutto e campi di grano. Dopo un po’ Dorothy decise di fare una pausa, e si sedette su una staccionata a contemplare un buffo spaventapasseri in mezzo al campo di grano. Lo Spaventapasseri le fece l’occhiolino.
In un primo momento Dorothy pensò di essersi sbagliata, ma poi vide che lo Spaventapasseri le faceva un cenno col capo per salutarla, a quel punto Dorothy scese dallo steccato e andò a vederlo meglio, seguita dal suo cagnolino Toto.
– Buongiorno! – disse lo spaventapasseri con una voce un po’ rauca. – Ma tu parli! – rispose meravigliata Dorothy. – Certo! Ho il cervello pieno di segatura e non sono molto intelligente, ma so parlare – le sorrise.
Dorothy era stupita, non aveva mai visto uno Spaventapasseri parlare – Ma tu te ne stai sempre qui? non puoi scendere? – Purtroppo sì, ho un palo infilato nella schiena… se tu mi facessi la cortesia di togliermelo mi faresti una grande cortesia. Dorothy tese entrambe le braccia e lo sfilò dal palo.
– Grazie mia cara bambina, mi sento un uomo nuovo! – disse lo spaventapasseri, poi aggiunse – ma come ti chiami, e che ci fai qui? – Mi chiamo Dorothy, e sto andando alla Città di Smeraldo dal Mago di Oz, tu sai dove sono? – Città di Smeraldo? Mago di Oz? Mai sentiti – disse incuriosito lo Spaventapasseri. – Ma come non conosci il Mago di Oz?! Lui è l’unico che può farmi tornare in Kansas, dai miei zii… – rispose Dorothy con lo sguardo triste. – No purtroppo non so un bel niente, io ho la testa imbottita di paglia e non ho un cervello per capire le cose… ma dimmi, questo Mago di Oz è molto potente?
– Si è molto potente, almeno così mi hanno detto… – rispose non molto sicura Dorothy. – E dici che potrebbe darmi un cervello? – chiese lo Spaventapasseri. – Non ne ho idea, però puoi accompagnarmi fino alla Città di Smeraldo così potrai scoprirlo. – Va bene, accetto volentieri! – disse entusiasta lo Spaventapasseri, e si incamminarono assieme sul sentiero di mattoni dorati.
Camminarono e camminarono fino ad arrivare dentro un bosco dove c’era un ruscello di acqua limpida, e lì si fermarono. Dorothy si sciacquò il viso e fece una merenda. Ne offrì anche allo Spaventapasseri, ma lui la bocca ce l’aveva solo dipinta e non aveva bisogno di mangiare. Ad un certo punto sentirono uno strano rumore.
– Cosa è stato? – chiese intimorita Dorothy. – Non ne ho idea – rispose lo Spaventapasseri. Il rumore sembrava provenire da un punto alle loro spalle. Si volsero e, fatti pochi passi nella foresta, l’attenzione di Dorothy fu attratta da qualcosa che luccicava in mezzo agli alberi.
Davanti a loro c’era un uomo fatto di latta con una scure in mano. Se ne stava immobile in quella scomoda posizione con la scure alzata, rigido come una statua. Toto gli ringhiò contro abbaiando e addentandogli la gamba, ma si dovette allontanare subito uggiolando dal dolore ai denti per aver morso un pezzo di dura latta.
– Sei stato tu a fare quel gemito rumoroso? – chiese Dorothy. – Si – rispose l’uomo di latta con voce roca – ero proprio io, da quasi un anno mi lamento in continuazione, ma mai nessuno è venuto qui ad aiutarmi finora…
– Cosa possiamo fare per te? – domandò la bambina. – Prendi l’oliatore che sta in quel capanno e ungimi le giunture, sono talmente arrugginite che non riesco più a muovermi…
Dorothy corse al capanno, prese l’oliatore e con cura iniziò ad oliare tutte le giunture, collo, spalle, braccia e gambe, finché l’Uomo di Latta non fu libero di muoversi liberamente.
– Grazie mille amici miei! Sarei rimasto per sempre in quella scomoda posizione se non foste arrivati a salvarmi! Come mai siete capitati da queste parti? – Stiamo andando alla Città di Smeraldo per incontrare il Mago di Oz. Io voglio chiedergli di farmi ritornare nel Kansas dai miei zii, mentre lo Spaventapasseri vorrebbe chiedergli di ricevere un cervello.
– Pensate che il Mago di Oz mi possa dare un cuore? – chiese l’Uomo di Latta – Be’, non sarebbe più difficile che dare un cervello allo Spaventapasseri… vieni con noi! – gli disse Dorothy. – Va bene! Però devo portarmi dietro l’oliatore, se dovessi bagnarmi mi arrugginirei di nuovo…
I tre ripresero il cammino sul sentiero di mattoni dorati. Dopo un po’ Dorothy, presa dalla curiosità, chiese all’Uomo di Latta: – Ma perché vuoi chiedere al mago di Oz di darti un cuore? – Perché una volta ero un uomo di carne ed ossa, mi ero innamorato di una ragazza, ma sua madre non ne voleva sapere di me, quindi ha chiesto alla Strega Cattiva dell’Est di impedire che io e sua figlia ci sposassimo. Con un incantesimo la strega mi ha trasformato in un uomo di latta, senza più un cuore per essere innamorato della mia bella… ecco, se potessi riavere un cuore potrei tornare ad essere innamorato di lei.
Dorothy e lo spaventapasseri ascoltarono con attenzione, capendo perché ci teneva tanto a volere un cuore. Intanto continuavano a camminare sul sentiero di mattoni dorati attraverso il folto bosco.
Ad un certo punto si udì uno spaventoso ruggito, e d’un tratto, con un balzo, dalla foresta sbucò fuori un grosso leone che, con una zampata, fece volare lo spaventapasseri a bordo strada e, con gli artigli affilati, colpì il Boscaiolo di Latta.
Toto iniziò ad abbaiare forte e il leone spalancò le fauci per azzannarlo, ma Dorothy per paura che il suo caro cagnolino facesse una brutta fine, si piantò davanti al leone tirandogli due sonori schiaffi sul muso.
– Non azzardarti a toccare Toto! – gridò Dorothy – Vergognati! Un bestione grosso come te che se la prende con un piccolo cagnolino! – Ma io non l’ho morso… – rispose piagnucolando il leone, che si stava strofinando il muso con le sue grosse zampe, per il dolore degli schiaffi ricevuti. – No, ma ci hai provato, sei solo un codardo!
– Lo so, sono un codardo, ma che ci posso fare se sono fatto così? – disse in tono triste il leone. – E che cosa ti ha fatto diventare così? – chiese Dorothy con curiosità. – Non lo so, ci sono nato codardo… di solito per far paura a qualcuno mi basta fare un grosso ruggito, e quello scappa a gambe levate, ma se qualcuno volesse battersi con me, penso che scapperei io a gambe levate…
– Ma un leone come te dovrebbe essere il re della foresta! – esclamò lo Spaventapasseri, che intanto si stava rassettando i vestiti mentre l’Uomo di Latta si puliva i graffi. – Hai ragione, sapessi quanto sono infelice per questo! Dovete scusarmi se vi ho spaventato ora vi lascio andare per la vostra strada… a proposito, dove siete diretti? – Stiamo andando alla Città di Smeraldo a chiedere udienza al grande Mago di Oz, devo chiedergli di rimandarmi nel Kansas dai miei zii – disse Dorothy.
– E io devo chiedergli di darmi un cervello – continuò lo Spaventapasseri. – E io devo chiedergli di darmi un cuore – aggiunse l’Uomo di Latta. Il Leone Codardo li guardò un attimo incuriosito, poi con un fil di voce chiese: – Pensate che il Mago di Oz potrebbe darmi del coraggio?
– Se può dare un cervello a me… – disse lo Spaventapasseri. – E a me un cuore… – aggiunse il Boscaiolo di Latta. – Se può aiutarmi a tornare dai miei zii nel Kansas… – concluse Dorothy. – Allora se non avete nulla in contrario, posso unirmi a voi? – Sei il benvenuto! – risposero tutti in coro. A nche Toto abbaiò con approvazione.
Il gruppetto quindi si rimise felice in viaggio lungo il sentiero di mattoni dorati che portava alla Città di Smeraldo
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Canto di Natale!
Canto di Natale 🕯 QUINTO CANTO: Lo spirito del Natale
– Vivrò nel Natale passato, in quello presente e in quello futuro – ripeté a bassa voce Scrooge, alzandosi dal letto.
“Sono felice come un angelo! Non so che giorno del mese sia. Non so quanto tempo sono stato tra gli spiriti, non…” pensò tra sé. D’improvviso corse alla finestra, l’aprì e sporse fuori la testa, vide un ragazzo giù in strada e gli urlò: – Che giorno è oggi?! – Oggi? – rispose il ragazzo stupito dalla domanda – oggi è il giorno di Natale!
“È il giorno di Natale!” si disse Scrooge. “Non l’ho perso! Gli spiriti hanno fatto tutto in una sola notte.”
– Ragazzo! – continuò Scrooge – vai dal pollivendolo all’angolo e prendimi il tacchino più grande che hanno, torna qui col garzone del pollivendolo e ti darò una moneta d’oro se lo consegnerai all’indirizzo che ti dirò! Il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e corse dal pollivendolo.
“lo farò recapitare a casa di Bob Cratchit, penso che Tiny Tim ne sarà felice…” Scese le scale ed il ragazzo era già di ritorno col garzone, che teneva in mano un tacchino enorme. Diede i soldi a entrambi e l’indirizzo a cui portarlo.
– Bravo ragazzo! – gli disse, e questi volò a casa di Bob Cratchit. Scrooge, ancora tremante per l’emozione, risalì in casa, si mise l’abito buono e scese in strada.
Non era andato lontano, quando intravide due signori. Erano gli stessi che erano entrati nel suo ufficio a chiedere la carità per i poveri. – Miei cari signori – disse Scrooge – come state? Temo di non essere stato molto gentile con voi ieri. Permettetemi di chiedervi scusa, avrete la gentilezza di accettare questo piccolo dono da parte mia. Scrooge prese la mano di uno dei due e gli mise nel palmo un piccolo sacchetto.
– Dio vi benedica! – gridò il gentiluomo – Mio caro signor Scrooge, fate sul serio? Non so cosa dire per tanta generosità! Scrooge sorrise, ma in un batter d’occhio si voltò e a passi veloci si allontanò da loro.
Scrooge andò a casa di suo nipote e bussò alla porta. – Fred, sono tuo zio Scrooge! Sono venuto a cena. Mi lasci entrare? Fred, sorpreso, lo fece entrare con gioia, tutti gli diedero un caloroso benvenuto e fecero una festa meravigliosa in splendida compagnia.
Il mattino seguente Scrooge era in ufficio di buon’ora. Oh, era in anticipo, se solo fosse riuscito a sorprendere Bob Cratchit arrivare in ritardo… E c’era riuscito!
Bob era in ritardo di ben diciotto minuti e mezzo. Scrooge sedeva davanti alla porta spalancata, per poterlo vedere entrare.
– Buongiorno! – grugnì Scrooge quando lo vide arrivare, cercando di imitare il suo solito tono di voce arcigno – come ti viene in mente di presentarti al lavoro a quest’ora!? – Sono desolato signor Scrooge – disse Bob col berretto in mano e gli occhi bassi – non si ripeterà mai più, ieri sera abbiamo fatto un po’ di festa e…
– Ascolta bene quello che ti dico – riprese Scrooge – non intendo tollerare ulteriormente questo genere di cose! Bob Cratchit sbiancò in viso e si mise a tremare per la paura.
– Quindi – aggiunse Scrooge mentre il ghigno gli si trasformava in sorriso – ho deciso di darti un sostanzioso aumento di stipendio! Bob spalancò gli occhi e per l’emozione quasi svenne, ma lo sorresse Scrooge, che lo abbracciò forte e gli disse: – Buon Natale Bob! Che sia migliore di tutti quelli che ti ho fatto passare in tutti questi anni. Ti aumenterò lo stipendio e farò di tutto per aiutare la tua famiglia.
Scrooge mantenne la parola, fece di tutto e anche di più, e per Tiny Tim , che non morì, fu come un secondo padre.
Scrooge divenne un uomo buono, amato da tutta la città. Tutti si chiesero, nei tanti anni che Scrooge ebbe ancora da vivere, il motivo del suo grande cambiamento. Ma lui non se la prendeva, anzi ne ridacchiava felice.
In lui e nel suo cuore era finalmente sceso il vero spirito del Natale.
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Canto di Natale!
Canto di Natale 🕯 QUARTO CANTO: Il fantasma del Natale futuro
Lentamente e silenziosamente il fantasma si avvicinò. Era molto alto e indossava un indumento nero che copriva tutto il suo corpo e non lasciava visibile nulla, tranne una mano tesa.
– Tu sei il fantasma del Natale Futuro? – chiese quasi in lacrime Scrooge – ti temo più di ogni altro spirito incontrato finora, ma so che sei qui per il mio bene e sono pronto a seguirti.
Il fantasma non disse una parola, ma poco dopo Scrooge si sentì precipitare nel vuoto. Cadde con un tonfo, poi Scrooge cercò di rialzarsi in piedi.
Erano in una strada vicino casa sua, e due uomini stavano parlando di una persona appena morta.
Da lontano stava arrivando un carro funebre, e Scrooge aveva la netta sensazione che fosse stato chiamato per lui.
– Spirito, c’è qualcuno che ha provato compassione per quel morto? Il fantasma non rispose, ma lo condusse ad una casa che riconobbe subito, quella di Bob Cratchit. Bob stava rientrando, mentre sua moglie lo stava aspettando come se attendesse una notizia importantissima.
– E’ morto – disse Bob. – Dio sia lodato! – esclamò la donna, pentendosi subito di aver provato gioia per la morte di una persona – ma adesso a chi passeranno i nostri debiti? – Non lo so, ma nessuno sarà mai peggio del vecchio Scrooge…
Scrooge era sconvolto. Non era pronto a sapere che i sentimenti provati per la sua morte sarebbero stati di gioia.
Ci fu un bagliore e poi tornò la stessa stanza, dove l’intera famiglia Cratchit era riunita intorno allo stesso tavolo della loro gioiosa festa di Natale. Ma ora l’aria che si respirava era tetra, silenziosa e triste.
I piccoli e rumorosi Cratchit erano immobili come statue. Quando Bob entrò, i bambini gli corsero incontro a salutarlo e lui li strinse forte abbracciandoli. – Ci sei andato oggi? – chiese sua moglie.
Bob Cratchit, che era appena tornato dal cimitero alzò lo sguardo verso di lei e le rispose in lacrime: – Sì, mia cara… gli ho promesso che saremmo andati a trovarlo ogni domenica… Il mio piccolo, piccolo Tim… Gli altri figli lo abbracciarono più forte che poterono.
Scrooge si sentì sopraffare dal dolore, con un filo di voce disse allo spirito: – Immagino che il momento in cui noi due ci separeremo sia vicino… non so come ma lo so… dimmi, chi era la persona trasportata nel carro funebre?
Il fantasma del Natale Futuro fece un gesto con la mano e tutto scomparve nell’oscurità.
Quando un filo di luce iniziò ad illuminare debolmente il paesaggio intorno a loro, Scrooge capì di essere in un cimitero. Lo spettro camminò lentamente avanti a lui, finché non si fermò tra le tombe e ne indicò una.
Scrooge si avvicinò e, seguendo il dito del fantasma, lesse sulla pietra della tomba un nome, il suo: EBENEZER SCROOGE.
– Spirito! – gridò Scrooge – ascoltami! Non sono più l’uomo che ero! Non sarò più l’uomo che sono stato finora! Perché mostrarmi tutto questo se ormai ho superato ogni speranza? …Buon spirito, onorerò il Natale nel mio cuore e cercherò di mantenerlo tutto l’anno. Vivrò nel passato, nel presente e nel futuro, gli spiriti di tutti e tre saranno dentro di me e non ignorerò le lezioni che mi hanno insegnato. Oh, dimmi che posso cambiare il mio destino, dimmelo!
Pieno di paura, Scrooge prese la mano dello spirito con forza. Lo spirito cercò di divincolarsi ma Scrooge, con tutta la tenacia che gli rimaneva in corpo, non mollò la presa.
Più si dimenava, più lo spirito cambiava forma, rimpicciolendosi, contorcendosi e mutando, come per magia, fino a trasformarsi in un letto.
Il suo letto. La sua stanza. Ebenezer Scrooge era di nuovo a casa sua.
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Canto di Natale!
Canto di Natale 🕯 TERZO CANTO: Il fantasma del Natale presente
Scrooge si svegliò mentre russava sonoramente, poco prima che l’orologio suonasse di nuovo l’una. Si sedette sul letto e aspettò che arrivasse il secondo fantasma.
La campana rintoccò. Subito dopo la stanza fu nuovamente inondata di luce, ed ecco lì davanti a lui il fantasma. Aveva capelli ricci, occhi scintillanti e indossava una semplice veste verde con pelliccia bianca. I suoi piedi erano nudi e sul capo portava una ghirlanda di agrifoglio.
– Sono il fantasma del Natale Presente – annunciò a gran voce lo spettro. Compreso che non avrebbe potuto sottrarsi alla lezione che gli sarebbe stata impartita da quel fantasma, Scrooge disse: – Spirito, sono pronto, portami dove desideri.
Il fantasma sorrise allegro e portò Scrooge a casa di Bob Cratchit, una piccola dimora molto povera. In cucina si vedeva la signora Cratchit che preparava la cena di Natale. I suoi figli correvano allegramente in giro per le stanze e Bob Cratchit entrò con Tiny Tim sulle spalle. Tiny Tim era il figlio più giovane di Bob Cratchit e camminava con una piccola stampella. Aveva le gambe malate che dovevano venire sorrette da una specie di gabbia metallica, per poter camminare.
– Questo è quello che il tuo fedele dipendente può permettersi con il misero stipendio che gli dai – disse lo spirito. Scrooge sospirò. Il pranzo di Natale di casa Cratchit era pronto e tutti si sedettero a tavola. Dato che i Cratchit erano molto poveri, non avevano molto da mangiare per la cena di Natale. Ma nonostante ciò, tutti erano gioiosi e si sentiva che tutti loro avevano lo Spirito del Natale nei loro cuori.
– Buon Natale a tutti noi! Dio ci benedica! – disse Bob Cratchit. – Dio ci benedica tutti! – disse il piccolo Tim, che si sedette al fianco di suo padre sul suo piccolo sgabello. Bob gli teneva forte la manina, come se temesse di perderlo. – Spirito – disse Scrooge, che era veramente dispiaciuto per il ragazzo – dimmi se Tiny Tim sopravviverà. Ci fu il silenzio. Poi il fantasma parlò.
– Vedo un posto vuoto il prossimo Natale, e una stampella senza padrone. Questa notizia rese Scrooge molto triste. Proprio in quel momento veniva servito in tavola l’arrosto, portato in solenne processione da due dei figli di Bob Cratchit.
Sebbene non avessero potuto permettersi un tacchino come era di tradizione, il profumo dell’arrosto era davvero invitante. Bob si alzò in piedi col bicchiere in mano, e tutti fecero altrettanto.
– Un brindisi al Signor Scrooge, che ci permette di avere questo banchetto! Se non fosse per il lavoro che mi dà ogni giorno, non avremmo nulla su questa tavola. Scrooge non riusciva a credere che Bob stesse facendo un brindisi proprio a lui.
La signora Cratchit, contrariata, fece una smorfia e disse: – Patrono del banchetto, come no! Vorrei che fosse qui per dargli il fatto suo a quello spilorcio… – Cara, ci sono i bambini ed è il giorno di Natale… – disse sorpreso Bob. – E’ Natale si, ma tu come fai a brindare a quell’avaro e insensibile vecchio?!
Bob guardò la moglie e in tutta tranquillità disse: – Tesoro, è Natale ed è un giorno di gioia ed amore – Bob infine alzò il bicchiere – Buon Natale a tutti noi, miei cari, che Dio ci benedica! Gli altri membri della famiglia alzarono i loro calici senza troppo entusiasmo e si unirono al brindisi. – Che Dio ci benedica! – esclamò invece gioioso Tiny Tim.
Scrooge osservava la scena rapito. – Spirito, dimmi che Tiny Tim si salverà – lo implorò Scrooge. Il fantasma del Natale presente scosse addolorato la testa. – Se queste ombre non cambieranno in futuro, il bambino morirà.
Scrooge ammutolì per la tristezza. Non fece però in tempo a formulare un’altra frase che lo spirito lo prese e lo portò a casa di suo nipote. Fred e i suoi amici avevano organizzato una festa molto allegra e avevano fatto dei giochi tra loro e con i bambini. In quel momento stavano discutendo proprio di Scrooge, e delle frasi infelici che aveva avuto per suo nipote quando era andato a trovarlo nel suo ufficio.
Scrooge cercò di non guardare, ma il fantasma lo prese e lo costrinse. Scrooge aveva capito che ad ogni tappa di quello strano viaggio, si sarebbe sentito sempre più mortificato e addolorato.
– E’ un tipo un po’ strano – disse Fred – e non è di facile compagnia. – Ma è straricco! – aggiunse la moglie. – E con questo? – ribatté Fred – La sua ricchezza non gli serve a niente, non ci fa nulla di buono Non li spende nemmeno per le sue comodità e si fa del male da solo. Vedi, lui ha deciso che non verrà a cena da noi, e qual è il risultato? Che si perde una cena. Nella stanza risero tutti, ma anche se si era divertito, Fred non riusciva a non pensare al suo triste zio.
– Sarebbe comunque da ingrati non brindare a mio zio, un felice Natale allo zio Scrooge! Tutti alzarono il calice e brindarono insieme a lui.
Scrooge guardava la scena con sentimenti contrastanti, si sentiva deriso ma allo stesso tempo non poteva dare loro torto. E nonostante tutto, suo nipote aveva brindato alla sua salute. Fred aveva ereditato il buon cuore di Fan, la sua amata sorellina.
Tutto d’un tratto Scrooge fu portato via da quella scena e si ritrovò di fronte agli enormi ingranaggi dell’orologio all’interno della torre. Mancava un solo minuto a mezzanotte.
Guardò in viso il fantasma, che era invecchiato di colpo, e notò qualcosa di strano ai suoi piedi. C’erano due figure simili a bambini: un maschio e una femmina. Ma sembravano vecchi e spaventosi, come piccoli mostri.
– Spirito, chi sono le due creature ai tuoi piedi? – Chiese Scrooge impietrito. – Sono le creature dell’Umanità – disse lo spirito – Il ragazzo è l’Ignoranza, la ragazza è l’Avidità. Stai attento a entrambi…
Scrooge li guardò bene, e capì che i due bambini rappresentavano semplicemente la sua ignoranza e la sua avidità.
La campane suonarono. Il fantasma del Natale Presente svanì in una polvere luccicante e, attraverso il luccichio, Scrooge intravide il terzo fantasma venire verso di lui.
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Canto di Natale!
Canto di Natale 🕯 SECONDO CANTO: Il fantasma del Natale passato
Quando Scrooge si svegliò, nella stanza faceva un gran freddo e non c’era rumore di persone per le strade. Il pensiero del fantasma di Marley lo infastidiva, non capiva se fosse stato un sogno o meno. Poi si ricordò che uno spirito avrebbe dovuto visitarlo al primo rintocco delle campane, così Scrooge decise di rimanere sveglio e aspettare di vedere cosa sarebbe successo.
Infine udì le campane rintoccare: era l’una del mattino. Una luce brillò nella stanza e una piccola manina tirò indietro le tende del letto a baldacchino. Scrooge si ritrovò faccia a faccia con un nuovo fantasma.
Era una strana figura, il corpo era quello di un bambino ma i suoi capelli, che ricadevano intorno al collo e lungo la schiena, erano bianchi come quelli di un vecchio. Eppure il viso non aveva una ruga.
– Chi e cosa sei? – chiese Scrooge al fantasma. – Io sono il fantasma del Natale passato. Alzati e vieni con me.
Scrooge, come per magia iniziò a fluttuare nell’aria sopra il letto, e nonostante implorasse di non voler uscire e che non era l’ora per fare una passeggiata, fu portato dallo spirito fuori, attraverso la finestra.
Scrooge tremava e urlava dalla paura, eppure non precipitava, volava insieme allo spirito sopra le campagne intorno alla città. In poco tempo si ritrovarono su una strada che portava ad un altro paese.
– Ma questo è il luogo dove sono cresciuto da bambino! – esclamò Scrooge. Il fantasma aveva riportato Scrooge indietro nel tempo. Lì Scrooge poteva vedersi più giovane, mentre giocava con altri bambini. Correvano allegramente intorno all’albero di Natale intonando canti e facendosi gli auguri; e sebbene fossero molto poveri, si divertivano molto. Scrooge osservava la scena con occhi velati di nostalgia, ma il fantasma lo portò davanti ad un edificio di mattoni rossi. – La mia scuola… – mormorò tra sé Scrooge.
Guardando dentro un’aula si poteva intravedere un bambino tutto solo che leggeva un libro; era lui da giovane, abbandonato per volere di suo padre in quel collegio. Scrooge dovette sforzarsi per non scoppiare in lacrime.
Poi come per magia, la scena cambiò. Era la stessa identica stanza, ma invecchiata di dieci anni, e il giovane che vi stava dentro era Scrooge diciassettenne.
La porta dell’aula si aprì ed entrò una giovinetta che corse ad abbracciare al collo Scrooge ricoprendolo di baci – Caro fratello mio! – esclamò – sono venuta per riportarti a casa! – A casa? Per davvero?! – rispose meravigliato il giovane Scrooge.
Fan, sua sorella, rispose di sì. Il loro padre era mutato profondamente negli ultimi anni ed era diventato una persona molto buona, così ora lo rivoleva a casa con loro.
– Aveva un cuore gentile – mormorò il vecchio Scrooge al fantasma – è morta poco dopo aver messo al mondo mio nipote… – Vero – disse lo spirito – tuo nipote… – Si… – Scrooge di colpo si sentì in colpa per come aveva trattato Fred il giorno prima, quando era andato a trovarlo in ufficio. Poi tutto svanì di nuovo.
Lo spirito portò Scrooge in un magazzino, dove un giovane Scrooge faceva l’apprendista. Il signor Fezziwig, proprietario della ditta, aveva organizzato una gran festa con cibo, musica e balli. C’era tanta felicità quella vigilia di Natale.
– C’è voluto poco a far divertire tutte quelle persone – disse il fantasma del Natale passato – quella festa sarà costata pochi soldi, ma tutti erano felici. – Che Dio Benedica il buon caro vecchio Fezziwig – disse con voce raggiante Scrooge – era così buono e gentile…
Le emozioni che Scrooge stava provando erano così forti e intense che avrebbe voluto entrare nella scena e riallacciare tutti i rapporti persi con i suoi vecchi colleghi e amici, ma la scena svanì di nuovo.
Uno Scrooge ormai trentenne stava lavorando alla “Scrooge & Marley” e negli occhi aveva i primi segni dell’avidità, dati da una ricchezza guadagnata improvvisamente.
Marley, nell’altra stanza, stava chiudendo a chiave con le catene la cassetta di sicurezza della ditta e a quella vista il vecchio Scrooge rabbrividì: erano le stesse catene che tenevano prigioniero il fantasma di Marley.
Poi sentì piangere qualcuno, la scena era nuovamente cambiata, Scrooge era più vecchio adesso. Non era solo, ma sedeva a fianco di una bellissima ragazza, Belle.
– È triste constatare che un altro amore ha preso posto nel tuo cuore, l’amore per i soldi… – disse tristemente, ma con una nota di dolcezza nella voce, la giovane ragazza. Scrooge era cambiato, la ricchezza lo aveva reso freddo e distante.
– Posso chiederti perché giudichi così male la voglia di guadagnare molto denaro? – le rispose lo Scrooge – Il tuo cuore era pieno d’amore una volta, ma ora…? Penso che sia meglio per noi separarci. Possa tu essere felice nella vita che hai scelto – concluse Belle, mentre usciva piangendo dall’ufficio di Scrooge.
– Basta così – disse il vecchio Scrooge con voce rotta – Riportami indietro Spirito! Non torturarmi oltre, non posso più sopportare tutto questo! Il volto del fantasma sorrise beffardo e tutto iniziò a brillare di una luce fortissima. A Scrooge sembrò di precipitare nel vuoto e per la paura chiuse gli occhi.
Quando li riaprì si ritrovò di nuovo nel suo letto. Era talmente esausto che non ebbe nemmeno la forza di gridare, e sprofondò in un sonno profondo.
Il coraggio di due bambini salverà i nonni e tutto l’intero villaggio!
Come mai i nonni di Tristan e Matilda non si fanno più sentire da prima dell’estate? Cos’è successo al paese in cui vivono e tutte le case sembrano abbandonate?
Scopriamolo insieme…
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della casa abbandonata!
C’era una volta, tanto tempo fa un villaggio sperduto ai bordi di una grande foresta. In quel villaggio, in una bella casetta immersa nel verde e vicino ad un piccolo ruscello vivevano i nonni di Tristan e Matilda.
Era già autunno e purtroppo era da prima dell’estate che i bambini e i loro genitori non avevano più notizie dei due vecchietti, così il loro papà decise di andare a far loro visita.
Prese il calesse, vi caricò sopra le loro poche cose, fece montare i due bimbi e la moglie e partirono per il villaggio, al quieto passo del somarello che li trainava.
Il mattino di due giorni dopo arrivarono infine a destinazione. Rimasero alquanto stupiti di non trovare anima viva, tutte le poche casupole che formavano il villaggio sembravano disabitate.
Arrivarono quindi alla casa dei nonni. La trovarono completamente chiusa e sprangata, come se da mesi nessuno vi abitasse più. Forzando la porta con un bastone riuscirono ad entrare, ma trovarono solo polvere stantia che ricopriva tutto. Dei due nonni non c’era l’ombra. Molto preoccupati Tristan e Matilda cominciarono a cercarli in lungo e in largo per il bosco vicino, ma non trovarono nessun indizio. Non c’era nemmeno la possibilità di chiedere informazioni a qualcuno, dato che le case erano praticamente tutte chiuse.
I nonni sembravano spariti nel nulla senza lasciare traccia.
La mamma aveva comunque rassettato e pulito alla bell’e meglio la casa e il papà aveva cacciato della selvaggina per cena. Avevano deciso di rimanere in quella casa finchè non avessero capito che fine avessero fatto i nonni.
Giunse quindi la sera, il tiepido sole arancio sbiadito faceva capolino sulle cime degli alberi sulla collina, e un venticello fresco e umido di muschio accarezzava dolcemente la casa e il villaggio.
La famiglia di Tristan e Matilda era tutta riunita attorno al tavolo, il fuoco crepitava gentilmente nel camino e il profumo di carne arrosto riempiva la stanza. Erano tutti tristi per la mancanza dei nonni, ma erano sicuri che il giorno dopo li avrebbero ritrovati. Qualcuno bussò alla porta.
Tristan, Matilda e i loro genitori si girarono tutti di scatto verso la porta. Il papà si alzò con circospezione, pesò ogni passo fino alla porta, poi l’aprì piano, facendola lentamente cigolare.
– Buonasera! – urlarono tre ragazzini nella penombra. Il papà quasi trasalì per la sorpresa, poi vedendo che si trattava di tre ragazzini sorrise e li invitò ad entrare in casa.
Loro però indietreggiarono facendo di no con la testa. Tristan e Matilda si affacciarono sulla soglia per vederli. – Non possiamo entrare, ci è proibito… siamo qui per invitarvi alla festa di benvenuto che vi abbiamo organizzato nella piazza del villaggio questa sera, vi aspettiamo! – disse uno di loro con una voce bassa e monotona, priva di espressione.
Senza aggiungere altro, i tre ragazzetti si voltarono e s’incamminarono rapidamente verso il centro del paese Tristan e Matilda, sorpresi da quella visita, ma curiosi di farsi dei nuovi amici chiesero: – Possiamo andare con loro per giocare un po’ mentre vi aspettiamo in piazza?! Il papà esitò un attimo, poi acconsentì.
– Mi raccomando però state attenti che è già buio! – gridò loro mentre ormai si allontanavano. I due ragazzi cercarono di recuperare i tre ragazzi, li intravidero proprio mentre arrivavano in centro paese. Qualcosa però fece scattare un campanello di allarme in Matilda: – Fermati Tristan! – disse sottovoce – c’è qualcosa che non mi piace…
Anche Tristan si fermò preoccupato, nell’aria si sentiva l’eco di strane e surreali voci che supplicavano di avere pietà e farli ritornare alla loro originaria vita.
I due fratelli quasi pietrificati dalla paura, si presero per mano. Non vollero però scappare, anzi, con cautela e riparati dal muretto di una casa si avvicinarono per vedere meglio cosa stava succedendo nella piazza.
Videro con i loro occhi i tre ragazzini trasformarsi in tre demonietti malvagi, che saltavano e ridevano davanti ad un gran falò sopra il quale vagavano degli spiriti.
Ma non erano spiriti qualunque, erano in realtà tutti gli abitanti del villaggio trasformati in fantasmi da un malvagio sortilegio dei demonietti.
– Guarda la! I nonni! – esclamò Tristan a Matilda senza pensare che i tre demonietti avevano l’udito molto fino… infatti uno di loro si voltò nella loro direzione con sguardo malevolo.
Tristan e Matilda si nascosero sotto il muretto sperando di non essere visti, poi carponi ripresero la via di casa dei nonni per avvisare mamma e papà.
Corsero a perdifiato senza mai voltarsi indietro, speravano di non essere stati scoperti dai demonietti. Arrivati sulla soglia di casa trovarono mamma e papà che si apprestavano ad uscire.
– Dobbiamo scappare! – esclamò Matilda. – E perché mai? – chiese la madre. – I tre ragazzi di prima sono in realtà tre demonietti che hanno trasformato in fantasmi tutti gli abitanti del villaggio, e vogliono trasformare anche noi! – disse Tristan.
– Nella piazza del villaggio arde un grande falò attorna al quale ci sono anche gli spiriti dei nonni! – continuò Matilda. – Ma voi due siete impazziti… – aggiunse il loro papà guardandoli con occhi stupiti. – E invece no! – gridò uno dei demonietti spuntando fuori dall’ombra proprio in quel momento brandendo una bacchetta magica. Toccò il papà di Tristan e Matilda con la punta della bacchetta e lo trasformò all’istante in uno spirito.
La mamma gridò, ma fu toccata anche lei dalla bacchetta e trasformata in fantasma. Tristan voleva urlare, ma preso dall’impeto di vendicare i genitori, con un calcio fece cadere il diavoletto che perse la bacchetta magica. Prontamente Matilda raccolse la bacchetta da terra e con un colpo ben assestato toccò il diavoletto che sparì in una nuvoletta di fumo grigio. Senza sapere se potesse funzionare, d’istinto Matilda toccò anche i due fantasmi di mamma e papà che ritornarono all’istante se stessi.
– Dobbiamo andare a liberare i nonni e tutti gli abitanti del villaggio! – esclamò Tristan. Matilda approvò con un cenno del capo e corsero di nuovo alla piazza del paese.
Tristan lanciò un grande sasso in mezzo alla piazza per distrarre gli altri due demonietti, mentre Matilda di soppiatto e velocemente ne colpiva uno alle spalle facendolo sparire in una nuvoletta di fumo.
– Ma cosa…?! – il terzo demonietto non fece in tempo a rendersi conto di quello che era successo al suo compagno che era ormai anche lui una grigia nuvoletta di fumo.
Matilda allungò la bacchetta toccando i loro nonni, che finalmente poterono riabbracciare dopo tanto tempo, e poi ad uno ad uno tutti gli abitanti del villaggio furono riportati alla normalità.
Il giorno dopo ci fu una grande festa al villaggio. La bacchetta magica fu spezzata e buttata nel grande falò e Tristan e Matilda furono osannati come due grandi eroi.
Anche i misteri più fitti si risolvono con un po’ di astuzia
Masino e la Strega Micilina è un racconto popolare di origine piemontese, dove le streghe sono chiamate “masche”. Ne parla anche Italo Calvino nella sua raccolta “Fiabe Italiane”, questa è la versione scritta da fabulinis, buon racconto!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Masino e la Strega Micilina!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare Masino e la Strega Micilina raccontata da Silvia!
Masino e la Strega Micilina 🧙♀️ racconto completo
Masino veniva dal paese di Pocapaglia, era un tipo molto sveglio ma era partito per fare il soldato in giro per il mondo. Mancava molto ai suoi compaesani perché, essendo così in gamba riusciva a risolvere sempre i misteri del paese e i guai di tutti i suoi abitanti.
Pocapaglia è una paesino nato sul versante di una collina talmente ripida che gli abitanti legavano un sacchetto sotto la coda delle galline, per evitare che le uova rotolassero giù fino in pianura, quando venivano deposte.
E qui inizia la nostra storia: infatti, non passava notte senza che la Strega Micilina sbucasse fuori dai boschi, furtiva, per portarsi via, con il suo malefico soffio, capre, pecore e buoi, mentre rientravano alle stalle.
Gli abitanti avevano acceso grandi falò per illuminare la via e avevano organizzato spedizioni per ritrovare gli animali rubati, ma la Strega Micilina sorprendeva i pastori alle spalle stordendoli col suo terribile soffio. Purtroppo le orme lasciate dalle scarpe della Strega, sparivano nel sottobosco senza lasciare traccia, l’unica cosa che rimaneva erano ciuffi di pelo scuri attaccati ai cespugli.
I contadini alla fine, per disperazione, rinchiusero nelle stalle gli animali, e si riunivano tutti, la sera, attorno al fuoco acceso nel bel mezzo della piazza, per piangere questo triste destino. Nel frattempo, mucche, pecore e capre diventavano sempre più magre… e la Micilina continuava a rubarle lo stesso, approfittando del fatto che i contadini in piazza non facevano la guardia alle stalle.
I Pocapagliesi, ormai, avevano talmente tanta paura da non riuscire a prendere nessuna decisione, e l’unica cosa che ormai riuscivano a fare era sperare che arrivasse Masino. Ma Masino era sempre in giro per il mondo a fare il soldato e nessuno sapeva quando sarebbe tornato.
Pensa e ripensa, decisero di andare dal Conte.
Il Conte viveva chiuso nel castello in cima alla collina, ed aveva una schiera di soldati al suo servizio. Gli abitanti erano sicuri che tutti questi guerrieri non avrebbero avuto difficoltà a catturare la Strega Micilina.
Così, una mattina, salirono al castello, e lo trovarono in un cortile pieno di soldati mentre si lisciava la lunga barba nera e ben pettinata. I contadini si inchinarono, toccando quasi terra con la testa; e il più vecchio di loro, fattosi coraggio, prese a parlare.
– Signor Conte – disse – siamo venuti qui per chiedervi aiuto per risolvere un problema, solo Vostra Signoria è in grado di liberarci da questa sventura. Nei boschi vive nascosta la Strega Micilina, e di notte arriva furtiva e ci porta via tutte le bestie. Noi non possiamo che disperarci senza fare nulla, perché non siamo armati e basta il suo soffio malvagio per buttarci a terra. Imploriamo perciò Vostra Signoria di mandare i soldati a far la guardia e prendere la ladra.
– Se mando i soldati – ribattè il Conte – devo mandare anche il capitano; ma il capitano la sera deve giocare a tombola con me, perciò se ne resta qui.
I contadini si gettarono ai piedi del Conte, lo supplicarono di aver pietà di loro e di concedere il suo aiuto, ma invano.
Alla fine il Conte, infastidito, chiuse la discussione dicendo: – Io di streghe non ne ho mai viste, quindi la Strega Micilina non esiste! E fece cenno ai soldati, i quali cacciarono via i contadini.
I Pocapagliesi, quella sera, si ritrovarono attorno al falò ancora più disperati di prima. Discutevano sul da farsi, e alla fine il più vecchio disse: – Dobbiamo proprio cercare Masino.
Furono tutti d’accordo, e, sapendo che si trovava in Africa, gli scrissero per chiedergli di tornare.
Fu così che Masino arrivò a Pocapaglia una sera, e trovò tutti i suoi compaesani disperati accanto al fuoco. Quando lo videro, gli fecero una gran festa ed erano tutti curiosi di conoscere tutte le sue avventure. Ma lui volle prima sapere perché l’avevano fatto tornare.
I contadini raccontarono tutta la storia della Strega e del Conte, e alla fine Masino disse: – Forza e coraggio! A mezzanotte andrò io nel bosco e vi porterò la Strega, parola di Masino. Ma devo prima sapere tre cose.
– Che cosa vuoi sapere? – fecero i contadini rincuorati. – Barbiere, quanti clienti ha avuto in questo mese? – Tutti i presenti sono stati sbarbati e rasati da me nell’ultimo mese. Ho tagliato tante di quelle barbe e tanti di quei capelli che potrei riempirci un fosso! – rispose il barbiere.
– Ciabattino, quante scarpe ha riparato nell’ultimo mese? – Eh, nessuna, qui i contadini vanno tutti scalzi e il mio mestiere serve ben a poco… – disse con voce triste il calzolaio.
– E tu, cordaio, quante corde hai venduto ultimamente? – chiese ancora Masino. – Ho venduto tutto quello che avevo in bottega: corde, funi, canape e corregge: non mi è rimasto nulla!
– Adesso so quanto mi basta, svegliatemi a mezzanotte e manterrò la mia promessa – concluse Masino. E si mise a dormire.
A mezzanotte in punto lo svegliarono. Masino si scrollò il sonno di dosso, bevve una ciotola di brodo bollente e se ne andò, addentrandosi da solo nel bosco scuro.
I contadini rimasero seduti attorno al fuoco in silenzio, fino a quando il fuoco morì. Attesero ancora e, quando ormai albeggiava, ecco tornare Masino e portare dietro di sè, tirandolo legato ad una fune, il signor Conte dalla lunga, lucida e nera barba.
– Questa è la vostra Strega! E’ il signor Conte, che, guarda un po’ non vi aveva voluto aiutare. Tutti lo guardarono meravigliati, poi Masino continuò: – Ho capito che non potesse essere uno spirito perché aveva bisogno di legare le bestie per portarle via; dunque il ladro doveva essere un essere umano. Ma non era nessuno di voi, perché voi camminate scalzi senza scarpe o zoccoli ai piedi, e c’erano invece le orme. Tutti, poi, avete barba e capelli corti, perciò non potevate lasciare ciuffi di pelo attaccati ai cespugli. Ma il Conte ha la barba lunga, e in più porta le scarpe e ha a disposizione molte funi.»
– E il terribile soffio che ci buttava a terra? – Chiesero i Pocapagliesi.
– Macché soffio! Portava con sè un bastone coperto di stracci, con il quale vi colpiva per tramortirvi: voi lo sentivate fischiare nell’aria e, quando vi risvegliavate dal colpo, vi ritrovavate con la testa pesante e senza ferite. Perciò credevate di essere stati abbattuti da un soffio, ma in realtà vi aveva solo dato una bella legnata. Ma adesso del Conte che cosa ne volete fare? – concluse Masino.
I contadini iniziarono a vociare e a parlarsi uno sopra l’altro: qualcuno proponeva di mettere il Conte al rogo, altri volevano gettarlo nel fiume, magari chiuso in un sacco con quattro gatti arrabbiati…
Il Conte, in ginocchio, invocava pietà e chiedeva perdono.
Infine Masino chiese a tutti di tacere e disse: – Morto non serve a nessuno. Possiamo però approfittare del fatto che conosce il bosco come le sue tasche e che, per fingersi la Strega, è abituato a stare sveglio di notte. La mia proposta è questa: lo manderemo di notte a raccogliere legna nel bosco e portarvela già in fascine. E, già che c’è, potrà dare l’allarme se un lupo o qualunque altro pericolo si avvicina al paese. Così sarà stato utile a tutti e potrà ripagare il suo debito con tutti voi.
I contadini furono d’accordo, ed il Conte lavorò per loro, finché la barba gli divenne bianca e non ebbe più le forze per farlo. Ma a quel punto era ormai diventato amico di tutti in paese e i Pocapagliesi si presero cura di lui durante la sua vecchiaia.
Masino però non potè vedere invecchiare il conte e rifiorire Pocapaglia, perché appena risolto questo mistero ripartì per il mondo, tanto adesso di lui non avevano più bisogno.
A volte per viaggiare il mondo basta aprire un libro!
Il topolino Sam è un tipo curioso, molto curioso, e la sua amica Anna lo aiuterà insegnandogli un sacco di cose!
Il topo giramondo 🌍
Sam era un topolino di campagna, ma non uno qualunque, sapeva leggere e scrivere la lingua degli umani! Ebbene sì, il topino era cresciuto insieme ad Anna, la figlia del contadino, una graziosa e vivace bambina di otto anni.
Anna conobbe Sam, quando dalla città’ si trasferirono in campagna, per aprire l’azienda agricola tanto sognata dal suo papà, Paolo. Sam si trovò subito a suo agio nella cameretta di Anna, ricca di scatole e scatoline di ogni genere. Potete immaginare che spasso per un topino giocare con tutti quei nascondigli!
Anna amava leggere libri di avventura e Sam si incantava ascoltando quelle fantastiche storie. Un giorno, Anna e Sam erano seduti in giardino alle prese con una nuova lettura avvincente, quando alla bimba venne in mente una bizzarra idea : “e se ti insegnassi a leggere e scrivere la mia lingua?” disse al topolino. Sam squittì e con un cenno del capo accettò la fantastica idea.
Anna nella notte prese una scatola e al suo interno costruì una mini scuola, con mini lavagna, mini banco e mini abbecedario, tutto a misura di Sam. Al mattino il topino uscendo dal suo buchetto non poté credere ai suoi occhi, era entusiasmante sapere che Anna avesse fatto tutto quel lavoro per lui.
Con un gigantesco : ”squiittttt!!!” ringraziò Anna e lei ne fu molto felice. Iniziò così da quel giorno la loro avventura! Anna cercava di far ripetere lettere e parole al topino che, a fatica, cercava di fare del suo meglio, pian piano con tanta pazienza riuscirono ad imparare l’intero alfabeto e il topolino passava la giornata a ripeterlo continuamente.
Nei giorni successivi, Anna insegnò a Sam moltissime parole come ad esempio abaco e lui scandendo bene tutte le lettere ripeteva: ”aaa-bbb-aaa-ccc-ooo” per essere sicuro di pronunciarle tutte. Non molto tempo dopo sapeva leggere delle piccole frasi e intrattenere brevi discorsi con la sua maestrina.
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LE AVVENTURE DEL TOPOLINO SAM: RACCOLTA COMPLETA
Sam era un topolino curiosissimo ed ogni passeggiata con Anna era accompagnata da: “Anna, cos’è quello? – cos’è questo? – perché è così ?” Lei rispondeva paziente e divertita da come Sam ripeteva le parole, la maggior parte delle volte storpiandole proprio come fanno i bambini piccoli. Anna pensò : ”chissà mamma e papà quanto si saranno divertiti a sentirmi pronunciare le parole storpiandole!”
Passò diverso tempo e ormai Sam e Anna intrattenevano discorsi, conversazioni e perché no anche discussioni su tutto quello che leggevano. Sam adorava i libri di storia e di mitologia e amava far finta di essere lui il protagonista delle storie più avvincenti. Anna crescendo si era appassionata ai romanzi e alle avventure fantastiche.
Nella stanza di Anna era appeso un planisfero dove Sam aveva messo una bandierina su ogni luogo da lui letto, nella speranza un giorno di poterlo visitare. Un giorno decise che fosse giunto il momento di girare quel fantastico mondo di cui aveva tanto sognato.
Come fare per esplorare il mondo? si chiese il topolino. L’unico modo era chiedere l’aiuto della sua amica. “Anna, vorrei girare il mondo e scoprire tutto quello che ancora non so”, Anna stupita ma non troppo rispose ”bene piccolo Sam, girare il mondo è anche il mio sogno, ma prima di visitare un posto così grande dovremmo studiarlo e conoscerlo, per poi assaporarne tutta la sua bellezza!” Per intraprendere questo “fantaviaggio” bisognava iniziare dal luogo che tutto sa… la biblioteca!
Scelsero la loro prima tappa, ed essendo italiani fu proprio l’Italia il paese da scoprire per primo! I due non si limitarono solo a leggere il libro, si misero a fabbricare plastici delle città più importanti, cucirono i vestiti tradizionali dei luoghi e cucinarono piatti tipici di ogni paese da loro studiato.
Così facendo, “viaggiarono” in lungo e in largo sperimentando culture, tradizioni e tutto quello che poteva esserci scritto all’interno dei libri, vivendo con la fantasia e la creatività l’emozione di viaggiare con la mente.
che splendida avventura la lettura!!!
⚜ Fine della fiaba ⚜ fabulinis ringrazia Federica Bertone per aver condiviso con tutti noi questo racconto, che fa parte di una raccolta con tante altre avventure del topolino Sam, le trovate qui sotto:
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Sirenetta!
La Sirenetta 🧜♀️🌊 CAPITOLO 3
Quando riaprì gli occhi c’era qualcuno accanto a lei, il forte sole del mattino però le impediva di vedere bene il volto di questa persona, finché gli occhi si abituarono alla luce e vide che era proprio il Principe Eric che la stava sorreggendo! – Finalmente si è riavuta mia fanciulla! Come sta? – chiese il Principe.
Ariel non poteva rispondergli, ma i suoi occhi si illuminarono di felicità, non avrebbe mai potuto immaginare una fortuna simile. Come venne a sapere solo tempo dopo, il Principe Eric ogni mattina si recava su quella spiaggia in cerca della fanciulla che lo aveva salvato dal naufragio, sperando di poterla reincontrare. – Vieni, ti porto al Palazzo, lì potrai rimetterti in sesto – disse Eric guardandola in viso. Non aveva mai visto in vita sua una fanciulla più bella di Ariel.
Ariel era raggiante, prese la mano del Principe e solo allora si accorse di avere due gambe umane al posto della coda di pesce. Ma non appena si alzò in piedi il dolore fu lancinante, ed ogni passo che faceva le sembrava di camminare su lame acuminate, ma la felicità di essere accanto al suo Principe non le fece perdere il sorriso, nonostante il dolore.
Al Palazzo Ariel fu vestita con le più preziose vesti di seta e fu accompagnata a servire assieme alle ragazze che intrattenevano le giornate del Principe cantando. Ma lei non poteva cantare.
Ariel a quel punto prese coraggio, e sfidando il dolore, si mise a ballare. Ballò incantando tutte le persone presenti che rimasero sbalorditi ed affascinati da tanta leggiadria nella danza.
Il Principe Eric si alzò in piedi entusiasta ed applaudì sonoramente, e così fecero tutti gli altri. – Voglio che quella ragazza diventi la mia unica damigella – esclamò Eric, e così fu che Ariel iniziò ad accompagnarlo in qualunque cosa lui facesse: viaggi in nave, battute di caccia e grandi banchetti.
Ariel era al settimo cielo, stare accanto al suo Principe era ciò che aveva sempre desiderato. Però le mancavano le sue sorelle, suo padre e la cara nonna… così la sera andava a sedersi sulla scalinata di marmo che dava sul mare e pensava a loro.
Una notte le sue sorelle le vennero a fare visita, cantavano tristemente quanto mancava loro la piccola e dolce Ariel. Lei piangeva di dolore nel vederle così affrante, ma ormai non poteva tornare più indietro e con la tristezza nel cuore le salutò.
Intanto il Principe Eric iniziava ad affezionarsi a lei ogni giorno di più, ma solo come amica. Purtroppo non aveva per Ariel alcuna intenzione di matrimonio.
“Non mi vuoi bene più che a tutte le altre” sembravano dire gli occhi di Ariel quando guardava il Principe, ma lui intuendo i suoi pensieri le rispondeva: – Sì, nessuna mi è cara più di te, perché tu hai un buon cuore e sei la più dolce fra tutte, ma soprattutto somigli alla fanciulla che mi salvò tempo fa da una tempesta in mare e da naufragio sicuro… quella ragazza mi salvò la vita, ma da quel giorno non l’ho più potuta vedere perché consacrata al Tempio. Penso di poter amare soltanto lei, eppure tu le somigli tanto…
“Se solo sapessi che sono stata io a salvarti la vita e non la ragazza del tempio, che ti ha solo trovato sulla spiaggia dove io ti ho dolcemente deposto…” pensava col cuore pieno di dolore Ariel, “ma se la fanciulla è consacrata al Tempio, non potrà mai sposarsi col mio amato Principe” concludeva lei.
Invece, il destino beffardo volle proprio che questa fanciulla consacrata al Tempio, fosse in realtà la figlia del Re del vicino regno confinante, e visto che il Principe Eric era in età da matrimonio, gli fu fatta la proposta di sposarla.
Prima di accettare Eric volle vedere in viso questa fanciulla perché, piuttosto che sposare una ragazza qualunque, avrebbe sposato la sua cara damigella Ariel, e partì con la nave alla volta del vicino regno portando Ariel con sé.
La sorpresa di Eric nel vedere che la sua promessa sposa era la stessa ragazza che lo aveva trovato inerme sulla spiaggia fu enorme. Come fu enorme lo sconforto e il terrore che invasero Ariel non appena capì che il suo amato Principe si era innamorato all’istante di un’altra ragazza…
Eric prese la mano della Principessa sua promessa sposa e le disse: – Tu sei l’angelo che mi ha salvato tempo fa da morte certa, le mie preghiere di rivederti sono finalmente state esaudite! Vuoi sposarmi!?
La Principessa, tutta rossa in viso annuì, e da quel momento fu un tripudio di festeggiamenti e grandi danze per l’imminente matrimonio.
Si preparò una grande nave dove celebrare il matrimonio, furono invitati tutti i nobili dei due regni e i migliori musici, poi salparono per il mare. Il banchetto di matrimonio fu meraviglioso e gli sposi si giurarono eterno amore.
Ariel li guardava appartata, triste, sconsolata, pensando che il giorno seguente all’alba sarebbe diventata spuma di mare. Non era riuscita a far innamorare di sé il suo amato Principe.
Diventò notte, ma i fuochi d’artificio illuminavano tutto a giorno. Ariel guardava il mare, poi tra le onde intravide qualcosa. Erano le sue sorelle suo padre e la nonna che stavano cercando di richiamare la sua attenzione.
– Ariel! Siamo le tue sorelle! Abbiamo offerto i nostri lunghi e splendidi capelli alla Strega del Mare per salvarti la vita! Prendi questa pozione, ti farà ricrescere la coda di pesce e potrai tornare a nuotare insieme a tutti noi! – le urlò la maggiore delle sue sorelle dalle onde del mare. Anche suo padre e sua nonna con gli occhi la imploravano di tornare.
Ariel si sporse dalla nave e afferrò al volo la pozione lanciatale dalla sorella. Guardò l’ampolla piena di liquido scuro, poi guardò il suo Principe Eric, felice e gioioso accanto alla sua novella sposa.
“E’ giusto così, che voi possiate essere felici, io ho solo cercato di forzare il destino mio e di Eric… Addio mio caro Principe, addio…”.
Ariel bevve la pozione e non appena sentì il fuoco dentro di sé si buttò in mare, dove la accolsero a braccia aperte le sue sorelle che l’abbracciarono e la presero per mano per accompagnarla al Castello del mare dove avrebbero di nuovo potuto vivere tutte assieme, e forse, essere felici.
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Curiosità sulla Sirenetta
● “La Sirenetta” è probabilmente il racconto più autobiografico scritto da Hans Christian Andersen, dove il tema della “diversità” è molto sentito. Dovete sapere che Andersen era omosessuale, e vivendo nella Danimarca del 1800, gli era completamente precluso di poter liberamente amare un altro uomo, cosa che lo rendeva particolarmente infelice.
● “La Sirenetta” è stata il film che a fine anni ’90 ha rilanciato la Disney che, dopo una serie di incredibili flop, era in grande crisi.
● Nel racconto originale di Andersen, nessuno dei personaggi ha un nome proprio, quelli usati nella nostra fiaba sono stati presi in “prestito” dalla versione realizzata dalla Disney, diventata ormai un classico dell’animazione.
● In Danimarca Andersen e il suo racconto “la Sirenetta” sono talmente famosi che all’ingresso del porto di Copenaghen, è stata realizzata una statua in onore della protagonista della fiaba
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Sirenetta!
La Sirenetta 🧜♀️🌊 CAPITOLO 2
Ritornata al castello di suo padre il Re del Mare, le sorelle le domandarono che cosa avesse visto la prima volta ch’era salita in superficie, ma Ariel si fece taciturna e non volle raccontare nulla.
Tutti i giorni ritornava nel luogo dove aveva visto il Principe per l’ultima volta, sperando di reincontrarlo, ma il tempo e le stagioni passavano e non c’era nessuna traccia del Principe. Tornava sempre sconsolata nella sua stanza del castello.
Alla fine non riuscì più a trattenere tutto il dolore che portava dentro e raccontò tutto alle sue sorelle. Una di loro, dopo aver ascoltato tutto, la prese per mano ed esclamò: – Io conosco il Principe di cui parli, e so anche dove abita! Vieni sorellina mia!
Nuotarono insieme fino al palazzo del Principe, guardarono dentro gli enormi finestroni dell’edificio a strapiombo sul mare, e dopo alcuni tentativi di ricerca lo trovarono. – Il mio Principe! – esclamò entusiasta Ariel nel rivederlo.
Da quel momento Ariel tornò ogni giorno e ogni notte al palazzo per poterlo vedere mentre passeggiava, parlava con altri nobili o prendeva la sua barca e salpava per il mare, dove lei, a debita distanza lo seguiva.
Ormai non riusciva più a vivere senza il suo Principe, “sono ormai pronta a tutto pur di conquistare il suo amore, questa sera, senza farmi vedere andrò dalla Strega del Mare e le chiederò di aiutarmi”
E così, di nascosto, nuotò fino ai confini del regno di suo padre, dove le acque erano gelide e scure, e dove i mostri marini erano spaventosi. Arrivare fino alla casa della Strega del Mare non fu facile, molti di quei mostri cercarono di ghermirla con i loro tentacoli, ma Ariel fu molto agile e veloce nello schivarli, finché non fu davanti alla soglia della casa della Strega del Mare.
Non servì bussare, la porta si aprì da sola come per magia, la Strega sapeva già del suo arrivo e la stava aspettando… – E così la mia bella principessina Ariel vuole conquistare il cuore del Principe Eric… Lo sai che è stupido quello che stai facendo, vero?
Ariel annuì incerta, il cuore le batteva forte, ma ora sapeva addirittura come si chiamava il suo Principe!
– Bene ti accontenterò – la Strega la guardò dritta negli occhi – ti darò una pozione che trasformerà la tua coda di pesce in due gambe umane, ma ricordati che ti farà male, molto male… ti sembrerà di camminare sopra i vetri taglienti e infilzata dai pugnali ad ogni passo, anche se sarai la creatura più leggiadra ed elegante che ogni essere umano potrà mai incontrare… – sulla bocca della Strega si dipinse un ghigno malefico, poi continuò: – Ma fai attenzione! – esclamò la Strega socchiudendo gli occhi – se il Principe si innamorerà e sposerà un’altra donna, tu il giorno seguente ti tramuterai in schiuma di mare… la vuoi ancora questa pozione?!
– Sì, dammela! Qualunque cosa pur di stare accanto al mio Principe! – disse Ariel tremando. La strega del Mare rise sonoramente. – Bene! Questa pozione però ha un prezzo… In cambio dovrai darmi la tua voce!
Ariel la guardò esitante. – Ma se mi togli la voce melodiosa, come farò a far innamorare il Principe di me? – Ti basterà la bellezza… – sorrise beffarda la Strega – allora, accetti? Ariel fece cenno di sì con la testa, poi abbassò lo sguardo in attesa della sua sorte.
La Strega del Mare le mise in mano la pozione, e con un sortilegio prese la sua voce e la rinchiuse dentro ad un diadema che sistemò in bella mostra al proprio collo. – Ora va’, sdraiati su una spiaggia, bevi la pozione e attendi…
Ariel con la pozione stretta tra le mani fuggì via mentre la Strega emetteva una grossa e sinistra risata. Passò davanti al castello di suo padre, dove c’erano anche le sue sorelle e la nonna, ma non ebbe il coraggio di andarli a salutare, ora che era diventata muta.
Così risalì in superficie, si adagiò sulla stessa spiaggetta riparata dove aveva lasciato il suo Principe subito dopo il naufragio e bevve la pozione. Mentre la beveva, la gola le bruciava come il fuoco, poi le sembrò che una spada affilata le trapassasse il corpo, e per il dolore svenne.
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Curiosità sulla Sirenetta
● “La Sirenetta” è probabilmente il racconto più autobiografico scritto da Hans Christian Andersen, dove il tema della “diversità” è molto sentito. Dovete sapere che Andersen era omosessuale, e vivendo nella Danimarca del 1800, gli era completamente precluso di poter liberamente amare un altro uomo, cosa che lo rendeva particolarmente infelice.
● “La Sirenetta” è stata il film che a fine anni ’90 ha rilanciato la Disney che, dopo una serie di incredibili flop, era in grande crisi.
● Nel racconto originale di Andersen, nessuno dei personaggi ha un nome proprio, quelli usati nella nostra fiaba sono stati presi in “prestito” dalla versione realizzata dalla Disney, diventata ormai un classico dell’animazione.
● In Danimarca Andersen e il suo racconto “la Sirenetta” sono talmente famosi che all’ingresso del porto di Copenaghen, è stata realizzata una statua in onore della protagonista della fiaba
Una bella fiaba per aiutare i bimbi a mangiare le verdure
Chissà come mai i bambini non vogliono mangiare le verdure, eppure sono così colorate e si possono fare dei piatti deliziosi! Meno male che ci pensa Fata Ortolina a fargli cambiare idea.
Fata Ortolina 🧚♀️
Una fatina bionda e piccina si aggira tra i pranzetti dei bambini.
Indossa un grembiule a quadretti rossi e vola da un piatto all’altro per controllare lo stato della verdura: deve essere fresca come appena raccolta, profumata e colorata, ma quanta fatica farla mangiare ai bimbi!
Si lamentano di continuo per assaggiarne un bocconcino, sbuffano, non hanno più fame, non la vogliono!
Fata Ortolina è arrivata da un pianeta lontano, chiamato Ortus, ed è qui sulla Terra per aiutare mamme, papà, nonne, cuoche, a preparare e cucinare nel miglior modo gli ortaggi, oltre dispensare consigli utilissimi.
“Così va bene! Taglia a fettine quei pomodorini rossi e aggiungici sopra del formaggio grattugiato. Vedrai che Laura li mangerà!” – dice la fatina rivolgendosi ad una mamma.
Ecco nel piatto di Giorgia il trenino di piselli verdi fare da contorno a succulente polpettine di carne. Andrea guarda con timore il pasticcio di melanzane al forno.
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Il segreto delle fate delle nevi. Ediz. a colori
“Prova ad assaggiarlo. Con la pasta sfoglia e la mozzarella, sentirai che gusto prelibato ” – sorride la fata.
Nel mentre un’emergenza: Luca fa i capricci e si nasconde sotto la tavola, mentre la mamma urla perché il suo bimbo rifiuta di mangiare almeno un pezzettino di torta alle carote, preparata da lei con tanto amore. Arriva puntuale fata Ortolina, con il suo grembiulino a quadretti, cercando di salvare la situazione.
“Ciao Luca! Sono la fatina delle verdure. Non essere arrabbiato, prova ad assaggiare un pochino di torta… anzi, lo faccio prima io! Mmmhhh, squisita!!! E poi le carote fanno così bene, così dolci, colorate, deliziose!”
Luca guarda perplesso la fatina, così piccina e sospesa a mezz’aria, che batte le alette.
“Va bene, mi hai convinto. Adesso ne prendo un pezzettino “- esclama il fanciullo sedendosi a tavola.
Anche questa volta fata Ortolina è riuscita nella difficile missione “S.O.S. bimbo mangia verdura”.
⚜ Fine della fiaba ⚜
fabulinis ringrazia Rita Bimbatti, Pedagogista Clinico e autrice di racconti per l’infanzia, per aver condiviso con tutti noi questa storia, che parla di educazione e rispetto per la natura da coltivare fin dalla tenera età.
Meno male che ad aiutare gli adulti a tenere il mondo pulito ci pensano i bambini…
Il funghetto Cinello e i suoi amici vivono dentro un bel parco, ma a fine giornata lo ritrovano sempre tutto sporco… ma con l’aiuto dei bambini riusciranno a trovare una bella soluzione!
Le avventure di fungo Cinello 🍄
Cinello è un piccolo funghetto prataiolo che vive insieme alla sua famiglia in un enorme giardino. Ogni giorno si diverte a rincorrere i piccoli scoiattoli fulvi che saltano da un ramo all’altro di grandi alberi verdi. Quando piove si ripara sotto il suo cappellino bianco, aspettando che esca il sole per scaldarsi tra l’erba.
Tra qualche giorno, il giardino verrà aperto anche alle tante persone che vogliono rilassarsi e godere del meraviglioso paesaggio. Cinello è felice, finalmente potrà conoscere da vicino qualche bimbo e giocarci insieme. Nel frattempo, fa un girotondo con le margherite e le violette.
«Che bello, amiche! Tra non molto arriverà tanta gente a farci compagnia!» esclama Cinello. «Già, ma io non sono tranquilla, chissà come si comporteranno. La mamma mi ha raccontato certe storie tristi sul loro conto» dice una margherita.
«Anch’io sono tanto curiosa, vedremo!» urla una violetta.
Finalmente il grande momento: il bel giardino viene ufficialmente inaugurato e per l’occasione ci sarà una festa con bancarelle e tanti chioschi dove le persone potranno mangiare e dissetarsi. La giornata promette bene, il cielo è limpido e il sole splende.
«Ciao ragazzi, io sono Cinello!» dice il funghetto al passaggio di un’allegra famigliola con panini e bibite in mano, ma distratti dai colori di una bancarella di stoffe, per poco non calpestano il malcapitato.
«Salve, come va?» riprova Cinello rivolgendosi ad una signora dai capelli raccolti, intenta a divorare la sua ciambella con la crema. Per poco il fungo non rimane soffocato dal sacchettino della merendina che la donna ha gettato indisturbata a terra.
Alla fine della festa, al calar della sera, il parco viene chiuso.
Cinello e i suoi amici si guardano intorno: erba calpestata, fiori strappati dal suolo, rifiuti di ogni tipo sparsi ovunque, un vero disastro!
«Non posso crederci, in un solo pomeriggio hanno distrutto il nostro giardino!» si lamenta un piccolo stelo.
«Guardate che paesaggio, quanta immondizia abbandonata a terra e non dentro i cestini!» mormora una farfalla colorata.
«Ragazzi, non possiamo lasciare il parco in queste condizioni! Domani dobbiamo sistemare!» dice il piccolo fungo rivolgendosi ai compagni.
Il mattino seguente, Cinello, la sua famigliola, le margherite, le violette, gli amici scoiattoli, sono già al lavoro. Cominciano a sollevare le cartacce gettate a terra dai visitatori per riporle nei cestini. Arriva in aiuto anche qualche uccellino e gli insetti del giardino.
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L’atelier del riciclo
Nel mentre, passa un gruppo di alunni accompagnati dalle loro maestre. Un piccolo nota la scena, indicando il funghetto e i suoi compagni al lavoro.
«Guardate là!» urla.
Dopo un primo momento di stupore, tutti comprendono ciò che è successo nel giardino.
«Non possiamo lasciarli soli, anche noi dobbiamo contribuire alla salvaguardia dell’ambiente» dice un bambino con in testa un ciuffetto sbarazzino.
«Dobbiamo imparare a rispettare la natura!» esclama convinta una bimbetta con gli occhi azzurri.
In un attimo, le maestre e i bimbi sono all’interno del parco, ed insieme a Cinello, iniziano a ripulire il prato dalle tante cartacce. Vengono poi sistemati un paio di cartelli sui quali i piccoli hanno scritto: “SI PREGA DI TENERE PULITO E RISPETTARE L’ AMBIENTE”.
«Grazie amici, siete stati fantastici» esclama il funghetto.
Ora il giardino è finalmente in ordine. Cinello sorride, è felice.
Ah! Per fortuna gli adulti possono contare sull’aiuto dei bambini.
rettangolo piccolo alto
⚜ Fine della fiaba ⚜
fabulinis ringrazia Rita Bimbatti, Pedagogista Clinico e autrice di racconti per l’infanzia, per aver condiviso con tutti noi questa storia, che parla di educazione e rispetto per la natura da coltivare fin dalla tenera età.
Il piccolo principe non è un racconto, ma una poesia che sta chiusa dentro al cuore del bambino che è in ognuno di noi.
Antoine de Saint-Exupéry col piccolo principe ha scritto un capolavoro che tocca le emozioni più profonde che tutti noi portiamo dentro.
Il piccolo principe è un viaggio che apre gli occhi su temi come il senso della vita, il significato dell’amore e dell’amicizia, in modo semplice e puro, come solo i bambini sanno essere.
Abbiamo cercato di creare un riassunto del racconto cercando di interpretare al meglio lo spirito della storia, siamo sicuri che vi piacerà!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del piccolo principe!
Quando avevo sei anni una volta vidi una bella immagine in un libro sulla jungla intitolato “Storie vissute”. Raffigurava un serpente boa che ingoiava un animale.
Ho pensato molto alle avventure della jungla e, a mia volta, sono riuscito con una matita colorata a fare il mio primo disegno e mostravo il mio capolavoro ai grandi.
Ma loro, invece di un serpente boa che digeriva un elefante, vedevano qualcosa di simile a un cappello da uomo.
Poi ho disegnato l’interno del serpente boa, in modo che gli adulti potessero capirlo, ma loro mi consigliavano di lasciar stare i disegni di serpenti boa e di concentrarmi invece su geografia, storia, aritmetica e grammatica.
È così che ho rinunciato, all’età di sei anni, a una magnifica carriera nella pittura.
Ero stato scoraggiato dal fallimento del mio primo e secondo disegno.
I grandi non capiscono mai niente da soli, e per i bambini è stancante dare sempre spiegazioni.
Così ho imparato a pilotare gli aerei. Ho volato in tutto il mondo. E la geografia, è vero, mi è stata molto utile.
Ho conosciuto molte persone nella mia vita. Ho vissuto molto con gli adulti, li ho visti molto da vicino, e non ho per niente migliorato la mia opinione.
Così ho vissuto da solo, senza nessuno con cui parlare veramente, fino a quando ebbi un incidente nel deserto del Sahara, sei anni fa. Qualcosa si era rotto nel motore del mio aereo e, poiché ero solo nel deserto, provai a ripararlo. Era questione di vita o di morte, perché avevo a malapena acqua da bere per circa una settimana.
La prima sera mi addormentai sulla sabbia, a mille miglia da qualsiasi terra abitata, e quindi potete immaginare la mia sorpresa quando, all’alba, una vocina buffa mi ha svegliato dicendo:
– Per favore… mi disegni una pecora? – Eh!? – Disegnami una pecora…
Balzai in piedi come se fossi stato colpito da un fulmine, mi strofinai gli occhi, guardai bene e vidi un ometto piuttosto strano che mi guardava con aria seria.
Lo guardavo con gli occhi sbarrati per lo stupore: quel piccoletto sembrava un bambino, e non mi sembrava né perso, né morto di fatica, di fame, di sete o di paura. Non assomigliava per niente a un bambino perso in mezzo al deserto.
Quando finalmente riuscii a parlare, gli chiesi:
– Ma che ci fai qui?
Ma lui ignorando la mia domanda, mi ripetè molto seriamente:
– Ti prego… disegnami una pecora…
Non osai disobbedire, premettendo però che non sapevo disegnare. Ma a lui non importava, voleva solo che disegnassi una pecora.
Quando finii, lui la guardò attentamente e disse che non voleva una pecora malata.
In effetti il disegno non era il massimo, così ne feci un’altro, ma mi rispose sorridendo che quella non era una pecora ma un montone perché aveva le corna.
Feci un altro disegno, rifiutato anch’esso perché la pecora era troppo vecchia.
Iniziai però a perdere la pazienza, volevo riparare il motore del mio aereo, e quindi scarabocchiai al volo una scatola con dei buchi:
– Questa è una cassetta, la tua pecora è lì dentro.
Rimasi piuttosto sorpreso nel vedere il suo viso illuminarsi:
– È esattamente come la volevo! Pensi che questa pecora abbia bisogno di molta erba? – Perché? – chiesi io. – Perché dove vivo io è tutto molto piccolo… – Basta sicuramente, ti ho dato una piccola pecorella.
E fu così che conobbi il piccolo principe.
Mi ci è voluto molto tempo per capire da dove venisse.
Il piccolo principe mi fece molte domande, e sembrava non sentire per nulla le mie.
Quando vide il mio aereo mi chiese:
– Cos’è quella cosa? – Quella cosa vola. È un aeroplano. È il mio aereo.
Ero orgoglioso di fargli sapere che volavo, poi esclamò:
– Ma sei caduto dal cielo!? – Sì – risposi modestamente. – Ah! È divertente… – e scoppiò in una grossa risata che mi irritò molto, poi aggiunse:
– Allora anche tu vieni dal cielo! Da che pianeta vieni? Intravidi una luce nel mistero della sua presenza, e chiesi bruscamente: – Quindi tu vieni da un altro pianeta?
Non mi rispose. Scosse dolcemente la testa guardando il mio aereo e sprofondò in una lunga meditazione. Poi, tirò fuori dalla tasca i disegni delle mie pecore, e contemplò il suo tesoro.
Cercai di saperne di più: – Da dove vieni, ometto mio? Dov’è casa tua? Dove vuoi portare le mie pecore?
Mi rispose dopo un silenzio meditativo: – La scatola che mi hai dato, di notte, farà da casa alla pecora. – Certo, se vuoi disegno anche una corda per legarla durante la giornata.
La proposta sembrò stupire il piccolo principe: – Legarla? Che idea divertente! – Ma se non la leghi, andrà ovunque, e si perderà…
E il mio amico scoppiò di nuovo a ridere: – Dove vuoi che vada!? – Ovunque riuscirà a camminare…
Allora il piccolo principe osservò seriamente: – Non importa, da me è tutto molto piccolo! – e, con un po’ di malinconia, aggiunse: – Non si può andare molto lontano…
Avevo così capito una seconda cosa molto importante: il suo pianeta d’origine era appena più grande di una casa!
Ho seri motivi per credere che il pianeta da cui proveniva il piccolo principe fosse l’asteroide B 612.
Questo asteroide fu visto una sola volta attraverso un telescopio, nel 1909, da un astronomo turco.
Fece una grande dimostrazione della sua scoperta in un Congresso Astronomico Internazionale, ma nessuno gli credette per via del suo abbigliamento alla turca, bizzarro per gli occidentali.
Gli adulti sono così.
L’astronomo ripeté la sua dimostrazione nel 1920, vestito con un abito occidentale molto elegante. E questa volta tutti gli credettero.
Agli adulti piacciono i numeri.
Non ti chiedono mai l’essenziale, non ti chiedono mai “Come suona la tua voce?”, oppure “Quali sono i giochi che ti piacciono di più?” o anche “Collezioni farfalle?”…
No, ti chiedono “Quanti anni hai?”, “Quanti fratelli hai?”, “Quanto pesi?”… Solo così pensano di conoscerti.
Se ai grandi dici: “Ho visto una bella casa di mattoni rosa, con i gerani alle finestre e le colombe sul tetto…” non possono immaginare questa casa. Devi dire loro: “Ho visto una casa che vale centomila euro”. Solo allora esclamano: “Che bella!”
Quindi, se dici loro: “La prova che il piccolo principe è esistito è, che era adorabile e che voleva una pecora, e quando vuoi una pecora è la prova che esisti”, ti guarderanno alzando le spalle e ti chiameranno “bambino”!
Ma se dici loro: “Il pianeta da cui è venuto è l’asteroide B 612”, allora saranno convinti e ti lasceranno in pace con le loro domande.
Sono fatti così. Non devi arrabbiarti. I bambini devono essere molto indulgenti con gli adulti.
La versione del piccolo principe che avete appena letto non è una rielaborazione di una fiaba o racconto classico come di solito facciamo, ma una vera e propria traduzione/riduzione dall’originale francese.
Il piccolo principe in realtà e un’unica lunga, magnifica e immensa poesia, che se fosse stata riassunta in forma di racconto avrebbe perso tutto il significato e la magia che contiene.
Non si può arrivare alla frase “l’essenziale è invisibile agli occhi” senza aver raccontato e descritto tutti i passaggi che sono serviti al piccolo principe per arrivare fin lì…
Il piccolo principe è un’opera abbastanza inscindibile dai dolci acquarelli dello stesso Saint-Exupery, molte parti del racconto originale fanno direttamente riferimento ai disegni che bisogna guardare e “inserire” all’interno della storia. Non potendo inserirli su fabulinis, è qui che abbiamo deciso di rimaneggiare più “pesantemente” il piccolo principe, descrivendo dove possibile i disegni in modo che entrassero a far parte del racconto, facendo in modo di poterli immaginare anche senza poterli vedere.
Speriamo che questo adattamento vi sia piaciuto!
😊
🖌 scarica il disegno da colorare del piccolo principe! 🎨
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Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?
Biancaneve e i sette nani è una delle fiabe più famose e amate dai bambini, ed è anche tra le fiabe più famose raccolte e scritte dai fratelli Grimm
La fiaba di Biancaneve è talmente bella che Walt Disney decise di realizzare suo primo lungometraggio animato basandosi proprio su questa storia, regalandoci uno dei suoi classici senza tempo.
Biancaneve e i sette nani è importante anche per il suo profondo significato, che parla dell’invidia umana, dell’ossessione per la bellezza da parte della matrigna/strega Grimilde e del rapporto di mutuo aiuto tra i sette nani e Biancaneve stessa.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Biancaneve e i sette nani!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare Biancaneve e i sette nani raccontata da Silvia!
Biancaneve e i sette nani 🍎 racconto completo
C’era una volta Biancaneve, una principessa che viveva con suo padre il Re e una matrigna tanto bella quanto cattiva. Grimilde, la matrigna di Biancaneve, era riuscita a sposare il Re perché era in realtà una strega, e gli aveva fatto un sortilegio.
Da quel giorno, alla corte del castello tutto era diventato più triste. Grimilde pretendeva di essere servita e riverita in ogni cosa, e aveva fatto in modo che Biancaneve fosse considerata poco più di una serva qualunque. Ma Biancaneve sopportava anche le peggiori scortesie perché, per tornare felice, le bastava ricordare la sua cara mamma che ora non c’era più.
Grimilde, poi, aveva uno specchio magico, che poteva rispondere a tutte le sua domande, ma lei ne faceva una sola soltanto: – Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? – chiedeva ogni mattina appena sveglia. E lo specchio, che era uno specchio magico serio, le rispondeva la verità. – Mia signora, voi siete la più bella di tutte. E Grimilde sorrideva maligna…
Ma Biancaneve diventava ogni giorno più bella e Grimilde era invidiosa, per questo le faceva fare i lavori più umili, sperando che così rimanesse meno bella di lei. Finché un giorno, dopo la solita domanda di Grimilde, lo specchio rispose: – Mia signora, è Biancaneve la più bella del reame… Grimilde iniziò a gridare infuriata e per poco non ruppe lo specchio dall’ira. Quella notte non chiuse occhio, e pensò ad un piano per far sparire Biancaneve, così da rimanere la più bella del reame.
Al mattino chiamò il cacciatore, suo servitore, e gli ordinò di portare Biancaneve nel bosco e riportarle il suo cuore, come prova per averla uccisa. Il povero cacciatore a malincuore obbedì.
– Dove mi portate signor cacciatore? – chiedeva Biancaneve, ma il cacciatore rimaneva zitto e con lo sguardo basso. Quando furono finalmente nel bosco profondo, si fermarono. Il cacciatore avrebbe dovuto prendere il fucile, ma voleva troppo bene a Biancaneve per poterle fare del male. – Cosa succede signor cacciatore? – chiese Biancaneve? – Grimilde vuole essere la più bella del reame, e quindi mi ha dato l’ordine di portarti qui nel bosco e…
Ma il cacciatore non riuscì a finire la frase. Pensò che bastava lasciare la ragazza da sola lì nel bosco, al resto ci avrebbero pensato i lupi. Salutò Biancaneve con un cenno della mano, e con le lacrime agli occhi scappò via.
Biancaneve, che ancora non aveva ben compreso cosa fosse successo e perché fosse stata portata lì, iniziò a guardarsi attorno impaurita, non era mai stata da sola nel profondo bosco. Iniziò a correre a destra e sinistra, senza riuscire a ritrovare il sentiero che portava al castello, finché non si imbatté un una piccola casetta.
Impaurita e stanca bussò alla porta, ma nessuno aprì. Scostò lentamente la porta chiedendo il permesso, ma nessuno rispose. Si ritrovò dentro ad una minuscola cucina, con un piccolo tavolo e sette piccole sedie tutt’intorno. Sulla tavola c’erano del pane e dell’acqua. Biancaneve ne prese un pochino per placare la fame e la sete, e poi si mise a curiosare per la casetta.
Si ritrovò in una stanza da letto con sette piccoli lettini. Era veramente meravigliata e si sedette su uno di questi, ma per la stanchezza si appisolò.
A svegliarla ci pensò un gran fracasso proveniente dalla cucina. Era già sera e dall’altra stanza arrivavano voci di uomini che si chiedevano chi mai fosse entrato nella loro casa. Così Biancaneve corse in cucina. – E tu chi sei?! – Esclamarono i sette piccoli ometti quando la videro arrivare. – Io sono Biancaneve, dovete scusarmi per essere entrata in casa vostra senza permesso ma… – e Biancaneve raccontò loro tutta la sua triste storia.
Quando ebbe finito, i sette nani si guardarono e sentenziarono all’unanimità: – Non preoccuparti Biancaneve, rimani pure a casa nostra, sei la benvenuta. Ti offriremo riparo e protezione dalla matrigna cattiva. – Vi ringrazio miei cari ometti – disse Biancaneve – mi saprò sdebitare, non dubitate! – e prese subito a preparare la cena e sistemare casa. I sette nani, che si chiamavano Brontolo, Cucciolo, Dotto, Eolo, Gongolo, Mammolo e Pisolo, non potevano essere più felici.
Il giorno dopo Grimilde si alzò tutta felice pensando di essersi liberata di Biancaneve, e chiese al suo specchio: – Specchio specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame? Ma lo specchio rispose: – Mia signora, è Biancaneve la più bella del reame, e ora vive nel bosco insieme a sette piccoli nani.
– Non è possibile! – gridò Grimilde – l’ho fatta portare nel bosco dal cacciatore, guarda, questo è il suo cuore! – e mostrò un cofanetto di legno. – Quello nel cofanetto, è il cuore di un capretto! – le rispose lo specchio. Grimilde gridò furiosa contro lo specchio ed il cacciatore infedele, e decise che avrebbe risolto lei personalmente la questione. Corse nelle segrete del castello dove nascondeva il suo laboratorio di pozioni magiche e iniziò a fare stregonerie.
Biancaneve intanto era tutta felice che i sette nani la avessero accolta come una sorella. Mentre loro di giorno andavano a lavorare nella vicina miniera, lei preparava il pranzo, rassettava la casa e lavava i panni. E la sera si divertivano un sacco a raccontarsi storie e filastrocche.
Ma un giorno alla porta della casetta bussò una vecchia signora dai capelli bianchi e vestita di cenci. – Buongiorno vecchina, cosa posso fare per lei? – Buongiorno mia cara fanciulla, sono una povera vecchia che vende mele, ne vuoi una? – disse la vecchia. – Le vostre mele rosse sono bellissime, ma io non ho soldi per pagarvi… – rispose Biancaneve.
La vecchia sorrise e le disse: – Siete così bella mia giovane fanciulla che ve ne regalo una, tenete, mangiatela pure. Biancaneve prese la mela e la portò alla bocca… Ma non appena ne morse un pezzettino, Biancaneve cadde svenuta a terra!
La vecchia allora si mise a ridere, ridere e ridere, e poco dopo in un “puff” si tramutò in Grimilde che si era camuffata da vecchia e aveva avvelenato la mela. Così, mentre Grimilde spariva nel bosco, Biancaneve giaceva a terra come morta. La sera i sette nani tornarono a casa, e vedendola così si disperarono e piansero tutta la notte.
Il giorno dopo, non ebbero il coraggio di seppellirla tanto era ancora bella, e prepararono per lei una bara di cristallo che sistemarono in una piccola radura. Piangendo la lasciarono lì in compagnia di scoiattoli e uccellini. Verso sera passò di lì il principe del reame vicino, Florian, che tornava a casa dalla battuta di caccia. Incuriosito da quella teca di cristallo con dentro una ragazza si avvicinò, e quando vide la bellezza di Biancaneve se ne innamorò subito.
Lui non sapeva che Biancaneve era stata avvelenata da Grimilde e pensava stesse solo riposando di un sonno profondo. Così la prese tra le braccia. Ma proprio in quel momento il piccolo pezzo di mela avvelenata che Biancaneve aveva ancora in bocca, cadde a terra. Il principe Florian la baciò, e Biancaneve che non aveva più il veleno in bocca poco a poco rinvenne e si risvegliò. Anche Florian era un bel giovane e Biancaneve fu felice di ritrovarsi fra le sue braccia.
Le dimensioni e la forza contano, ma a volte un prezioso aiuto può arrivare anche da un piccolo topino
La favola di Esopo de Il leone e il topo ha qualcosa da insegnare a tutti noi.
Mostra come in certe situazioni anche chi è piccolo (il topolino) può essere di grande aiuto, e come chi è grande e forte (il leone) viene ricompensato se rinuncia a fare il prepotente.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del leone e il topo!
C’era una volta, nella grande foresta, un maestoso leone, che si riposava all’ombra di un grande albero. Stava controllando se in lontananza c’erano delle prede da poter cacciare, ma in quel momento non vedeva niente di interessante. Così il pomeriggio passava lento. All’orizzonte non c’era nessuna preda da poter prendere e la pancia iniziava a brontolare dalla fame.
– Forse è meglio se mi sposto da qui e vado a cacciare in un’altra zona – si disse, abbastanza infastidito al pensiero di doversi alzare. Ma proprio quando ormai aveva deciso di alzarsi ed andare via, ecco un piccolo topolino corrergli proprio davanti alle zampe.
Il leone colse al balzo l’occasione e, con uno scatto felino, bloccò la coda del topino con la zampa. Il topino, che sperava di non essere visto, iniziò ad urlare disperato quando sentì di essere bloccato. Il leone già pregustava il piccolo bocconcino come antipasto e si stava leccando i baffi.
Ma il topino, con le lacrime agli occhi iniziò a supplicarlo. – Non mi mangiare, signor leone, ti prego non mi mangiare! Il leone sorrise e iniziò a tirare con la zampa il topino verso di sé. – Non mi mangiare, signor leone – continuò il topino – non ti sazierei che per pochi minuti da tanto sono piccolo.
Il leone pensò che questo era vero: quel topolino gli avrebbe placato la fame giusto per il tempo di alzarsi da lì. – E poi le mie piccole ossicine rischierebbero di andarti di traverso in gola. Anche questo era vero, pensò il leone, che smise di trascinare verso di sé il topolino. – Se mi lascerai andare ti sarò riconoscente per tutta la vita! – disse infine il topo. Il leone, mosso più dalla fatica di ingoiare quel piccolo pasto che dalla pietà per il topolino, lo lasciò andare.
– Vai topolino, forse un giorno ci rivedremo… Il topolino ringraziò solennemente con grandi inchini e bacia-zampe, e poi scomparve tra le sterpaglie della foresta.
Il leone si decise infine ad andare in cerca di altre prede. Si incamminò dentro la foresta, ma dopo essere avanzato un po’ ecco che all’improvviso un legaccio fatto di corda lo intrappolò. Il leone capì subito che quella era la trappola costruita da qualche cacciatore, e sapeva benissimo che da quel tipo di trappole non c’era scampo.
Il leone tirò con tutte le forze per cercare di liberarsi, ma più tirava, più il legaccio gli si stringeva alle zampe e gli faceva male. Dopo molti tentativi il leone si rassegnò, e si mise ad attendere il proprio destino. Ma ad un tratto sentì qualcosa che stava lavorando sulla corda. Guardò meglio e si accorse che il topolino di prima stava cercando di tagliare il legaccio con i suoi denti aguzzi.
– Non preoccuparti, signor leone, tra poco sarai di nuovo libero. Il leone fu sorpreso dal gesto del topolino. Non si sarebbe mai aspettato che un animaletto così piccolo avrebbe potuto salvargli la vita. – Topolino mio, io ti ho risparmiato la vita, e ora tu salvi la mia, questo ti fa grande onore! Il topolino intanto lavorava veloce, e in pochi attimi il leone fu libero.
– Signor leone, quando si dà la parola d’onore, la si mantiene! – Certo topolino mio e io ti ringrazio moltissimo per avermi liberato da questa trappola terribile. Ora siamo pari, e per tutta la vita anche io ti sarò riconoscente.
I due si salutarono, e andarono ognuno per la propria strada. Ma il leone aveva imparato una lezione importantissima: bisogna essere gentili con tutti, anche con il più piccolo degli esseri viventi, perché l’aiuto più importante della vita potrebbe arrivare proprio da lì.
Morale: anche i più piccoli possono essere di grande aiuto, e chi è grande e forte non deve fare il prepotente.
“Il Mago di Oz” vi porterà in terre lontane abitate da strani personaggi, tutti in cerca di qualcosa che in realtà già hanno, ma non sono ancora riusciti a trovare dentro di sè.
è una delle più straordinarie favole moderne, capace di incantare ancora oggi, raccontando di un paese lontano e magico, dove persone, streghe e maghi, convivono per meravigliare e divertire i bambini che leggeranno le fantastiche avventure di Dorothy, lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta, il Leone Codardo e il cagnolino Toto.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del Mago di Oz!
Dorothy viveva in una fattoria nelle grandi praterie del kansas col suo cane Toto, lo zio Henry e la zia Em. La casa era piccola, formata da un’unica stanza che faceva da cucina, soggiorno e camera da letto. Non c’erano né soffitte né cantine, e l’unico posto dove potevano rifugiarsi in caso dell’arrivo di un tornado, era una buca stretta e buia fatta nel terreno a cui si accedeva tramite una botola nel pavimento della casa.
Quando Dorothy guardava fuori casa, poteva vedere solo la sterminata e piatta prateria fatta di terra e sterpaglie, non c’era un solo albero e anche l’erba non era verde, ma di colore quasi grigiastro. Non c’era nulla di gioioso in quel posto. Solo Toto, il suo cagnolino, riusciva a portare un po’ di sorriso in quel posto grazie alle sue feste e i suoi salti.
Quel giorno zio Henry era seduto fuori dalla porta e guardava preoccupato il cielo più grigio del solito, Dorothy era lì vicino a lui con Toto in braccio. Poco dopo il vento iniziò ad alzarsi e in un attimo l’aria diventò gelida.
– Em! C’è un tornado in arrivo! – gridò zio Henry – vado a sistemare le bestie. E così corse al capanno dove c’erano le mucche e i cavalli. Zia Em corse fuori casa a vedere.
– Svelta Dorothy, scendi nel rifugio! – gridò alla bambina, ma proprio in quel momento Toto le scappò dalle braccia e si nascose sotto il letto, Dorothy gli corse dietro mentre zia Em corse alla botola sul pavimento, la aprì e vi si calò dentro.
Finalmente Dorothy acchiappò Toto e fece per scendere nel rifugio, ma la casa colpita dalle raffiche di vento iniziò a tremare, Dorothy perse l’equilibrio e si ritrovò seduta sul pavimento. A quel punto accadde qualcosa di straordinario.
La casa iniziò a girare su sé stessa e poi si alzò lentamente in aria, quasi fosse una mongolfiera. I venti del nord e del sud si erano incontrati proprio sopra casa sua, creando quello che si chiama l’occhio del ciclone.
La casa continuava fluttuare dolcemente nell’aria, Toto abbaiava e correva per la stanza e quasi cadde giù per quello che era il buco della botola del rifugio, ma Dorothy lo afferrò per un orecchio e lo riportò vicino a sé.
Il tempo passava, la casa continuava a fluttuare dolce al centro del tornado, e lo spavento iniziale piano piano iniziò a passare. Alla fine, stanca e cullata dal dondolio della casa, la bambina si trascinò fino al suo lettino e si addormentò con Toto accanto.
Dorothy fu svegliata da un colpo improvviso, si mise a sedere sul lettino e si accorse che la casa non si muoveva più. Saltò giù dal letto e corse fuori.
La casa era stata depositata con delicatezza dal tornado in mezzo a una campagna con fiori, prati e alberi verdi, come non aveva mai visto.
Mentre contemplava quella meraviglia di paesaggio, si accorse che un gruppetto di persone vestite in modo alquanto bizzarro, le stava venendo incontro.
Erano tre uomini e una donna di bassa statura, alti quasi come lei, vestiti con cappelli a cono da cui pendevano dei campanellini che tintinnavano ad ogni passo. Gli uomini erano vestiti tutti di blu, mentre la donna di un bianco candido. Tutti e quattro parlavano tra di loro sottovoce.
L’anziana donna infine le si avvicinò facendo un inchino, e con voce dolce ed emozionata disse: – Benvenuta o nobile maga nel paese dei Munchkin, ti siamo infinitamente grati per aver ucciso la Strega Cattiva dell’Est e aver liberato questo popolo dalla schiavitù.
Dorothy ascoltava senza capire e le rispose: – La ringrazio gentile signora, ma dev’esserci un errore, io non ho ucciso nessuno! – Ma la tua casa si! – rispose la donna indicando una parte dell’abitazione da cui sbucavano fuori dei piedi calzati da scarpette d’argento.
Dorothy sobbalzò spaventata – Povera me! La casa deve esserle caduta addosso… ma io non ne ho colpa è stato il tornado… – Non devi preoccuparti, anzi! Te l’ho detto era la Strega Cattiva dell’Est, e tu ci hai fatto un grosso favore liberandoci dalla sua schiavitù!
Dorothy era ancora molto confusa, ma l’anziana signora continuò. – Io sono la Strega del Nord, ma sono buona e benvoluta dai Munchkin. Purtroppo non sono mai stata potente come la Strega dell’Est e non sono mai riuscita ad aiutarli con i miei poteri…
Dorothy rimase sorpresa. – Ma io ho sempre creduto che tutte le streghe fossero cattive! – le disse. – Oh no! In tutto il paese di Oz solo le streghe dell’Est e dell’Ovest sono cattive, io del Nord e la Strega del Sud siamo buone! Adesso grazie a te rimane una sola strega cattiva! – Rispose felice la Strega del Nord.
Dorothy rimase un attimo in silenzio, poi uno dei tre Munchkin gridò indicando là dove spuntavano le gambe della Strega Cattiva dell’Ovest: la strega si era dissolta in una nuvola di fumo ed erano rimaste solo le sue scarpette d’argento!
La Strega del Nord si accovacciò a prendere le scarpette e le pose gentilmente in mano a Dorothy. – Ora queste scarpette sono tue. – le disse.
Dorothy guardò meravigliata le scarpette e subito le indossò, poi aggiunse quasi sottovoce: – Devo tornare a casa da zia Em e zio Henry… – E dove si trova casa tua? – Nel Kansas…
La Strega del Nord la guardò dispiaciuta piena di tenerezza. – Non ho idea di dove si trovi il Kansas… non so come aiutarti… Dorothy stava per scoppiare a piangere, poi la Strega del Nord aggiunse: – Ma forse il potente Mago di Oz saprà farti tornare a casa! Devi solo andare alla città di Smeraldo, là potrai chiedergli udienza, sono certa che lui saprà aiutarti a ritrovare la strada di casa.
Sul viso di Dorothy si dipinse un sorriso. – E come faccio ad arrivare alla città di Smeraldo?! – Devi solo seguire il sentiero di mattoni dorati che inizia proprio dietro quella collinetta. – Potete accompagnarmi? – chiese speranzosa Dorothy. – Oh no, purtroppo no, non possiamo venire con te, però posso darti il mio bacio, nessuno oserà mai fare del male a chi ha ricevuto il bacio della Strega del Nord – e così prese la sua testa fra le mani e la baciò sulla fronte.
I tre Munchkin e la strega fecero un profondo inchino salutandola, Dorothy prese in braccio Toto e si incamminò verso il sentiero di mattoni dorati con ai piedi le magiche scarpette argentate della Strega dell’Est.
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Curiosità sul Mago di Oz
● “Il Mago di Oz” fu solo il primo di una lunga serie di episodi (in tutto 13) che Baum scrisse sul paese incantato di Oz.
● Il libro è stato tradotto in oltre 50 lingue nel mondo.
● Del racconto fu realizzato nel 1939 uno dei film più amato di tutti i tempi: “The Wizard of Oz” interpretato da Judy Garland che è anche la cantante della famosissima canzone della colonna sonora “Over the Rainbow”. Se non la conoscete e volete ascoltare uno dei brani più belli della storia della musica seguite questo link su youtube.
● Nel film le scarpette di Dorothy non sono d’argento ma rosse, il cambiamento fu fatto per farle spiccare meglio sul grande schermo (Il Mago di Oz fu uno dei primi grandi film realizzato a colori)
● Sempre nel film il finale è stato cambiato: Dorothy alla fine si sveglia, il mondo di Oz era solo stato un lungo magnifico sogno…
Ariel la sirenetta, per realizzare il proprio sogno è disposta a rischiare il tutto per tutto…
La Sirenetta è la fiaba del “cambiamento” per raggiungere i propri desideri, una sorta di crescita interiore, dove bisogna prima perdere qualcosa di molto importante prima di a provare ad inseguire i propri sogni.
E’ forse la fiaba più conosciuta scritta da Hans Christian Andersen, e in essa sono contenute tutte le emozioni che il grande scrittore ha saputo regalarci con i suoi racconti.
⚠️ ATTENZIONE! Questa è la versione rielaborata da fabulinis, NON c’entra quasi nulla col famoso film della Disney, ma ricalca abbastanza fedelmente la versione originale di Andersen, discostandosene solo per il finale.
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della Sirenetta!
C’era una volta, in fondo al mare, un regno magico governato dal Re del Mare.
Il Re del Mare era rimasto vedovo, e a curare le sue sei figlie sirene c’era l’anziana nonna, che non faceva mancare loro nulla e le riempiva di amore e attenzioni.
La più piccola delle principesse sirene, Ariel, era anche la più bella di tutte e, oltre alla bellezza, aveva ricevuto in dono anche una voce capace di incantare chiunque la ascoltasse.
Ariel e le sue sorelle giocavano tutto il giorno sul fondo del mare e nei giardini del Castello, pieni di fiori e piante acquatiche, mentre la sera amavano ascoltare le storie degli uomini che vivevano in superficie e solcavano i mari, raccontate dalla loro cara nonna.
Ad Ariel queste storie piacevano molto, e la facevano sognare ad occhi aperti, immaginandosi avventure incredibili ed emozionanti. Così non smetteva mai di chiedere sempre maggiori particolari all’anziana nonna, che alla fine ripeteva sempre a lei e le sue sorelle: – Alla vostra maggiore età, potrete nuotare fino alla superficie, e vedere con i vostri occhi il mondo degli esseri umani. Ariel non vedeva l’ora, ma era la più piccolina tra le sorelle e avrebbe dovuto aspettare a lungo…
Finalmente la più grande delle sorelle giunse alla maggiore età, e con enorme emozione intraprese il suo viaggio verso la superficie. Quando tornò aveva mille cose da raccontare, ma la cosa più bella di tutte era l’esser stata sdraiata al chiaro di luna su una spiaggetta riparata, guardando in lontananza la città piena di luci e rumori degli uomini.
Ariel l’ascoltava rapita, e ne avrebbe voluto sapere sempre di più, ma per ora doveva accontentarsi della sua immaginazione… L’anno successivo fu il turno della seconda sorella, che al ritorno dal suo viaggio in superficie raccontò del tramonto infuocato e del cielo color oro che le aveva incantato gli occhi.
E poi toccò alla terza sorella, che più coraggiosa di tutte volle risalire il fiume per vedere palazzi, castelli, campi coltivati e vigneti immersi in uno splendido bosco dove cantavano gli uccellini.
La quarta sorella invece non era tanto coraggiosa, e quando toccò a lei risalire in superficie, era rimasta in alto mare a vedere le navi che passavano lontane e a giocare insieme ai delfini.
E l’anno dopo ancora toccò alla quinta sorella, era inverno e quando arrivò in superficie incontrò dei grandi blocchi di ghiaccio, grandi come isole, su cui si poteva passare il tempo ad ammirare i maestosi cieli grigio azzurri invernali.
Mancava solo Ariel, che la sera guardava con un velo di tristezza le sorelle prendersi per mano e nuotare lentamente verso la superficie.
Finalmente arrivò il grande momento anche per Ariel e il giorno della sua maggiore età abbracciò forte le sue sorelle, la nonna e il padre prima di nuotare leggiadra verso la superficie.
Quando uscì dall’acqua il sole stava tramontando e in lontananza c’era una grande nave piena di marinai che andavano e venivano. Decise di andare a guardare più da vicino.
Sul ponte della nave i marinai vociavano e cantavano, mentre attraverso i finestrini della nave si vedevano molte persone vestite elegantemente. Si stavano tutti preparando alla grande festa per il compleanno del Principe che si sarebbe tenuta quella sera stessa.
Non appena fu buio iniziarono i balli e poi, finalmente, il Principe uscì sul ponte. In quel momento furono sparati dei razzi che fecero mille fuochi colorati nel cielo. Ariel non aveva mai visto una cosa simile.
Com’era bello il giovane Principe! Stringeva la mano di tutti i suoi amici, e sorrideva mentre la musica suonava nella notte incantevole. Ariel lo guardava mentre il suo cuore batteva sempre più forte.
Ad un tratto però il vento iniziò a soffiare forte, nere nubi cariche di lampi e fulmini si stavano avvicinando velocemente. Tra non molto sarebbe arrivata una tempesta.
I marinai ammainarono in fretta le vele mentre il mare si ingrossava e le onde si facevano sempre più alte e forti. La nave gemeva e scricchiolava. L’albero maestro si spezzò sotto il forte vento e la nave iniziò velocemente ad imbarcare acqua; in pochi minuti era praticamente già affondata.
Ariel capì che tutto l’equipaggio era in pericolo, anche il giovane Principe! Iniziò a nuotare cercando di evitare i pericolosi rottami che avrebbero potuto ferirla. Si tuffava giù sotto l’acqua, poi ricompariva in superficie guardandosi velocemente intorno, e poi ancora giù finché non trovò il suo Principe.
Lo prese che era già svenuto e lo portò il più rapidamente possibile fino a riva, dove lo depose sulla sabbia in attesa che rinvenisse e passasse la tempesta. Mentre Ariel lo vegliava e gli carezzava la testa arrivò prima l’alba e poi il giorno.
Non molto distante dalla spiaggia c’era una costruzione che ad Ariel sembrò un luogo di culto, da lì stava pian piano arrivando camminando in silenzio una ragazza col volto coperto da un cappuccio. Ariel che era una sirena, non poteva farsi vedere da lei e, a malincuore, dovette abbandonare il suo Principe.
Gli diede un bacio sulla fronte prima di tuffarsi nell’acqua del mare e nascondersi dietro ad uno scoglio per osservare cosa sarebbe accaduto.
Non appena la ragazza vide il Principe svenuto a terra, gridò e corse in suo soccorso, gli sollevò la testa tra le braccia e lo scosse leggermente. Poco dopo il Principe si risvegliò, Ariel notò che dopo un attimo di smarrimento, sul suo volto si dipinse un sorriso e probabilmente stava ringraziando profondamente la ragazza col cappuccio per averlo salvato da morte certa.
Se solo il Principe avesse saputo chi davvero era stata a salvarlo!
Ariel guardò tra le lacrime il suo Principe allontanarsi camminando aiutato dalla ragazza col cappuccio, e solo quando furono ormai troppo lontani dalla sua vista si rituffò nel mare, dove le sue lacrime non si sarebbero più potute vedere…
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Curiosità sulla Sirenetta
● “La Sirenetta” è probabilmente il racconto più autobiografico scritto da Hans Christian Andersen, dove il tema della “diversità” è molto sentito. Dovete sapere che Andersen era omosessuale, e vivendo nella Danimarca del 1800, gli era completamente precluso di poter liberamente amare un altro uomo, cosa che lo rendeva particolarmente infelice.
● “La Sirenetta” è stata il film che a fine anni ’90 ha rilanciato la Disney che, dopo una serie di incredibili flop, era in grande crisi.
● Nel racconto originale di Andersen, nessuno dei personaggi ha un nome proprio, quelli usati nella nostra fiaba sono stati presi in “prestito” dalla versione realizzata dalla Disney, diventata ormai un classico dell’animazione.
● In Danimarca Andersen e il suo racconto “la Sirenetta” sono talmente famosi che all’ingresso del porto di Copenaghen, è stata realizzata una statua in onore della protagonista della fiaba
Il lupo vuole mangiare i sette capretti ed escogiterà un furbo piano pur di riuscirci.
Il lupo e i sette capretti è una famosa fiaba dei fratelli Grimm che racconta come l’ingordo lupo si vuol mangiare tutti i caprettini.
Ma il lupo non ha fatto i conti con la mamma capra, che saprà come riprendersi i suoi piccoli e far passare una brutta avventura al lupo!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del lupo e i sette capretti!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare il lupo e i sette capretti raccontata da William!
Il lupo e i sette capretti 🐺🐐
C’era una volta mamma capra con i suoi sette caprettini, a cui voleva tanto bene.
Un giorno disse ai caprettini che sarebbe andata al mercato a far compere e aggiunse di stare molto attenti al lupo, di non farlo entrare in casa per nessun motivo, che sennò li avrebbe mangiati in un sol boccone.
I capretti risposero che avrebbero fatto molta attenzione, la mamma uscì quindi di casa e i capretti chiusero la porta col chiavistello.
Come aveva previsto la mamma, di lì a poco si sentì qualcuno bussare forte. Era il lupo cattivo che gridava con voce roca:
– Apritemi la porta cari figli miei, sono la vostra mammina!
I capretti, però, capirono subito dalla voce che quella non era la loro mamma e risposero prontamente:
– Non ti apriremo la porta! Tu non sei la mamma, sei il lupo cattivo!
Il lupo cattivo capì che doveva presentarsi con una voce più dolce, allora prese due cucchiai di miele e tornò a bussare con voce gentile:
– Apritemi la porta cari figli miei, sono la vostra mammina!
Ma il lupo aveva commesso l’errore di appoggiare la sua zampaccia nera sul davanzale della finestra accanto alla porta. I capretti la videro e risposero prontamente:
– Non ti apriremo la porta! Tu non sei la mamma, sei il lupo cattivo!
Il lupo, accortosi del suo errore, corse dal fornaio e infilò le sue zampe nella bianca farina, facendole diventare candide come quelle di mamma capretta.
Così torno dai caprettini, appoggiò la zampa sul davanzale e disse con voce dolce:
– Apritemi la porta cari figli miei, sono la vostra mammina!
I capretti, vista la zampa imbiancata del lupo, credettero veramente che fosse la loro mamma, e aprirono la porta.
Ma invece della mamma i capretti si trovarono davanti il lupo cattivo!
Corsero tutti a nascondersi dove poterono, chi sotto il tavolo, chi dietro il divano, un altro sotto al letto, uno dentro la stufa, l’altro nell’armadio, uno dietro la tenda e l’ultimo dentro la cassa del grande orologio a pendolo in soggiorno.
Ma il lupo ben presto iniziò a trovarli e, ingordo, li mangiava in un sol boccone.
Solo un capretto non riuscì a mangiare perché non lo trovò, si era nascosto dentro la cassa del grande orologio a pendolo.
Sazio e contento, il lupo andò a riposarsi facendo un sonnellino sotto un albero non troppo distante.
Quando la mamma ritornò dal mercato, trovò la porta aperta… disperata iniziò a chiamare per nome tutti i suoi capretti, ma solo uno le rispose, mentre usciva dalla cassa dell’orologio.
La mamma gli corse incontro abbracciandolo, e il caprettino le raccontò tutto.
La mamma, infuriata col lupo, corse fuori casa alla sua ricerca, finché non lo trovò che ancora dormiva beato sotto l’albero.
Il caprettino osservò che qualcosa dentro l’enorme pancia piena del lupo si muoveva e si dimenava.
– Sono i capretti miei fratelli che si muovono! Il lupo ingordo li ha mangiati in un sol boccone e sono ancora vivi! – esclamò il piccolo.
La mamma capra corse a prendere la sua forbiciona da cucito e tagliò la pancia del lupo. Con un balzo, uscirono ad uno ad uno tutti i suoi caprettini, in perfetta salute.
Poi, mente il lupo ancora dormiva, mamma capra prese dei bei sassi grossi dal fiume vicino e li mise dentro la sua pancia. Ricucì quindi il tutto, senza che il lupo si accorgesse di nulla.
Finalmente mamma capra e i suoi caprettini poterono tornare a casa tutti assieme e gustarsi la golosa merenda che la mamma aveva preso al mercato per i suoi piccoli.
E vissero tutti felici e contenti.
… e il lupo? Il lupo si svegliò di lì a poco con una forte pesantezza di stomaco e un gran bruciore alla pancia, assolutamente insopportabile. Da quel giorno non cercò mai più di mangiare capretti, capì che per lui erano indigesti!
Il brutto anatroccolo è la fiaba che insegna a credere in sè stessi e non perdere mai la fiducia nelle proprie capacità.
Questa favola di Andersen aiuta a spiegare al tuo piccolo che col tempo diventerà un magnifico cigno, anche se al momento c’è qualcuno che al momento gli dice il contrario.
Soprattutto puoi spiegargli che non è l’aspetto esteriore che conta, ma la fiducia in sè stessi e la forza di non perdere mai la speranza che domani sarà un giorno migliore.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del brutto anatroccolo!
C’era una volta un’anatra che stava aspettando la schiusa delle sue uova, poste nel nido fatto sulla riva di un laghetto all’interno del campo di una fattoria. Poco a poco le uova si schiusero tutte, e ne uscirono dei bellissimi pulcini tutti dorati. Però mancava ancora un uovo, quello più grande di tutti, lui tardava a schiudersi.
Finalmente l’uovo si aprì e… Che sorpresa! Mamma anatra e i suoi fratellini videro uscire da quell’uovo più grande del normale uno strano anatroccolo, tutto grigio e goffo! I suoi fratellini lo ribattezzarono subito “Brutto Anatroccolo” e non mancavano mai di prenderlo in giro e fargli gli scherzi.
Mamma anatra cercava di difenderlo come poteva, e quando era triste il Brutto Anatroccolo correva da lei a farsi stringere e coccolare. Ma purtroppo anche le altre anatre che abitavano il laghetto lo deridevano e lo prendevano in giro, tanto che il poverino tornava sempre a casa con i lacrimoni agli occhi.
Un giorno il Brutto Anatroccolo decise che ne aveva abbastanza di tutte quelle stupide anatre che lo trattavano male. – Andrò dove troverò delle anatre che mi sapranno apprezzare per quello che sono – si disse, e spiccò un volo incerto con le sue piccole alette.
Non riuscì ad andare molto lontano, e per la stanchezza si fermò in uno stagno lì vicino, dove vide arrivare uno stormo di anatre selvatiche. – Forse loro mi accetteranno meglio di come mi hanno accettato le anatre della fattoria – pensò.
Il Brutto Anatroccolo si avvicinò piano piano allo stormo che stava riposando sulle acque dello stagno, e quando fu abbastanza vicino si presentò facendo la riverenza. – Salve a tutte signore anatre selvatiche io sono…
Ma non fece in tempo a finire la frase che già le anatre selvatiche lo stavano additando e deridendo.
– E cosa saresti tu? Un anatroccolo mostriciattolo? – e continuarono a ridere. Il povero anatroccolo, deluso, amareggiato e pieno di lacrime, scappò via anche da lì, finché stremato dal volo non si fermò sulle rive di un altro stagno non molto lontano.
Lì vide degli splendidi e candidi cigni che nuotavano con grazia ed eleganza sullo specchio d’acqua. Erano così belli che il Brutto Anatroccolo ne rimase incantato. Più li guardava e più pensava: “quanto vorrei essere bello come loro…”
Così, senza nemmeno accorgersene, aveva nuotato verso di loro, fino ad arrivare praticamente in mezzo al gruppo. “Forse mi beccheranno e mi cacceranno anche loro” pensò l’anatroccolo “ma preferisco che siano a farlo loro, che sono bellissimi davvero, piuttosto che quelle stupide anatre vanitose…”
Ma invece che deriderlo e cacciarlo, i cigni gli corsero tutti incontro, salutandolo e abbracciandolo. Il Brutto Anatroccolo non capiva, e chiese: – come mai non mi deridete e non mi prendete in giro per quanto sono brutto? Una di loro gli rispose – brutto tu?! Ma se stai per diventare uno splendido cigno!
– Cigno io?! – rispose sbalordito il Brutto Anatroccolo Tutti i cigni si misero a far di sì con la testa e gli sorrisero con calore. – Aspetta qualche giorno e vedrai…
E fu così che dopo pochi giorni il Brutto Anatroccolo si svegliò, ed andatosi a specchiare nello stagno vide che tutte le sue piume grigiastre erano diventate bianche come il latte, e la sua goffaggine si era trasformata in un portamento elegante ed aggraziato: era diventato un cigno!
E quanto era bello, il più bello di tutto lo stagno! – Quando ero ancora un Brutto Anatroccolo, non avrei mai immaginato che un giorno sarei stato così felice! E spiccò il volo insieme a tutti i suoi nuovi amici.
Morale della favola: solo credendo sempre in sè stessi e nelle proprie capacità alla fine si riesce a diventare grandi accettandosi per quello che si è.
Le fiabe popolari sono piene di spunti e insegnano, tra le altre cose, ad aguzzare l’ingegno per riuscire a cavarsela in ogni situazione.
Il viandante è una rielaborazione dell’antica fiaba “La minestra di sassi” che noi di fabulinis abbiamo riscritto con la nostra fantasia. E’ una fiaba che fa capire cosa significa la condivisione: infatti, se si condivide ciò che si ha, alla fine si è tutti più felici.
C’era una volta un viandante che camminava per i boschi. Quel sentiero lo avrebbe riportato a casa dopo tanti anni trascorsi viaggiando. Era sera e la stanchezza iniziava a farsi sentire. “Meglio cercare un posto dove poter fermarsi a riposare e mangiare qualcosa” pensò, ma di taverne o locande non ce n’era nemmeno l’ombra. Finché, cammina cammina, vide una casetta con le luci accese. Si avvicinò: dentro c’era un bel fuocherello che ardeva scoppiettante. Bussò quindi alla porta.
Arrivò ad aprire una vecchietta che lo squadrò dalla testa ai piedi. – Buonasera – disse il viandante. – Cosa vuoi da me?! – rispose burbera la vecchietta. – Cerco solo un po’ di caldo ed un riparo per la notte.
– Questa non è una locanda! E io non ospito estranei! – rispose ancora più arrabbiata la vecchietta. – Non essere così scontrosa, mia signora, non pensi che sarebbe un mondo migliore se ci aiutassimo l’un con l’altro? – Ah si? E chi aiuterà me? Io non ho nulla da darti, nemmeno un tozzo di pane… – Mi basta poter dormire sotto un tetto, non chiedo altro…
Dopo un po’ di insistenza, finalmente, la vecchietta lo fece entrare. Quando fu dentro casa, il viandante si guardò attorno: la casa era pulita, ben tenuta e con dei bei mobili e lui si accorse che la vecchietta proprio povera non doveva essere. Così le domandò: – Mia signora, lo so che ho chiesto solo un letto per dormire, ma possibile che non ci sia proprio nulla da mettere sotto i denti? – Non ho da mangiare nemmeno per me, figurati se ho qualcosa da darti…
– Mi spiace molto per te, comunque se tu non hai nulla da dare a me, forse ho io qualcosa da dare a te. La vecchietta lo guardò con aria interrogativa, così il viandante continuò. – Viaggiando ho imparato alcuni trucchetti per preparare delle gustose zuppe usando solo alcuni sassi. – Solo dei sassi? – chiese meravigliata la vecchietta.
– Certo, mi basta solo una pentola piena d’acqua e un mestolo, poi al resto ci penso io. La vecchietta incuriosita corse a prendere la pentola, la riempì d’acqua e la mise sul fuoco. A quel punto il viandante tirò fuori dalla tasca alcuni sassolini bianchi tutti lisci e tondi, li buttò nell’acqua della pentola e cominciò a mescolare.
La vecchietta guardava prima il viandante e poi la pentola curiosa e incredula. – Sono proprio curiosa di vedere come fai a fare una zuppa con solo dei sassi – disse. Il viandante sorrise continuando a mescolare – sassi di questa qualità fanno ottime zuppe, solo che stavolta non sono sicuro del risultato – disse con un’aria preoccupata – sai, li ho usati molte volte nei miei viaggi e penso che ormai non diano più il sapore di una volta… se avessi solo una tazza d’orzo per rendere più densa la zuppa…
– Ora che ci penso forse un po’ di orzo dovrei averlo – la vecchietta si alzò, andò alla dispensa e tornò con una tazza piena d’orzo, che il viandante versò nella pentola continuando a mescolare. La vecchietta era sempre più incuriosita.
– Se avessimo anche qualche patata e qualche carota, questa zuppa uscirebbe veramente buona… ma inutile pensarci – continuò il viandante. – Forse qualcosa in cantina dovrei avere – disse la vecchietta, che si alzò e tornò con alcune patate, delle carote e anche una cipolla.
Il viandante le buttò in pentola e continuò a mischiare – questa zuppa sarà proprio buona – disse – se ci fosse anche un pochino di carne avremmo un patto degno di una regina! – Degno di una regina? – esclamò la vecchietta, che subito corse in dispensa e tornò con un bel pezzettino di carne tagliato a cubetti. Il viandante prese e buttò nella pentola continuando a mescolare. Dopo un po’ disse che la zuppa era pronta, tolse i sassolini dalla pentola, e i due si misero a mangiare.
Fu una cena squisita, una delle migliori che la vecchietta avesse mai fatto. – No avrei mai pensato che da dei semplici sassolini potesse uscire una zuppa così buona! – esclamò alla fine la vecchietta. Poco dopo andarono a dormire, entrambi passarono un’ottima notte, e al mattino il viandante trovò pure la colazione pronta!
Quando fu il momento di salutarsi, la vecchietta lo ringraziò immensamente per averle confidato il segreto della zuppa coi sassi. Il viandante sorrise e le disse: – Basta avere qualcosa per darle un po’ di gusto! E si incamminò per il sentiero che lo avrebbe riportato a casa.
Un racconto che parla della voglia di viaggiare verso posti lontani…
Maurino è un bambino incuriosito dai treni, li ammira alla stazione, e un giorno sa già che ne prenderà uno e andrà lontano, molto lontano.
Maurino e il suo treno 🚂
C’era una volta… Una storia che si rispetti deve sempre cominciare così: anche questa che sto per raccontare. E’ la storia di Maurino e della sua passione per i treni. I suoi treni, però, non erano dei modellini, bensì dei treni veri, compresi quelli a vapore.
C’era una volta – come dicevo – un bambino di nome Maurino. Egli abitava in una città ligure di mare, dove c’era la stazione ferroviaria. La sua vita trascorreva circondata dal mondo dei treni. Per cominciare, la prima casa in cui abitò, era un alloggio nelle “Case dei ferrovieri”. Queste case erano tre grandi palazzi, costruiti appositamente per i lavoratori delle ferrovie, ma dove abitavano – come il papà di Maurino – anche altri lavoratori. Bisogna aggiungere che Maurino aveva anche due zii, che lavoravano come ferrovieri nella stazione della stessa città. Gli zii erano degli esperti meccanici e Maurino, quando li incontrava, ascoltava i loro racconti sulle riparazioni che essi facevano ai treni, curioso e attento, come oggi lo è un bambino che si interessa a quello che accade all’automobile del suo papà.
La seconda casa dove abitò dall’età di otto anni, era quella dei nonni paterni. Nella loro casa, non solo era nato, ma era quella dove spesso era ospite. Lui voleva proprio bene ai quei due nonni. Non soltanto essi esaudivano molti dei suoi desideri, ai quali, invece, mamma e papà dicevano ‘no’, bensì con loro poteva trascorrere ore e ore ad osservare i treni che si muovevano nella sottostante ferrovia. Sì, l’appartamento dei nonni era al quarto piano e le finestre delle camere davano su un terrazzo grande il quale si affacciava proprio sui binari. Questi binari, da lì ad un chilometro avrebbero portato alla stazione della città.
Per Maurino era un gran divertimento star lì a guardare non solo i treni in arrivo da Torino e Genova, ma anche quelli che i ferrovieri addetti alle manovre, erano impegnati a comporre sui diversi binari morti. Questi ferrovieri, tra i loro compiti, avevano quello di agganciare alla locomotiva i differenti vagoni, sia quelli passeggeri sia quelli merci. Oppure, ovviamente, quello di sganciarli. I nonni di Maurino gli avevano spiegato che alcuni vagoni – quelli scoperti – erano destinati alle merci alla rinfusa (carbone o minerali); altri ancora, chiusi, avrebbero, ad esempio, contenuto sacchi di granaglie o rotoloni di carta o altri materiali, i quali dovevano essere protetti dalla pioggia; altri, infine, che erano vagoni-cisterna, servivano per il trasporto specialmente di prodotti chimici.
Come urlavano quei ferrovieri! Li udiva persino Maurino, che era distante una cinquantina di metri: “Dai, sgancia questo vagone” oppure “Piano con quella motrice”. Ma quello che colpiva di più Maurino, che era un bambino beneducato, erano le parolacce. Io non so se è mai capitato anche a voi, bambini, ma Maurino era molto imbarazzato: si rendeva conto che non avrebbe dovuto ascoltare quelle parole “sporche”, come pretendevano i suoi genitori; tuttavia, non poteva resistere alla tentazione di farsi – diciamo così – un’istruzione linguistica.
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Piano piano, col passare degli anni, la sua curiosità per l’aspetto tecnico dei treni cominciò a diminuire. In Maurino comparve un nuovo modo di considerarli. Prima, quando era più piccolo, li guardava dal punto di vista di come erano fatti e di come funzionavano; ora, invece, che aveva otto anni, pensava ai treni soprattutto, come mezzo di trasporto di passeggeri; rifletteva, cioè, sul fatto che i treni trasferivano le persone da un luogo ad un altro.
Nacque, allora, in lui una nuova curiosità: dove andavano i treni che scavalcavano o attraversavano, in galleria, quelle montagne, che Maurino vedeva dal terrazzo dei nonni? Farsi una simile domanda era forse normale per un bambino come lui, che era abituato a stare per ore sulla spiaggia a guardare l’orizzonte del mare. Gli era stato detto dai suoi nonni, i quali avevano viaggiato sulle navi per lavoro, che al di là di quell’orizzonte c’erano altre terre, dove abitavano altri uomini, persino con la pelle di un colore diverso. Questi uomini, le loro mogli e i loro bambini parlavano anche una lingua differente dalla sua, che lui non avrebbe potuto capire se non studiando e viaggiando.
Quante volte si era domandato, allora, chi fossero questi uomini e come suonassero le lingue che parlavano! Adesso, quando era sul terrazzo e osservava le montagne, si chiedeva sempre se, al di là di esse ci fossero altre città come la sua. Si domandava anche che lingua parlassero i bambini che le abitavano. Non gli bastava che la nonna gli rispondesse: “Al di là delle nostre montagne, che si chiamano Appennini, c’è il Piemonte, dove le persone parlano il piemontese, una lingua un po’ diversa dalla nostra, ma che noi possiamo capire. In Piemonte – aggiungeva la nonna – ci sono altre montagne, le Alpi, che sono molto più alte di quelle che ci stanno di fronte. In Piemonte poi ci sono città molto più grandi della nostra, come quella di Torino”.
I nonni, la conoscevano questa città, perché vi erano andati molti anni prima, col treno, in viaggio di nozze. Maurino ora si spiegava la presenza di quel quadretto, sopra il comodino della nonna, nel quale era incorniciata una fotografia della basilica di Superga, una bellissima chiesa che era stata costruita sulla cima di una montagna! Allora si formò nella mente di Maurino un pensiero. Più che un pensiero, era un proposito. Se i suoi nonni, che egli amava tantissimo e dai quali tantissimo era amato, quando si erano sposati erano andati a Torino, anche lui, da grande, sarebbe andato a Torino con la donna che avrebbe sposata.
Come credete, che sia andata a finire per Maurino? Tanto per cominciare egli, un giorno, molti anni fa, quando era ormai un giovanotto, prese finalmente quel treno – simile ad uno di quelli aveva visto passare tante volte – diretto a Torino, dove andò a completare i suoi studi. Al termine di questi, si fermò in quella città, dove trovò un lavoro. La cosa più straordinaria, però, fu che, un bellissimo giorno, si innamorò di una ragazza che, un anno più tardi, egli sposò. Riuscite ad indovinare dove la portò, subito dopo che si erano sposati? Non ve lo dico, tanto lo avete già capito!
Un’ultima cosa da suggerire ad ogni giovane lettore: “Prendi sempre il tuo treno! Non dimenticare, però, che la tua fantasia arriverà sempre più lontana di esso e correrà sempre più veloce”.
⚜ Fine della fiaba ⚜ fabulinis ringrazia Mauro Alfonso, nonno ed ex insegnante, per aver condiviso con tutti noi questo bel racconto dedicato alla voglia di scoprire il mondo!
Chi la fa l’aspetti… e i proverbi non mentono mai!
Le favole di Esopo hanno sempre una morale da insegnarci, questa favola ad esempio spiega che se si fa uno scherzo a qualcuno, bisogna essere pronti anche a riceverne.
Questa fiaba può essere utile se si ha a che fare con un bimbo a cui piace fare gli scherzi ma che poi si arrabbia molto quando è il suo turno di riceverne uno…
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della volpe e la cicogna!
C’erano una volta una Volpe e una Cicogna, che avevano fatto amicizia. La Volpe allora pensò di invitare a pranzo la nuova amica. Ma quando dovette decidere cosa preparare, la Volpe pensò bene di fare un piccolo scherzetto alla signora Cicogna.
Preparò un succulento brodino di verdure, e lo servì su un un bel piatto di porcellana, con i bordi molto bassi e invitò la Cicogna ad assaggiarlo.
La cicogna, sentito il profumino del brodo, si sedette a tavola e cercò di bere il brodino ancora fumante. Ma con il suo lungo e appuntito becco la Cicogna non riusciva a bere dal piatto basso che la volpe le aveva preparato.
La Volpe, che si stava divertendo un sacco alle spalle della cicogna, la invitava a bere e faceva finta di non capire coma mai non le piacesse.
La cicogna aveva ben capito lo scherzo della Volpe ma decise di far buon viso a cattivo gioco. – Scusami signora Volpe, ma oggi non mi sento molto bene, penso tornerò a casa a riposare – disse la cicogna congedandosi dalla volpe.
Qualche giorno dopo fu la cicogna a invitare la Volpe a pranzo.
La cicogna aveva preparato un magnifico piatto a base di pesce ma lo aveva messo in un vaso trasparente dal collo lungo e stretto, dove il suo becco riusciva ad entrare alla perfezione.
Ma il muso della volpe invece era troppo grosso per arrivare fino in fondo, e più la volpe cercava di infilarcelo, più si arrabbiava.
L’odorino invitante del pesce che non avrebbe potuto mangiare, la stava facendo uscire di testa, finché ad un certo punto, stufa di essere presa in giro, sbottò: – Mi hai ingannata Cicogna mia! Hai messo il cibo in questo vaso dal collo lungo e stretto di proposito per non farmi mangiare! Io me ne vado!
La cicogna guardò la volpe con aria soddisfatta e le rispose: – Chi la fa, l’aspetti! E continuò a mangiarsi beata il suo bel pranzetto a base di pesce.
Morale della favola: se prendi in giro qualcuno ricordati che poi prenderanno in giro anche te!
Se potessi esprimere un desiderio chiederei… dello zucchero filato! Ma non ditelo ad Alfio…
Alfio, baciato dalla fortuna di incontrare una fata che gli regalerà tre desideri, capirà presto come la vera felicità sia fatta di piccoli gesti fatti col cuore.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare la fiaba dello zucchero filato raccontata da Silvia!
Lo zucchero filato 🍭 storia completa
C’era una volta Alfio, un bimbo curioso e un po’ monello, che un giorno stava gironzolando per il boschetto dietro casa. Era alla ricerca di nuovi sassolini per la sua collezione, quando ad un tratto sentì una vocina che chiedeva aiuto. Alfio drizzò le orecchie ma non riusciva a capire da dove provenisse quella vocina.
– Devi guardare più in basso! E stai attento a non calpestarmi! – disse la vocina Alfio, che fino a quel momento stava cercando tra gli arbusti e sui rami degli alberi, abbassò lo sguardo, e quello che vide lo colse di sorpresa. C’era una piccola fata che aveva un piede bloccato sotto un ramoscello. Per lei era come fosse un tronco, e non riusciva più a volare.
Alfio si chinò per vedere meglio, non aveva mai visto una fata prima di allora, ne aveva sentito parlare solo nelle fiabe. – Aiutami bimbo, e ti sarò riconoscente – disse la fata. Senza pensarci Alfio prese il ramoscello e lo scostò, lasciando così finalmente libera la fata. – Grazie mille bimbo mio, per sdebitarmi ti farò un dono. La persona a cui vuoi bene potrà esprimere tre desideri e vederli realizzati. – Grazie mille signora fata! La fata sorrise e sparì volando via nel bosco.
Alfio, tutto contento, corse verso casa, dove incontrò Serena, la sua inseparabile amica che abitava lì vicino. – Serena, Serena! Non sai cosa mi è capitato! Serena lo guardò stupita e chiese: – E cosa ti è capitato Alfio? – Ero nel boschetto qua dietro e ho incontrato una fata con un piede bloccato da un ramoscello. Io l’ho liberata ed in cambio lei ha promesso che realizzerà tre desideri di una persona a cui voglio bene!
– Ma è bellissimo! – esclamò Serena – chissà cosa desidererà quella persona… se fossi io adesso vorrei un sacco di zucchero filato! E come per magia Serena si ritrovò in mano uno stecco con una montagna di zucchero filato sopra. Alfio, come anche Serena, rimase sbalordito.
– Ma no Serena! Hai sprecato uno dei desideri per dello zucchero filato! Potevi almeno chiedere una cassa di cioccolato! E arrabbiato come non mai Alfio cercò di strappare lo zucchero filato di mano a Serena, ma per la foga inciampò e si ritrovò per terra con tutto lo zucchero filato tra i capelli.
– Ecco così impari a fare il monello, adesso hai tutto lo zucchero filato appiccicato ai capelli e non si può più mangiare! Ti meriteresti solo zucchero filato al posto dei capelli per punizione! E come per magia i capelli di Alfio si trasformarono tutti in zucchero filato! Serena, sempre più stupita e meravigliate, non perse l’occasione: prese una ciocca di zucchero filato e se lo mangiò.
– Ahi! – gridò Alfio – Mi strappi i capelli! – Ti ho solo strappato dello zucchero filato… ed è pure buono! – si mise a ridere Serena. – Noo che vergogna! Non posso rimanere così, chissà come mi sgriderà la mamma! Serena intanto cercava di avvicinarsi per prendere un altro po’ di zucchero filato, ma Alfio scappava.
– Ti prego Serena fammi tornare i capelli come prima! – Ma così sprechiamo l’ultimo desiderio! – Ti prego Serena… – Alfio stava per mettersi a piangere. – E va bene, però mi prometti che dopo mi compri dello zucchero filato!? Alfio fece di si con la testa.
– Allora, vorrei che ti tornassero i capelli come prima! E come per magia ad Alfio tornarono tutti i capelli. Alfio capì che aveva sbagliato a comportarsi così con Serena. Lei desiderava del semplice zucchero filato, e quello le bastava per essere felice. Così corse in casa a prendere i soldini e poi, mano nella mano, andarono al mercato a prendere lo zucchero filato.
Il principe ranocchio ha aiutato la principessina, ma lei non lo ringrazia nemmeno…
Il principe ranocchio è una fiaba della tradizione europea, arrivata a noi nella famosa versione dei fratelli Grimm.
Per ritornare un principe in carne ed ossa però, il ranocchio dovrà essere baciato dalla principessina, che non sembra per nulla affascinata dal verde anfibio…
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del principe ranocchio!
C’era una volta un re che aveva tre figlie, tutte bellissime, ma la più giovane era la più bella e dolce di tutte.
La principessina passava le sue giornate vicino alla pozza d’acqua fresca che si trovava all’interno delle mura del castello.
Il suo passatempo preferito era giocare con una palla dorata: la lanciava in aria e la riprendeva, e pareva non si stancasse mai di questo divertimento.
Un giorno però la palla le scivolò di mano e finì proprio in mezzo alla pozza d’acqua lì vicino.
La principessina, non riuscendo a recuperarla, cominciò a piangere disperata perché era molto affezionata a quella palla.
Ad un tratto però sentì una voce: – Come mai piangi, principessina mia?
La principessina si guardò intorno, per vedere da dove provenisse quella voce, ma vide solo la testa di un grosso ranocchio che spuntava dall’acqua.
– Sei tu che mi hai parlato? – chiese la principessina. Il ranocchio annuì e le disse: – Se vuoi posso aiutarti a recuperare la tua palla d’oro. Tu in cambio cosa mi dai? – Tutto quello che vuoi, anche la mia corona d’oro, basta che me la riporti! – rispose la principessina.
– Del tuo oro non me ne faccio nulla, voglio piuttosto essere tuo amico, passare le giornate con te, mangiare alla tua tavola e dormire nella tua stanzetta – propose il ranocchio. – Va bene! – esclamò la principessina, che però fra sé e sé pensava “che cosa passa per la testa a quel ranocchio? essere mio amico? Starà scherzando!”
Il ranocchio, con un tuffo, raggiunse la palla d’oro e la riportò alla principessina. La principessina, piena di gioia, prese la palla fra le mani e corse via senza nemmeno ringraziare.
Il ranocchio le gridò: – Aspettami! Se corri così veloce non riesco a starti dietro! – ma la principessina era ormai talmente lontana che nemmeno lo sentiva più.
Il giorno dopo, mentre la principessina era a tavola col re, la regina e le sue sorelle, si sentì battere forte al portone del palazzo, e una voce disse: – Principessina, sono il ranocchio che ti ha recuperato la palla d’oro dalla pozza d’acqua, ora devi mantenere la tua promessa!
Il re guardò la figlioletta e le chiese di cosa si trattasse. La principessina raccontò quindi tutta la vicenda del giorno precedente, e alla fine il re sentenziò: – Le promesse vanno mantenute figlia mia, fate entrare il ranocchio!
Così il ranocchio fu fatto sedere di fianco alla principessina, che lo guardava con disgusto. – Avvicinami il tuo piattino d’oro, così che io possa mangiare assieme a te – disse il ranocchio, che mangiò tutto con buon appetito. La principessina, arrabbiata, invece non mangiò nulla.
Dopo il pasto il ranocchio disse che era molto stanco e avrebbe gradito dormire nella stanzetta della principessina.
La principessina all’idea di dover dormire a fianco di un ranocchio freddo e viscido scoppiò a piangere disperata, ma il re la riprese: – Non si deve disprezzare chi ti ha aiutato nel momento del bisogno!
Con due dita la principessina prese il ranocchio e lo portò in camera, ma quando furono in stanza il ranocchio disse: – Sono molto stanco e ho deciso di dormire insieme a te. Se non lo farai, lo dirò a tuo padre.
La principessina, al colmo della collera, lo prese per le zampine e lo scagliò con forza contro la parete. – Adesso tacerai, brutto ranocchio! – urlò.
Il ranocchio cadde a terra privo di sensi. Solo allora la principessina si rese conto di quello che aveva fatto; corse dal ranocchio, lo prese in braccio e lo strinse forte a sè.
– Oh no ranocchio mio, scusami tanto, non volevo… se potessi fare qualcosa per salvarti la vita…
La bocca del ranocchio sussurrò qualcosa, che però la principessina non riuscì ad udire, così accostò meglio l’orecchio alla sua bocca e alla fine riuscì a sentire le parole del ranocchio: – … un bacio… solo un bacio… – diceva con un filo di voce.
La principessina, spinta dal rimorso di aver fatto del male ad una povera creatura, sconfisse il disgusto per il freddo e viscido rospo, chiuse gli occhi e gli diede un bacio.
Un istante dopo, nella stanza ci fu un caldo bagliore e, quando la principessina riaprì gli occhi, davanti a lei c’era un bel ragazzo che si sfregava un grosso bernoccolo sulla testa.
– E tu chi sei?! – esclamò la principessina. – Sono il ranocchio, ma il mio vero nome è principe Enrico! Sono stato vittima di un incantesimo di una strega e solo il bacio di una principessa avrebbe potuto spezzarlo… grazie!
La principessina, ancora attonita per lo stupore, gli sorrise e corse a medicargli la ferita.
I due ragazzi iniziarono così una bella amicizia, che nel tempo si tramutò in amore. E un bel giorno si sposarono, proprio di fronte alla pozza d’acqua dove tanto tempo prima si erano incontrati.
C’era una volta un lago dove, nascosta dentro una grotta, viveva una splendida fata. Nessuno degli abitanti della valle però l’aveva mai vista, perché era abilissima a nascondersi e se necessario a trasformarsi in qualche animaletto per sfuggire dalle persone. Tutti però l’avevano sentita cantare, la sua voce era così bella e armoniosa che, anche le più dure giornate di lavoro, sembravano più leggere ascoltandola.
Un giorno due piccoli pastorelli che stavano controllando le loro pecore, sentirono la voce della fata cantare. Era così vicina che i due si nascosero dietro un albero per paura di essere visti, ed infatti dopo un attimo comparve nel prato la bellissima fata dai capelli color blu come il mare. Il più piccolo dei due esclamò: – E’ la fata del lago!
Il più grande non fece in tempo a tappargli la bocca che la fata si girò verso di loro, sorpresa. La fata, a questo punto fuggì via veloce e si rifugiò dentro al bosco. I due pastorelli cercarono invano di rincorrerla, ma lei fu troppo veloce e dopo poco non riescirono più a vederla, era sparita. I due tornarono a casa di corsa, volevano raccontare a tutti dell’incontro con la fata, ma appena entrarono in casa sentirono il papà che diceva alla mamma:
– Oggi ad un certo punto la fata del lago ha smesso di cantare… non l’abbiamo più sentita, arrivare a fine giornata senza il suo canto è proprio dura… I due pastorelli si guardarono i faccia, forse la fata aveva smesso di cantare proprio per colpa loro, pensarono entrambi, e se ne stettero zitti zitti.
E infatti da quel giorno la fata non cantò più, e tutti gli abitanti della valle si sentivano sempre più tristi e stanchi dal duro lavoro. Il canto della fata mancava a tutti. I due pastorelli pensarono di averla combinata proprio grossa, e decisero di rimediare.
Si misero a cercare la grotta della fata per tutto il lago, finché un giorno mentre ne stavano esplorando una, sentirono dei singhiozzi di pianto provenire dal fondo. – Signora fata del lago? – disse il più grandicello dei due pastorelli. – Non avvicinatevi! Cosa volete da me?! – rispose piangendo la fata. – Volevamo solo scusarci per l’altra volta, non era nostra intenzione farle prendere paura…
– Non ho preso paura… è solo che voi mi avete vista! – Ci scusi se l’abbiamo vista, eravamo solo curiosi e… – Ma perché non vuole essere vista? Lei è così bella! – interruppe il pastorello più piccolo. – Non è vero! – rispose la fata, piangendo ancora di più – sono orribile! I due pastorelli si guardarono in faccia meravigliati.
– No, no signora fata, lei è proprio bella! – continuò il più piccolo. – Come fai a dire che sono bella con questi orribili capelli blu! Tutte le altre fate hanno i capelli color dell’oro, io invece ho i capelli color del mare… – e scoppiò in un altro pianto. I due pastorelli rimasero ammutoliti per quella strana spiegazione. Per loro due la fata era la donna più bella che avessero mai visto.
– Mi creda signora fata che per noi lei è bellissima… e poi la sua voce lo è ancora di più, da quando non la sentiamo più cantare, tutti gli abitanti della valle sono più tristi… La fata pian piano smise di piangere. – Davvero senza il mio canto tutti gli abitanti della valle sono più tristi? I due pastorelli annuirono con forza.
La fata stette un attimo in silenzio. – E davvero nonostante i miei capelli color del mare voi pensate che io sia bella? I due pastorelli annuirono con ancor più forza. La fata li guardò negli occhi, non mentivano. – Se promettete di non dire a nessuno dove sta la mia grotta, tornerò a cantare per tutti gli abitanti della valle. – Promettiamo! – dissero in coro i due pastorelli.
La fata sorrise, e i due pastorelli pieni di felicità e orgoglio per aver risolto la questione, si misero a saltare e gridare di gioia. I due salutarono la fata e corsero subito verso casa, e già dopo pochi passi, sentirono alle loro spalle la meravigliosa voce della fata riprendere a cantare.
Tutti gli abitanti della valle, sentendo di nuovo il canto della fata, si fermarono ad ascoltare incantati. Di colpo erano di nuovo tutti felici, e quella sera stessa fecero una gran festa in onore della fata, con canti balli e un gran banchetto. E i due pastorelli erano i bimbi più felici di tutti.
C’era una volta un piccolo cammello che viveva tranquillo ai piedi delle piramidi d’Egitto. Siccome era più piccolo degli altri cammelli suoi compari, il suo padrone di solito lo usava per far fare dei giri sulle dune ai bambini che venivano a visitare le piramidi.
Il piccolo cammello era tutto contento perché così non si affaticava come i suoi amici, che a volte dovevano portare in groppa degli omaccioni grandi e grossi, ma soprattutto si riempiva di gioia il cuore dalle risa e delle esclamazioni di meraviglia dei bimbi.
Un giorno però arrivarono così tante persone in visita alle piramidi, che tutti i cammelli furono noleggiati, e a disposizione rimase solo il piccolo cammello. Un ometto minuto e piccolino, che voleva a tutti i costi essere portato alle piramidi, si avvicinò al cammelliere, padrone del piccolo cammello, e gli disse: – Sono una persona molto leggera, sicuramente il suo cammello, anche se adatto ai bambini, potrà portarmi fino alle piramidi.
Il cammelliere guardò l’ometto, e pensò che per una volta, una bella gita fino alle piramidi, il suo piccolo cammello avrebbe potuto anche farla. – E va bene, salga pure – disse il padrone del piccolo cammello.
Così l’ometto salì in groppa al piccolo cammello, che non fu per niente felice di dover portare quel signore, e fino alle piramidi per giunta! Ma insieme al suo padrone si incamminò lentamente.
Era una giornata veramente calda e afosa, il sole picchiava come non mai, e a metà del cammino il piccolo cammello stava già dando segni di cedimento. Il suo padrone se ne era accorto, e propose una piccola pausa all’ometto, per permettere al cammello di bere e riprendersi un poco dal cammino.
L’ometto si convinse e scese dal piccolo cammello e si mise ad aspettare. Il padrone del cammello, invece che aspettare in piedi sotto il sole cocente, si sedette per terra sotto l’ombra del suo piccolo cammello. L’ometto quando vide il cammelliere sedersi all’ombra subito lo volle copiare, ma il cammello era piccolino, e di ombra ce n’era soltanto per una persona, e neanche così tanta…
L’ometto e il cammelliere si misero subito a discutere. – Io ho preso il cammello per farmi portare fino alle piramidi e quindi ho diritto a usare la sua ombra! – disse l’ometto. – Tu hai noleggiato solo il trasporto sulla groppa del mio piccolo cammello, non la sua ombra! – rispose il cammelliere.
E iniziarono quindi a litigare su chi dovesse riposare sotto quella piccola ombra. Ma il piccolo cammello, che ormai si sentiva riposato ed era stufo di stare a sentire quei due che litigavano, diede un bello sbuffo e si mise a trottare verso casa.
Il piccolo cammello lasciò così quei due di stucco e a bocca aperta, mentre si portava via l’ombra per cui stavano così animatamente litigando.
Il coniglietto di Pasqua regala ogni anno tante belle uova colorate ai bambini!
Ma lo sapete che il coniglietto di Pasqua in realtà era una magica gallina dalle uova d’oro?!
Ma come ha fatto a diventare un coniglietto? E perchè regala le uova a Pasqua?
Scopriamolo insieme con questa simpatica fiaba pasquale!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare del coniglietto di Pasqua del Re!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare il coniglietto di Pasqua del Re raccontata da William!
Il coniglietto di Pasqua del Re 🐇🤴 racconto completo
Tanto tempo fa, molto prima che il coniglietto di Pasqua portasse le uova ai bambini, c’era un re.
Era il periodo prima della Pasqua, il compleanno del re si stava avvicinando e lui si aspettava che tutte le persone del regno gli facessero un regalo. E più i regali erano costosi, più gli piacevano.
Nel suo regno viveva una donna molto povera, che di prezioso aveva solo una gallina che deponeva molte uova. La donna non aveva soldi per comprare un regalo al re, così decise di regalargli la sua gallina.
L’avido re non fu molto colpito dal regalo, anche se la gallina gli dava tutte le mattine gustose uova da mangiare a colazione. Ma un giorno gli venne un’idea.
Chiamò il suo mago di corte e gli disse che gli sarebbe piaciuto di più se la gallina avesse deposto uova d’oro. Il mago si mise a lavorare molto duramente per trovare un incantesimo che facesse deporre alla gallina uova d’oro, e alla fine ci riuscì.
L’incantesimo del mago, però, non era perfetto: ogni mattina infatti la gallina deponeva splendide uova tutte colorate, e solo ogni tanto deponeva anche uno splendido uovo d’oro.
Il re ne fu comunque molto felice, perché così diventava sempre più ricco e se ne poteva vantare con tutti. La gallina dalle uova d’oro, però, attirò le invidie di tutti i nobili del regno, così il re decise di far costruire una solida gabbia per proteggerla.
Il re, poi, pensò furbamente anche ad uno stratagemma per evitare che la gallina venisse rubata: ogni volta che qualcuno fosse venuto a fargli visita al castello, avrebbe detto al mago di nascondere la gallina speciale e sostituirla con una gallina normale.
Un giorno venne a far visita al re una delegazione di nobili di un altro paese e quindi la gallina speciale fu scambiata con una normale. Come il re aveva previsto, quella notte qualcuno rubò la gallina dalla gabbia.
La mattina dopo, quando il re vide la gabbia vuota, si mise a ridere perché sapeva che la sua gallina speciale era ancora al sicuro. Il re disse al mago di rimettere nella gabbia la sua gallina dalle uova d’oro e se ne andò a fare una passeggiata.
Quando tornò a controllare la gabbia, però, ci vide dentro solo un coniglio bianco. – E tu come sei entrato lì? – disse il re.
Pensando ad un buffo scherzo del suo mago, il re chiamò il suo inserviente e gli ordinò di riportare il coniglio nella foresta. Il re convocò il mago, perché voleva sapere dove fosse la sua gallina speciale.
Il mago rispose che l’aveva rimessa nella gabbia, poi sbiancò in viso e si rese conto di aver dimenticato qualcosa… – Tutte le volte che qualcuno vi viene a far visita, mio sire, trasformo la gallina in un coniglio bianco per nasconderla meglio, solo che questa volta, quando ho rimesso il coniglio nella gabbia, mi sono dimenticato di ritrasformarlo in gallina! – disse piangendo il mago.
Il re si rese conto che il coniglio che aveva fatto riportare nella foresta era in realtà la sua gallina speciale… Tutti i suoi soldati perquisirono l’intera foresta, ma ormai del coniglio non c’era più traccia. Il re pianse per molti giorni la perdita della sua gallina dalle uova d’oro, ma alla fine se ne fece una ragione.
Passarono gli anni e il coniglietto non si vide mai più, ma i bambini del regno ancora oggi, proprio nel periodo prima della Pasqua, trovano delle strane ma bellissime uova colorate lasciate nei giardini e nella foresta vicino al paese.
E ogni tanto qualche bambino fortunato, trovava anche un uovo d’oro!
Il coniglietto di Pasqua è una delle tante leggende che narrano di come sia nata l’usanza di regalare le uova di cioccolato per questa festa.
Così, nell’attesa di scartare le uova di cioccolato possiamo raccontare ai bambini una “dolce” storia!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare delle uova di Pasqua del coniglietto!
🔊 Audiofiaba 😴
Nella pagina delle Audiofiabe, puoi ascoltare le uova di Pasqua del coniglietto raccontata da Silvia!
Le uova di Pasqua del coniglietto 🐰 racconto completo
Era il giorno prima della Pasqua, e in tutto il paese si stavano facendo i preparativi per le festa. In questo piccolo paesino vivevano due bambini, Alfio e Serena, che si volevano tanto bene e stavano sempre insieme.
I due vivevano nello stesso cortile, e da qualche mese avevano iniziato a prendersi cura di un piccolo coniglietto dal pelo tutto rosso e bianco. Il coniglietto voleva tanto bene ai due bambini, perché lo coccolavano e non gli facevano mai mancare carote e acqua a volontà.
Sapendo che tra poco sarebbe arrivata la Pasqua, il coniglietto voleva regalare ai due bambini qualcosa di speciale. Andò quindi dalla sua amica gallina, chiedendole se avesse un paio di uova da dargli. Le voleva decorare tutte con righine e fiori per poi darle ad Alfio e Serena. La gallina gli diede le uova ben volentieri, e il coniglietto iniziò subito a decorarle con mille colori.
Una volta finito di decorare le uova, il coniglietto le guardò tutto soddisfatto, e pensò che sarebbe stata una sorpresa fantastica per i due bimbi! Però, per fare una sorpresa ad Alfio e Serena, doveva trovare un posto dove tenerle nascoste fino al giorno dopo. Corse subito nel bosco, lì si ricordava che c’era un piccolo prato fiorito frequentato solo dai piccoli animaletti della foresta.
Quando arrivò al prato sistemò le uova ben riparate in mezzo ai mille fiori colorati che ricoprivano tutto. Ma su quel prato fiorito stava gustandosi il primo sole di primavera una fata che, vedendo il coniglietto che nascondeva le splendide uova decorate, gli chiese tutta incuriosita cosa stava facendo. – Sono per i miei due cari amici Alfio e Serena, voglio fare loro una sorpresa per domani che è il giorno di Pasqua – disse il coniglietto.
La fata sorrise – sarà sicuramente una bellissima sorpresa! – e guardò il coniglietto andare via tutto contento verso casa. Poi la fata andò a rimirare le due meravigliose uova decorate, e le venne un’idea. Al mattino seguente, il coniglietto corse al prato per prendere le due uova da regalare ad Alfio e Serena, ma quale sorpresa lo attendeva quando arrivò!
Il prato era interamente ricoperto da splendide uova decorate del tutto simili alle sue, e ce n’erano talmente tante da farci un regalo a tutti i bimbi del paese! La fata si avvicinò al coniglietto con in mano le due uova che aveva lui stesso decorato e gli disse. – Ecco tieni, portale ai tuoi amici, e spero che il piccolo cambiamento che ho fatto gli piaccia.
– Quale cambiamento, a me sembrano identiche a come le ho fatte io… – rispose il coniglietto. – Sì, fuori sono uguali, non mi sarei mai permessa di toccare la tua opera d’arte, ma dentro ora sono di dolce cioccolato! Il coniglietto fu tanto sorpreso quanto contento della magia che aveva fatto la fata che non sapeva più come ringraziarla.
– Se vuoi ringraziarmi, dì ai tuoi amici di portare qui tutti i bimbi del paese per festeggiare assieme, sentire le loro voci piene di gioia sarà per me il migliore dei ringraziamenti. Così il coniglietto corse via a portare le uova ad Alfio e Serena, che quando scoprirono che erano fatte di cioccolato non sapevano più dove nascondere la felicità.
Ma la vera festa fu vedere tutti i bimbi del paese correre al prato fiorito e sedersi a mangiare il loro uovo di Pasqua, mentre nascosta in un angolino una fata dal cuore d’oro si gustava tutta contenta le loro grida di gioia.
Marco appena vede la mensola dei suoi giocattoli improvvisamente vuota, si preoccupa, ma poi capisce che, con i suoi giocattoli, può far felice chi è meno fortunato di lui.
Questa deliziosa fiaba ce l’ha inviata la piccola Miriam di 6 anni, che l’ha scritta ispirandosi a come Silvia racconta le storie nei suoi video ❤️
La mensola vuota
Cosa fa Marco Appena vede la mensola vuota?
Vediamo cosa succede in questa storia. Ciao sono Miriam e oggi vi racconto questa storia la mensola vuota.
Marco era un bambino che aveva sempre la mensola piena di giocattoli. Un giorno mentre andava a scuola e studiava e studiava e studiava appena entrato nella sua stanza ha visto la mensola vuota e disse: – Vediamo cosa dice mia mamma, perché c’è questa mensola vuota?
la mamma disse: – Perché tu hai troppi giocattoli così li ho messi tutti uno scatolone e li do’ ai poveri.
Marco si decise che i giocattoli non li voleva mettere tutti là dentro in quello scatolone, soprattutto quelli preferiti. No no e no non voleva assolutamente.
Così la mamma disse: – I giocattoli che non ti piacciono più come quelli per neonati li dai ai poveri. Così Marco ha deciso di darli ai poveri.
– Questo per te amico povero, e questo amico per te. Così ha fatto Marco fino a quando ha avuto una moglie e la moglie ha avuto il figlio.
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⚜ Fine della fiaba ⚜ fabulinis ringrazia la piccola Miriam per aver condiviso con tutti noi questa fiaba, semplice ma molto profonda nel significato.
Il pianeta è ammalato, gli animali del mondo riusciranno a salvarlo?
In questa fiaba breve a sfondo ecologico, tutti gli animali riuniti prendono in mano le sorti del nostro pianeta, e decidono di trovare una “cura” ai danni prodotti dalla troppa plastica che ormai rischia di avvelenare tutti noi.
La grande diga 🌊 storia completa
Un giorno i rappresentanti di tutti gli animali del mondo decisero di riunirsi in una assemblea generale: il pianeta si era ammalato, e la malattia si chiamava “plastica”. Naturalmente la causa della tragedia era la cattiva condotta dell’uomo, storicamente poco attento al rispetto della natura. A sollevare la questione erano stati i pesci, poi gli uccelli marini, poi gli orsi polari, le foche, e in poco tempo tutte le specie capirono che dovevano lottare insieme per la sopravvivenza.
Un capodoglio che aveva ingerito grosse quantità di plastica, prima di morire, arenato in spiaggia, aveva sussurrato ad un gabbiano: “salvate il mondo”. L’uccello, con il cuore spezzato, volò per giorni per diffondere il messaggio del povero cetaceo. Tutti gli animali capirono che era tempo di unire le forze, e dai poli all’equatore ci fu un movimento epocale, alla ricerca di una misura straordinaria.
La plastica era ovunque, in frammenti, in agglomerati, in grosse isole galleggianti, e avanzava, minacciosa, letale. Molte creature trovarono la morte in mezzo alla plastica: alcune mentre la combattevano, altre, ignare, mangiandola, altre ancora intrappolate nei sacchetti: era la fine. Ci fu un grande scompiglio tra gli animali più astuti e intelligenti: i delfini cercarono di insegnare alle altre creature acquatiche a riconoscere il pericolo, gli albatros organizzarono squadre di soccorso e sulla terra, i lupi e le volpi, ormai alleati, pianificarono strategie difensive.
Ma non era sufficiente allearsi e combattere: bisognava estirpare il male. Tutti i rappresentanti, durante l’assemblea generale, avevano proposto una soluzione. Gli animali di grossa taglia avevano pensato di trasportare la plastica in un’isola deserta, ma anche quella era una soluzione temporanea, perché le maree avrebbero sparpagliato di nuovo l’immondizia in ogni luogo. I pesci, rischiando la vita, volevano seppellire la plastica negli abissi, ma anche dal fondo sarebbe emersa, tornado a galla minacciosa.
Gli uccelli volevano impiegare la plastica per fare un enorme nido, ma il pericolo era evidente: i piccoli, una volta schiuse le uova, avrebbero mangiato i frammenti, e avrebbero fatto la stessa fine delle altre vittime. Le povere tartarughe, con il guscio deformato dalle trappole di plastica, avevano proposto di formare una barriera tra la spiaggia e il mare, ma le onde, con il tempo, avrebbero distrutto tutto. Le scimmie, ormai esperte nel riutilizzo dei rifiuti, avevano proposto di costruire delle città in plastica, ma anche in quel caso, molti animali potevano rimanere soffocati o intrappolati nelle strutture: del resto gli animali non sono esperti in opere ingegneristiche.
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L’acqua a piccoli passi
In realtà, come osservò un orso bruno attempato, un animale esperto in ingegneria poteva essere coinvolto: il castoro. I castori non sono animali famosi per la loro astuzia, per cui non si erano pronunciati durante l’assemblea. Timidi, simpatici e impacciati, i castori avevano già combattuto una guerra infinita contro il bracconaggio: infatti la loro pelliccia è molto pregiata.
Tuttavia i castori non si erano mai lasciati abbattere, e continuavano senza sosta a costruire dighe principalmente per due motivi: per proteggere le loro tane costruite sull’acqua e per difendersi dai predatori, grazie ai fossati che si formano dalla stagnazione dell’acqua intorno alle strutture. Gli animali presenti in assemblea proposero di costruire le dighe in plastica non solo per formare una protezione efficiente per le tane che ospitano i castori, ma anche per impiegare tutto quel materiale sparso in ogni angolo della terra.
Il più anziano dei castori, convocato urgentemente in assemblea, abbozzò un progetto: formare una specie di stagno grazie a bottiglie e sacchetti di plastica, poi costruire una rete di canali molto fitta per conservare il cibo da consumare nel periodo invernale e infine articolare le vie di fuga e le varie tane. Per realizzare un progetto così laborioso i castori avrebbero dovuto contare su tutti gli animali: gli elefanti per trasportare tutto il materiale, i pellicani e i cormorani per raccogliere i sacchetti, tutti i roditori per modellare la plastica cercando di non ingerirla, e tanti altri esemplari per coordinare i lavori in tutto il pianeta.
L’assemblea durò per giorni, fino a quando il re, il leone, che fino a quel momento era stato in silenzio, seduto sul trono, malinconico per quanto stava accadendo al regno animale, posò la sua corona e indossò un elmetto da operaio. Ci fu un grande stupore per quell’insolito gesto, ma poi il leone sorrise, e con il cuore pieno di fiducia pose la sua grossa zampa sulla spalla del vecchio castoro e disse: “che tutti gli animali possano salvare il mondo, e che la diga sia l’opera più importante della storia”.
Passarono di lì alcuni uomini, minacciosi, con un fucile in mano: avevano visto tutti quegli animali e volevano portare a casa dei trofei. Uno di loro, però, fece un passo indietro vedendo un leone con l’elmetto da operaio in compagnia di un vecchio castoro, e cercò di capire.
Per un uomo non è facile cogliere tanto amore in un solo gesto, riconoscere l’umiltà di un re che ripone la sua fiducia in un goffo roditore con la coda larga e piatta, notare che gli attriti tra creature diverse possono essere messe da parte per qualcosa di tanto importante come la sopravvivenza.
I suoi compagni alzarono il fucile, e allora il leone si mise davanti al castoro, per fare scudo con il suo corpo. Solo allora gli uomini si fermarono, pronti ad ammirare tanto coraggio. Faceva caldo, tanto caldo. Prima di andare via, tirarono fuori dell’acqua dagli zaini, e una volta dissetati, consegnarono le bottiglie di plastica ai castori.
⚜ Fine della fiaba ⚜ fabulinis ringrazia Rossana Costantino per aver condiviso con tutti noi questa bella fiaba a sfondo ecologico.
La volpe vuole l’uva appesa in alto sul tralcio di vite, ma anche saltando non ci arriva…
La volpe e l’uva è una favola famosissima, che può dare un insegnamento molto importante: non bisogna disprezzare qualcosa solo perché non lo si può ottenere, come fanno le persone che non ammettono di non riuscire in qualcosa.
Capita a tutti di fallire in qualcosa, ma non per questo bisogna svalutare le cose, o peggio le persone, per dei limiti che sono solo nostri. Piuttosto sarebbe meglio impegnarsi di più per raggiungere l’obiettivo, con molta pazienza e umiltà.
Questa favola breve scritta in origine da Esopo è arrivata a noi grazie anche a Fedro e a mille versioni successive, questa è la nostra versione.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della volpe e l’uva!
C’era una volta una volpe che vagava tranquilla per il bosco. Aveva appena bevuto ad un ruscello e si stava avventurando in cerca di cibo verso i campi coltivati, appena fuori dal paesello vicino.
Era già mattina inoltrata, e la fame iniziava a farsi sentire con sonori brontolii provenienti dal pancino. Ad un certo punto, dopo aver camminato per un po’, vide una bella vigna piena di bellissimi grappoli d’uva.
La volpe controllò che non ci fossero pericoli in vista e si avvicinò furtiva ad uno dei grappoli, quello che le sembrava più vicino. Non c’era nessuno nelle vicinanze. Era il momento perfetto per fare un bel salto e prendersi il grappolo d’uva!
La volpe quindi prese la rincorsa e… hop! Fece un balzo cercando di afferrare coi denti il grappolo, ma niente: non ci arrivò. La volpe allora prese un po’ più di rincorsa e hop! Fece un altro balzo, ma anche questo non era abbastanza alto per riuscire ad arrivare al grappolo d’uva. La volpe allora provò a prendere una rincorsa ancora più lunga e hop! Niente, non arrivò a prendere il grappolo d’uva. Intanto il suo pancino brontolava sempre più dalla fame.
La volpe provò e riprovò. Le mancava sempre un soffio per prendere il grappolo d’uva ma non c’era verso, non riusciva ad arrivarci. Stremata dalla fatica e dalla fame, la povera volpe guardò se nella vigna c’erano altri grappoli, magari più bassi, da poter prendere. Ma niente, erano tutti più in alto di quel grappolo che lei aveva cercato con tutte le sue forze di acciuffare.
La volpe diede un ultimo lungo sguardo al bel grappolo d’uva che tanto aveva sognato di mangiare, e per non ammettere di non essere riuscita nella sua impresa, si disse: – Meglio così, tanto di sicuro quel grappolo era ancora acerbo e mangiarlo mi avrebbe solo fatto venire mal di pancia! – anche se sapeva benissimo che non era vero.
Così, sconsolata e ancora più affamata, ritornò con la coda tra le gambe nel suo boschetto. Si mise a caccia di qualcos’altro da mangiare, cercando questa volta di adocchiare qualcosa che avrebbe sicuramente preso.
Morale della favola: è facile e tipico di chi è arrogante disprezzare ciò che non si può avere. Meglio impegnarsi con molta umiltà per ottenerlo o trovare un’altra soluzione.
Non si è mai veramente soli, basta alzare lo sguardo e usare la fantasia
Questo racconto notturno perfetto come fiaba della buonanotte, parla di un bimbo che guarda la luna fuori dalla finestra e inizia ad osservarla e parlare insieme a lei raccontandole una favola.
fabulinis ringrazia Armando e Paola (la maestra Paola) Goldin per aver condiviso con noi questo racconto, che speriamo vi piaccia tanto quanto è piaciuto a noi!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba del bambino che parlava con la luna:
Il bambino che parlava con la Luna 🌙 storia completa
In una città qualunque, in un palazzo qualunque, viveva un bambino che si sentiva solo perché non aveva fratelli e nel suo palazzo non vi erano bambini che lui conoscesse con cui giocare. Così, una sera in cui si sentiva più solo del solito si mise a guardare fuori dalla finestra della sua camera e tutto ad un tratto fu attratto da una luce: quella della luna! Una falce di luna!
Incuriosito cominciò a fissarla e la luna gli tenne compagnia con la sua aura argentata. Ad un certo punto un bruco fece capolino sulla luna e, strisciando, si acciambellò su se stesso formando un occhio (sembrava che la luna avesse un occhio solo) e tutto ciò fece sorridere il bambino.
Il giorno dopo e nei giorni successivi il bambino si mise sempre a guardare la luna dalla finestra e, a mano a mano che lei cresceva, sembrava quasi che venisse fuori un viso perché, ad un certo punto, invece che un bruco, se ne presentarono due che appallottolati diventarono due occhi e, poco dopo arrivò un terzo bruco che si mise per lungo formando una specie di sorriso nella luna e questo confortava il bambino che iniziava a sentirsi meno solo e, per ringraziare la grande luna, una sera decise di raccontarle una storia.
“Questa è la storia del treno dei desideri” iniziò il piccolo. “È un treno che fa un lungo viaggio e ogni paese che lui attraversa ha un nome speciale: felicita’, amicizia, amore, rispetto, condivisione, gioia… Ad ogni stazione si può esaudire un desiderio. Il capotreno quando il treno si ferma, consegna ai viaggiatori una busta contenente un desiderio, così, alla fine del viaggio, anziché essere triste sei felice perché ricco di desideri esauditi!” “Sarebbe bello” disse il bambino sospirando “ che esistesse davvero un treno del genere”.
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Luna. Ediz. a colori
La luna , a quel punto, chiese al bambino quale fosse il suo più grande desiderio “Non essere mai più solo” rispose il piccolo e lei lo invitò a guardarsi intorno e… lui vide le luci delle camere da letto degli altri palazzi tutte accese e tanti bambini e bambine che lo salutavano .
Anche la luna ringraziò il bambino: “mi sentivo tanto sola anche io, non avevo le stelle vicino ed ero sempre triste; poi sei arrivato tu e mi hai fatto tornare il sorriso!” Infatti i tre bruchi altro non erano che il risultato della fantasia del bambino! Lui aveva desiderato di poter parlare con la luna e il capotreno lo aveva sentito provvedendo ad esaurire i suoi desideri
La sera dopo la luna sorrideva:anche lei era felice perché il cielo era pieno di stelle e da allora non si sentì mai più sola e il bambino trovò tantissimi amici lungo il suo cammino e, diventato grande, diventò il capotreno più gentile al mondo.
⚜ Fine della fiaba ⚜ Ringraziamo Armando e Paola (la maestra Paola) Goldin per aver condiviso con noi questa tenera fiaba.
A volte nelle uova di Pasqua c’è una sorpresa inaspettata!
Bastano dei piccoli e semplici gesti di condivisione per far felici i bambini, magari solo un po’ più sfortunati degli altri.
L’Uovo di gallina di Pasqua 🐔
C’era un uovo che era stato lasciato dalla gallina in una zona appartata del fienile. Lo aveva lasciato lì di proposito perché era straordinariamente grande, diverso dagli altri. E sapeva che, come tutte le cose diverse doveva essere isolato, non far parte del gruppo.
Questo è quello che pensava la gallina. Non era poi successo così anche alla sua amica anatra? Non aveva uno degli anatroccoli, il più brutto, che aveva lasciato di proposito mamma e fratelli perchè lo insultavano sempre? Era troppo grosso e diverso. Proprio come il suo uovo!
E l’odiosa e dispettosa gatta, non aveva messo da parte un piccolo gattino perchè il suo istinto lo credeva malato? E la coniglietta, che dopo aver partorito è stata con loro solo due minuti per allattarli. Eh sì, lei dice che lo ha fatto per proteggere i piccoli, così la tana resta segreta. Ma a chi la vuole dare a bere? E l’odiosa aquila, che ogni tanto arriva dalle montagne sorvolando sopra le loro teste facendole scappare tutte. A volte però riusciva ad afferrare al volo qualche animale e lo portava via con gli artigli: si dice che lasci che i figli si azzuffino tra di loro senza intervenire. Poverini!
Insomma, avrebbe potuto raccontarne tante altre di storie che aveva visto in prima persona in cascina, quindi anche lei doveva fare qualcosa. E lo fece, aveva contribuito mettendo da parte il suo uovo diverso. Ma era in fin dei conti una buona mamma, quindi lo depose nella paglia, al morbido, in una zona più fresca, in alto, in modo che altri animali non se ne cibassero. Di più non poteva fare, affidava tutto al destino. Il suo compito era finito.
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Caccia alle uova di Pasqua. Poppy e Sam.
Sta di fatto che quel giorno fosse Pasqua e, nel pomeriggio, tutti i bimbi del vicinato chiesero al padrone della cascina se potevano fare una festa nel fienile, portando tutte le uova ricevute in dono e giocando con le varie sorprese contenute. L’uomo acconsentì, ben sapendo che gli avrebbero lasciato tutte le carte e la paglia sparpagliata qua e là. Figuriamoci se non avessero giocato a buttarsela addosso. Ma In fin dei conti era Pasqua!
Al pomeriggio ecco che un frotta di bimbi arrivarono, chi con uno chi con due o più uova. Sarebbe stata una grande festa! Il figlio del contadino non potette partecipare perché era povero, non aveva ricevuto nemmeno un uovo. Che figura avrebbe fatto ad entrare? Da mendicante, e lui non voleva questo. Stette in disparte a sbirciare e vide tirar fuori dalle uova tanti giochi. Ma lui avrebbe preferito prima mangiarsi un uovo di cioccolata intero, poi i giochi.
I ragazzi, una volta finito con le uova fecero quello che il padrone aveva pensato: giocare con la paglia. Ma mentre fecero questo chi trovarono? Il nostro grande uovo di gallina! Meravigliati dalla grossezza lo esaminarono tutti e a uno di loro, il più giudizioso, venne in mente che il figlio del contadino non era con loro, e sapevano che era molto orgoglioso per accettare di condividere con lui le uova di cioccolato ma…
In cerchio, perché lui non vedesse (lo avevano intravisto che sbirciava), presero dolcemente l’uovo di gallina, lo pulirono bene, e, con i pezzetti di cioccolato avanzati fecero un mosaico attorno al guscio: diventò così un bellissimo uovo di cioccolato variopinto. Cioccolato nero fondente, al latte, bianco, alla nocciola. Lo avvolsero nella carta più bella che avevano e lo chiamarono. Entrato gli diedero il suo uovo, visto che la gallina era sua. Non poteva così rifiutarlo!
Lo apri delicatamente, e, meraviglia, anche lui aveva il suo Uovo di Pasqua, molto particolare e dentro c’era un pulcino. Che bellissimo regalo. Ma la sorpresa maggiore fu capire che aveva tanti amici e non lo immaginava.
Adesso anche lui e il suo pulcino potevano unirsi con loro a giocare. Che bella Pasqua!
Ciao sono Lulù, sono una nonna con molteplici passioni fra cui quella di attingere da esperienze quotidiane spunti per scrivere una fiaba o una filastrocca. Sono appassionata di tutto ciò che è bello. Non mi pongo obiettivi ma mi piacerebbe un giorno riuscire a pubblicare un libretto con i miei racconti. 😊
Essere troppo vanitosi può portare molto presto alla solitudine, così Funghetto ha deciso di cambiare…
C’è un bosco incantato dove vive un Funghetto molto vanitoso, ma nessuno dei suoi amici ormai lo sopporta più… per fortuna Funghetto si accorge che la sua vanità non lo rende migliore, anzi…
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba del funghetto vanitoso:
Il Funghetto vanitoso 🍄 storia completa
C’era laggiù, lontano nel bosco di Biù un Funghetto piccino e grazioso, col gambo bianco, il cappello marrone un po’ spiovente e la punta più chiara come se fosse stato intinto nel latte. Funghetto però non era molto contento, poiché era talmente piccino da non essere mai notato dalle Fatine della Rugiada.
Anche lui avrebbe voluto avere il cappello adornato di perline luccicanti, come gli altri suoi compagni, loro erano più alti o avevano cappelli più grandi e colorati, e le fatine accorrevano leste leste a fare le loro meraviglie.
Un giorno Funghetto brontolò cosi tanto ma cosi tanto che la regina delle fate andò da lui e gli chiese cosa c’era che lo rendeva cosi scontento. Funghetto le raccontò tutto, alla fine la regina tacque e rimase in silenzio. Poi chiese a Funghetto se sarebbe stato disposto a cambiare per riuscire ad essere notato dalle Fatine della rugiada, subito questo rispose che si, era prontissimo!
E balibbalò, tira un po’ qui, alza un po’ lì, in una nuvola di brillante polvere magica il piccolo funghetto era divenuto un bel fungo alto, dal cappello rosso sgargiante, puntinato di macchioline bianche, lucido come le mele al sole! Funghetto era talmente contento che non vedeva l’ora fosse il mattino seguente per avere le sue goccioline di rugiada.
Al sorgere del sole infatti, quando le fatine giunsero videro subito quel magnifico fungo rosso e accorsero, adornandolo con una miriade di piccole gocce risplendenti, dorate alla luce dell’aurora.
Funghetto si vedeva talmente bello che si pavoneggiava con tutti, mostrando a chiunque passasse di lì quanto fosse brillante il Suo colore, quanto fosse candido il gambo, oppure quanto perfette e lisce le lamelle sotto al cappello. S’era gonfiato talmente tanto che… si era gonfiato veramente!
Era diventato Cicciotto e ingombrante. Insomma tutti quelli che passavano di lì non ne poterono più, così cominciarono a cambiare strada: le sue amiche formichine che tutti i giorni in fila indiana gli passavano accanto si spostarono, anche le coccinelle, che si posavano sugli steli d’erba vicino per scambiare due chiacchiere non tornarono più, e cosi tutti gli altri.
Funghetto era rimasto solo. Nessuno parlava più con lui perché aveva dimenticato quando un tempo chiacchierava con loro solo per il piacere di farlo, scambiandosi gentilezze e chiedendo anche solo semplicemente come andava la giornata.
Funghetto si disse che la sua vita di prima, in fondo in fondo non era poi così male, aveva avuto così tanti amici… che ora senza di loro si sentiva terribilmente solo.
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L’astuccio del signor Biù, di Isabella Sanfilippo
Ma si vergognava a chiamare la regina e chiederle aiuto una seconda volta, quindi stette zitto in silenzio, cercando di farsi più piccolo e invisibile possibile, anche se sapeva che c’era ben poco da fare: ormai era talmente paffuto e gonfio che era impossibile non notarlo. – Ah! Quanto mi manca essere un piccolo funghetto, dal cappelluccio spiovente e dalla punta color latte… – pensò.
Un giorno passò di li un’ape e si soffermò accanto a Funghetto per pulirsi le antenne. Funghetto avrebbe voluto fare quattro chiacchiere ma non ne aveva più il coraggio, sicché l’ape visto che non parlava gli chiese perché fosse così silenzioso: – Sei forse timido?
L’altro non rispose, ma quella era un’ape curiosa come se ne vedono in giro di solito e quindi non si arrese: come poteva lui, un bel fungo rigoglioso essere tanto modesto.
– Sei forse troppo bello per rispondere? Alla fine Funghetto capitolò e spiegò a gran singhiozzi il perché fosse così taciturno … e non certo perché era troppo bello! E ad ogni singhiozzo si faceva sempre più grassoccio, sempre giù tondo… – Hic! Hic!
A quelle parole, vedendo il funghetto singhiozzare e rattristarsi come non mai, l’ape venne circondata da una nuvola di mille colori. Quando la nube si dissipò ecco che al posto dell’ape c’era la bellissima Regina delle fate.
Funghetto rimase sbalordito, non si era proprio reso conto che era sempre stata lei fin dall‘inizio. Si fece coraggio e con la sua vocina chiese scusa alla regina; le disse che non pensava gli sarebbe mancato così tanto essere quel piccolo funghetto marrone dal gambo bianco, e che forse, la rugiada come ornamento era davvero cosa di poco conio.
La regina rispose che lo aveva accontentato solo per mostrargli quanto fosse preso dal rendersi bello davanti a tutti, a tal punto che si era scordato degli amici. Non avevano bisogno di vederlo impreziosito da alcun gioiello, per loro lui era bello e interessante al medesimo modo, forse anche di più!
– Le mie amiche formichine e le mie amiche coccinelle! – sospirò il Funghetto. La Regina delle fate si intenerì, capì che Funghetto aveva imparato la lezione e quindi… Balibbalo’, tira un po’ qui, tira un po’ lì, ecco che funghetto ritornò come prima!
Non esistono parole per descrivere quanto fosse felice, aveva ancora il suo corto gambo bianco e la punta del cappellino color latte. Promise che mai e poi mai avrebbe più voluto essere ciò che non era.
Tutti i suoi amici ritornarono, risero e scherzarono ancora insieme, circondandolo di abbracci e affetto, e poté quasi toccare il cielo da tanto era felice.
Ma aspettate un po’… a toccare il cielo dalla felicità… Funghetto, più alto di un pollice si ritroverà. Ogni Fatina Rugiada orbene lo vedrà e di goccine luccicanti Funghetto si rivestita.
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore l’amica Isabella Sanfilippo per aver condiviso qui con noi la sua bella fiaba.
Perchè passare del tempo a litigare quando ci si può aiutare tutti quanti a vicenda?
L’insegnamento che ci vuole dare La bacca dell’eternità, scritta dal piccolo Marco, è molto chiaro: perdere tempo a litigare è assolutamente inutile, molto meglio parlarsi, fare pace e aiutarsi a vicenda.
Noi di fabulinis ringraziamo Marco e la sua mamma Luciana che hanno voluto condividere questa bellissima fiaba.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba della bacca dell’eternità:
La bacca dell’eternità 🌱 storia completa
Tanto tempo fa, nella parte più fitta dei boschi dell’appennino Tosco-Emiliano, vivevano maghi, streghe, folletti e troll. Questi purtroppo, vivevano sempre in lotta perché ognuno di loro voleva per sé l’unica bacca della grande quercia, che avrebbe dato la vita eterna a chiunque l’avesse mangiata in una notte di luna piena.
I maghi, che erano bravi e amavano la natura e tutti gli esseri viventi, erano aiutati dagli elfi e dai folletti. Mentre le streghe, cattive, egoiste e che pensavano solo a sé stesse, erano aiutate dai trolls che le amavano perdutamente.
In una notte di luna piena, durante una delle battaglie che si svolgevano a colpi di bacchette magiche, spade, pugni e tranelli, scoppiò un terribile temporale, come non se ne vedeva da molto tempo. Tuoni, fulmini, lampi e grandine, non si capiva più niente, il vento spazzava via ogni cosa, sembrava che la natura si fosse definitivamente stancata di quelle inutili battaglie. Poi, un fulmine colpì la grande quercia, che prese fuoco e bruciò insieme alla sua bacca della vita eterna.
Tutti, maghi, streghe, folletti e troll si fermarono, finalmente capirono che non esisteva la vita eterna, ma che tutto ha una fine. Da allora vissero in pace, aiutandosi a vicenda.
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore il piccolo Marco, che ha scritto la fiaba, e la sua mamma Luciana per averla condivisa con noi.
Lola è triste ma la sua nuova amica Margherita sa come fare per farla tornare felice!
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🔊 Ascolta qui l’audiofiaba della storia del signor tempo:
Lola e Margherita 🌼
C’era un sole meraviglioso e caldo quella mattina, si sentivano voci di bambini e mamme allegre. Margherita uscì nel bosco. Dovete sapere che Margherita era un fiore speciale. Non era una una normale margherita con i petali bianchi, i suoi petali erano tutti colorati ed erano magici. La sua mamma le aveva infatti appena confidato che dai suoi petali Margherita poteva sprigionare una polvere magica per attirare l’attenzione dei bambini che incontrava e, parlando con loro, avrebbe potuto rallegrarli se erano tristi. Margherita non vedeva l’ora di provare!
C’era tranquillità nell’aria, una tranquillità che contagiò anche Margherita fino a che, però, vide una bimba un po’ triste che camminava. Aveva una bella maglia verde, pantaloni rosa, uno zaino tutto colorato e un paio d’occhiali verdi proprio come la sua maglietta. Margherita continuando ad osservarla pensò, tra sé e sé, che magari quella bambina così carina era un po’ triste perchè non aveva molta voglia di andare a scuola. Così decise che avrebbe aspettato prima di parlare con lei.
Passarono un po’ di giorni ed ecco che si ritrovò la stessa bimba davanti agli occhi ed era ancora triste. Margherita pensò alle parole che le aveva detto la sua mamma e decise di far uscire la polverina magica. Incrociò subito lo sguardo della bimba. Lei incuriosita cercò di capire da dove venissero tutti quei puntini luminosi. Si guardò intorno e vide questo fiore bellissimo, tutto colorato, un po’ come i suoi vestiti. Decise di avvicinarsi per toccarlo e così “MAGIA!” il fiore iniziò a parlare.”Buongiorno bambina io mi chiamo Margherita e tu?”
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Fiori! di Hervé Tullet
“Ciao io sono Lola” rispose la bambina che non credeva ai suoi occhi “Si lo so i fiori non parlano! Posso farti una domanda? Perchè la mattina vai a scuola sempre triste?” “Odio i miei occhiali! Le altre bambine sono così belle senza!” Margherita si avvicinò a Lola e l’abbracciò forte, poi disse “Secondo me i tuoi occhiali sono molto belli! Me li presti?”
Lola era un po’ preoccupata, la mamma le diceva sempre che non erano un giocattolo. “Dai prestameli solo per un pochino , voglio vedere come ci si vede!” disse Margherita. A quel punto la bambina glieli porse e Margherita se li infilò. In quello stesso istante Lola iniziò a sentirsi strana: tutto ciò che la circondava era diventato appannato, i colori erano sbiaditi e, nonostante fosse tanto vicino a lei, non riusciva a vedere bene neanche Margherita. La piccola scoppiò a piangere.
“Non posso stare senza i miei occhiali, non riuscirei nemmeno a giocare, a correre, restituiscimeli subito per favore” implorò Lola singhiozzando. Margherita le restituì gli occhiali e cercò di spiegarle che c’erano dei bambini, proprio come lei, che avevano bisogno di quelle due piccole lenti per vedere meglio. “Non devi sentirti diversa o più brutta! Sei bellissima comunque!”
Lola asciugò le lacrime e riprese i suoi occhiali, se li mise e tutto tornò chiaro, bello com’era sempre. “Ora possiamo anche giocare: riesco a vedere anche te!” Tutte e due scoppiarono in una grande risata e trascorsero insieme tutto il pomeriggio, giocando e divertendosi.
Lola, da quel giorno capì, grazie a Margherita, che i suoi occhiali non la rendevano diversa, anzi! Grazie a loro, lei riusciva a fare tutto quello che facevano le altre bambine! Finalmente non era più triste! La nostra Margherita era contentissima di aver aiutato Lola grazie alla sua magia e si incamminò in cerca di qualche altro bambino da rendere felice.
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore l’amica Ilaria Pasquali per aver condiviso qui la sua fiaba.
E’ nato un nuovo fratellino, e Matteo è un po’ triste…
Questo breve racconto è un valido aiuto per i genitori quando arriva un nuovo bimbo in famiglia e il fratellino più grande ha delle difficoltà con quello più piccolo.
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba della storia del signor tempo:
Matteo e il fratellino dispettoso 😜
Era un giorno di festa e nel bosco pioveva. Margherita si sentiva un po’ triste perché era sicura che nessun bambino sarebbe passato di lì. Margherita era un fiore, proprio una margherita, ma era speciale: non aveva i soliti petali bianchi, i suoi erano tutti colorati, ma soprattutto erano magici. Grazie a loro, Margherita poteva sprigionare una polvere magica per attirare l’attenzione dei bambini che incontrava e, parlando con loro, avrebbe potuto rallegrarli se erano tristi. Ma se non ne incontrava nessuno, non poteva farlo, ed era per questo che la pioggia di quel giorno la rattristava.
Ad un tratto però smise di piovere e, come per magia, spuntò un grande e bellissimo arcobaleno. Dopo poco iniziò a vedere i primi bambini arrivare felici con le biciclette, con il pallone in mano, pronti al divertimento! Da lontano sentì un bambino piangere, ma non riusciva a capire dove fosse. Curiosando in giro si accorse che il pianto veniva da un bimbo piccolissimo dentro un passeggino. Pensò che questa volta sarebbe stato faticoso ridonargli il sorriso: piangeva disperato!
Si soffermò anche sul bambino un po’ più grande che gli era accanto e vide che anche lui era molto triste. Allora decise di sprigionare la polverina magica e cercare di capire cosa poteva renderli così desolati. In fondo era una giornata bellissima!
Il bambino grande fissava, incantato, lo spettacolo di colori creato da Margherita e rimase senza parole quando si sentì chiamare “Bambino sono qui, abbassa la testa.” “Ciao mi chiamo Margherita e tu, credo di aver capito, Matteo vero?” “Sì” “Vuoi giocare un po’ con me?” Il bimbo, con la faccia un po’ triste ma ora anche meravigliata, le spiegò che non poteva perché il suo fratellino piccolo stava piangendo e lui con la sua famiglia sarebbero dovuti tornare a casa. Margherita prese coraggio e chiese a Matteo il motivo della sua tristezza.
“Il mio fratellino piccolo piange sempre e la mamma deve stare sempre con lui, così non possiamo stare mai insieme”. “E che vorresti fare?” chiese Margherita curiosa della risposta. “Venderlo” rispose serio Matteo. Il fiore scoppiò in una grande risata e spiegò a Matteo che i bambini non potevano essere venduti… “Ma ti prometto che ti aiuterò a volergli bene” disse fiduciosa Margherita.
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Inventario illustrato dei fiori
Matteo si mise a raccontare delle cose strane che faceva il suo fratellino: le pernacchie nella minestra quando non voleva più mangiare, oppure il bagnetto e l’acqua che finiva ovunque perché a Valerio non piaceva proprio lavarsi e poi di quella volta in cui la mamma gli stava cambiando il pannolino e lui le aveva fatto la pipì addosso. Margherita si accorse subito che mentre Matteo raccontava queste storie bizzarre rideva e allora gli disse “Io lo trovo divertente tutto questo, tu no?”
Matteo disse “Lui è un bambino simpatico mi fa ridere, ma la mamma, il papà e anche la nonna che prima giocavano sempre con me ora… ecco ora se la mamma mi sta raccontando una fiaba e Valerio inizia a piangere lei deve scappare da lui ed io rimango solo”. Margherita colpita da quelle parole suggerì a Matteo di chiudere gli occhi per un solo istante e di provare a pensare a come sarebbe stato se non ci fosse stato il suo fratellino. E poi di pensare a tutte le cose che potevano fare insieme quando Valerio sarebbe diventato un po’ più grande.
“Potrebbe essere bello giocare insieme a lui e fare castelli di sabbia al mare. Lui mi fa divertire molto. Io gli voglio bene. Però nessuno ha più tempo per me.” Disse Matteo un po’ preoccupato. Margherita guardò il bimbo e gli disse: “La prossima volta che succede che Valerio piange e la mamma corre da lui ricordati di ciò che ti ho detto: voi da grandi sarete due fratelli fantastici e vi divertirete tantissimo. Poi mentre Valerio dorme tu cerca di stare con la mamma, o di giocare con papà, vedrai anche loro saranno felicissimi. La mamma e il papà hanno tempo per tutti e due bisogna solo organizzarsi, sono sicura che anche tu manchi a loro”
Così il bimbo prese i suoi giochi e corse verso casa felice, in fin dei conti aveva ragione Margherita: Valerio sarebbe diventato un fantastico compagno di marachelle. Margherita guardò Matteo allontanarsi: era molto contenta di aver reso felice un altro bambino e non vedeva l’ora di aiutarne tanti altri!
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore l’amica Ilaria Pasquali per aver condiviso qui la sua fiaba.
Ai bambini piace ritrovare le cose a cui sono tanto affezionati, ma se c’è tanto disordine e non si riesce a trovarle, come si fa?
Robertina è una bimba molto disordinata, ma Margherita che è un piccolo fiore le farà ritrovare l’allegria, aiutandola un po’ anche a crescere.
Questo racconto può dare una mano alle mamme e i papà che devono lottare quotidianamente con il disordine che i loro cuccioli lasciano costantemente in giro per casa.
Guarda la videofiaba raccontata da Cristina
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba di Robertina:
Robertina e il suo disordine 😵 storia completa
“Tutte le mattine la stessa storia, Robertina: la tua cameretta è sempre in disordine, oggetti sparsi in ogni posto, vestiti buttati sulla sedia, per non parlare poi dei tuoi giocattoli. Se quando torni non metti tutto in ordine puoi dimenticarti il tuo pomeriggio con Clara.” Questa era la storia che tutte le mattine la bimba, un po’ disordinata, ascoltava. Ogni volta pensava che la sua mamma aveva davvero ragione perché la sua camera era un disastro, ma mettere in ordine era veramente noioso per lei.
Quella mattina Margherita era un po’ assonnata. Dovete sapere che Margherita era un fiore speciale. Non era una una normale margherita con i petali bianchi, i suoi petali erano tutti colorati ed erano magici: potevano sprigionare una polvere magica per attirare l’attenzione dei bambini che incontrava e, parlando con loro, avrebbe potuto rallegrarli se erano tristi.
Quella notte l’aveva passata a cercare di cambiare i colori della sua polverina magica, ma non era convinta del risultato. “Devo assolutamente provarla” pensò e proprio in quel momento notò Robertina che stava camminando tutta pensierosa. Appena la bimba fu sufficientemente vicina sprigionò la polverina e come sempre il risultato fu quello desiderato. La bimba notò subito la nuvola di brillantini e a differenza di tanti altri bambini che all’inizio rimanevano sempre un po’ impauriti, ci si buttò dentro esclamando: “Che meraviglia, non avevo mai visto una cosa del genere”. Margherita rimase in disparte a godersi lo spettacolo poi esclamò: “Ciao bambina io sono Margherita tu come ti chiami?”
“Sei tu che hai fatto questa nuvola di brillantini?”.”Sì, ti piace??” “Tantissimo!! Io mi chiamo Robertina!”. Il fiore ringraziò e poi chiese subito a Robertina come mai fosse pensierosa. La bimba si mise seduta e raccontò tutta la storia del suo disordine in camera, del fatto che la mamma si arrabbiava, e che da giorni in quel disordine non riusciva a trovare la sua bacchetta magica.
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Che disordine Andrea!
Allora Margherita disse: “Beh cosa aspetti a mettere in ordine tutte le tue cose? Sono sicura che una volta messo in ordine che verrà fuori anche la tua bacchetta magica.” “Hai ragione, ma è così noioso mettere in ordine!” disse la bambina.
“Mia mamma dice sempre che la musica aiuta quando devi fare qualcosa che non ti va! Chiedi alla tua mamma se ti accende la radio e poi fammi sapere se funziona!” Robertina allora si avviò verso casa.
Una volta arrivata fece come aveva detto Margherita! Iniziò a mettere subito in ordine magliette, scarpe, giochi, peluche, con tanta musica a farle compagnia, ma della sua bacchetta magica nemmeno l’ombra. La mamma entrata in camera rimase a bocca aperta: “Tesoro cosa ti è successo? Hai sistemato tutto!”. Robertina raccontò alla mamma che aveva messo in ordine per trovare la sua bacchetta magica da portare a casa di Clara il giorno dopo, ma non la trovava.
“Ti aiuto io a cercarla. Sei stata davvero brava a sistemare!!” e così tutte e due si misero alla ricerca, ma niente. Robertina si stava arrendendo quando sentì la mamma urlare dalla cucina: “Piccola: l’ho trovata, era nella lavastoviglie!!!!!!!!!!!!!”. “Oh mamma grazie!!! Sono così felice..” e poi aggiunse “…ma secondo te come è arrivata nella lavastoviglie?” “Potere del tuo disordine” rispose la mamma sorridendo e abbracciando felice Robertina. Anche lei era tornata a sorridere.
Il giorno dopo Robertina andò, insieme alla sua bacchetta magica, a giocare dalla sua amica Clara. Fu un pomeriggio indimenticabile per le due bambine e anche per Margherita che le guardava da lontano: aveva il cuore pieno di gioia per aver aiutato Robertina e non vedeva l’ora di ridonare il sorriso anche a qualche altro bambino.
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore l’amica Ilaria Pasquali per aver condiviso la sua fiaba.
Condividere le cose tra bambini spesso è difficile, ma questo racconto li aiuterà.
In questa fiaba troviamo un bello spunto per aiutare i bambini a imparare a condividere i giocattoli e quindi le esperienze con gli amici.
Tutti i genitori sanno che prima o poi il piccolo imparerà a farlo, ma se lo (e ci) aiutiamo con un piccolo racconto, forse diventa un po’ più facile affrontare questo argomento, a volte così delicato.
Guarda la videofiaba raccontata da Cristina
🔊 Ascolta qui l’audiofiaba della storia del signor tempo:
Riccardino impara a condividere 🎁
Quella mattina splendeva un sole fantastico e Margherita decise di fare una passeggiata in tranquillità: a quell’ora tutti i bambini erano a scuola. Dovete sapere che Margherita era un fiore speciale. Era sì una margherita ma i suoi petali erano tutti colorati e, soprattutto, erano magici. Potevano infatti sprigionare una polvere speciale che attirava l’attenzione dei bambini che incontrava. A quel punto lei, parlando con loro, avrebbe potuto rallegrarli se erano tristi. E Margherita era sempre entusiasta di ridare il sorriso a un bimbo!
Il nostro fiore iniziò a camminare e notò subito che dagli alberi cominciavano a cadere le foglie, l’autunno era alle porte. In lontananza sentì le voci di un bimbo e di una mamma che sembravano discutere. “Riccardo, devi imparare a condividere i tuoi giocattoli con gli amici altrimenti nessuno vorrà giocare più con te”. Margherita guardò la scena da lontano, ma riuscì a vedere benissimo la faccia di quel bimbo che a dire la verità era proprio triste e pensieroso.
Il mattino seguente Margherita guardò attentamente tutti i bimbi che passavano fino a che notò il bimbo del giorno prima che camminava con un orsetto di peluche. Così si avvicinò piano piano e sprigionò la polverina magica dai suoi petali colorati, ma, a differenza di tutte le altre volte, questo bimbo si spaventò: “Ma che cos’è questa cosa??” e camminò più velocemente per allontanarsi dalla polverina. Margherita non poteva credere ai suoi occhi, in genere i bambini si facevano conquistare, questa volta no!
Il mattino seguente Riccardino ripassò di li sempre un po’ triste. “Devo farmi venire in mente un’idea!” pensò Margherita e così più il bambino andava verso la sua direzione più lei si afflosciava. Ad un certo punto il bimbo si piegò verso il fiore e disse “Che strano! Le margherite hanno i petali bianchi, perché questa è così colorata??”. Proprio in quell’istante Margherita parlò: “Ciao” Il bimbo indietreggiò spaventato: “I fiori non parlano, devi essere un mostro!”
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Anna mette in ordine. Ediz. illustrata
“Ma quale mostro, vieni qui e parliamo un po’”. Il bimbo si lasciò convincere e si sedette vicino al fiore, che gli chiese subito il motivo della sua tristezza. Riccardo prese coraggio e raccontò allo strano fiore che lui quella mattina a scuola avrebbe voluto giocare con i suoi compagni, ma loro volevano il suo peluche. Lui ci teneva troppo e non voleva prestarlo a nessuno.
“Qualche giorno fa è stato il mio compleanno e i miei genitori mi hanno regalato questo morbido orsetto di stoffa! A me piace portarlo a scuola, ma non voglio prestarlo a nessuno! Ho paura che si possa rompere… e così finisce sempre che gioco da solo.” “Ma a te piace più giocare con i tuoi amici o solo?” “Con loro ma non voglio prestare a nessuno il mio gioco” rispose Riccardino.
Margherita allora disse: “Mmmmm… Provo a darti un piccolo consiglio: domani porta a scuola il tuo orsacchiotto, quando i bimbi si avvicineranno per giocare chiedendoti il peluche tu glielo darai dicendo però di fare attenzione a non romperlo”. Riccardo, un po’ incerto, guardò il bel fiore e promise di fare come gli aveva consigliato.
La mattina seguente Riccardo, come sempre, prese il suo orsacchiotto e andò a scuola. Arrivò, lo tirò fuori dallo zaino e subito il suo migliore amico Lorenzo si avvicinò dicendo: “Ehi Riccardo facciamo a scambio di giochi?”
Riccardo ricordando la promessa fatta a Margherita rispose: “Sì, ma per favore fai attenzione a non romperlo perché ci tengo molto”. Lorenzo trattò molto bene l’orsacchiotto di Riccardo, il quale capì di aver fatto bene a seguire il consiglio di Margherita.
Fu così che Lorenzo e Riccardo finirono per passare tutta la mattinata a giocare insieme. Margherita li guardava da lontano, felicissima di aver aiutato un altro bambino.
⚜️ Fine della fiaba ⚜️ fabulinis ringrazia di cuore l’amica Ilaria Pasquali per aver condiviso qui la sua fiaba.
I musicanti di Brema voglio entrare a far parte della banda cittadina, ma sul loro cammino incontreranno una banda di briganti!
I musicanti di Brema è una fiaba dei fratelli Grimm, famosa per l’allegra combriccola (un asino, un cane, un gatto ed un gallo) che vogliono andare fino a Brema per scappare al loro triste destino di animali senza più valore per ii loro padroni.
Ma anche se vecchi ed acciaccati, con l’ingegno e l’astuzia riusciranno a mettere nel sacco anche i briganti!
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare dei musicanti di Brema!
Giornata stancante? Vai di fretta? Abbiamo preparato anche la versione breve dei musicanti di Brema!
I musicanti di Brema 🐎🐕🐈🐓 racconto completo
C’era una volta un vecchio asino che ormai faceva fatica ad alzarsi, camminare e trasportare i sacchi di farina che il suo padrone gli caricava sulla schiena ogni giorno.
– Ormai sei diventato inutile! – disse l’uomo – Domani ti porterò al macello!
Il povero asino pensò tra sè e sè: “che razza di ingrato, dopo tutto il lavoro che ho fatto per te…” Così gli venne un’idea: non appena il padrone si allontanò, scappò via dalla stalla e si incamminò verso la vicina città di Brema, in cerca di fortuna.
Mentre camminava l’asino pensava a cosa avrebbe fatto una volta arrivato a Brema, e decise che sarebbe entrato a far parte della banda cittadina. Lungo la strada l’asino incontrò un cane accucciato, che si lamentava borbottando.
– Cos’hai da lamentarti, cane? – chiese l’asino. – Son vecchio e malandato, così non riesco più ad andare a caccia col mio padrone. Ha pure cercato di accopparmi ma io sono scappato… solo che adesso non so cosa fare…
– Allegro, vecchio mio! Vieni con me a Brema, entreremo nella banda cittadina e vivremo bene! – disse l’asino. Il cane, trovando l’idea interessante, decise di seguirlo.
Proseguendo per la strada, i due incontrarono un gatto sdraiato per terra, che si lamentava borbottando.
– Cos’hai da lamentarti, gatto? – chiese l’asino. – Son vecchio e malandato, poi oggi ho graffiato il sofà della mia padrona, e lei ha cercato di tirarmi il collo, quindi sono scappato… solo che adesso non so cosa fare…
– Allegro, vecchio mio! Vieni con noi a Brema, entreremo nella banda cittadina e vivremo bene! – disse l’asino. Il gatto, trovando l’idea interessante, decise di seguirli.
Poco dopo si trovarono tutti nei pressi di una fattoria, dove incontrarono un gallo che, appollaiato sopra la staccionata, si lamentava cantando a squarciagola.
– Cos’hai da lamentarti, gallo? – chiese l’asino.
– Son vecchio e malandato, poi domani arriveranno ospiti e la mia padrona ha deciso di cucinarmi in brodo, quindi sono scappato… solo che adesso non so cosa fare…
– Allegro, vecchio mio! Vieni con noi a Brema, entreremo nella banda cittadina e vivremo bene! – disse l’asino. Il gallo, trovando l’idea interessante, decise di seguirli.
Ma Brema era lontana e iniziava a fare buio. La compagnia era ormai stanca e affamata e voleva fermarsi a dormire sotto gli alberi del bosco.
L’asino, scrutando in mezzo agli alberi, vide una casetta con una luce accesa e propose di andare a vedere. Tutti lo seguirono.
Avvicinandosi piano, sbirciarono da una delle finestre, e videro che dentro c’era una banda di briganti seduti attorno ad una tavola riccamente imbandita. Vedendo tutto quel cibo, ai quattro gli si strinse lo stomaco dalla fame. – Quanto vorrei anch’io poter mangiare tutto quel ben di Dio… – disse il cane. – Quella tavola imbandita farebbe proprio al caso nostro – continuò il gatto. – Già, ma come facciamo a prendere quel cibo? – continuò il gallo. – Forse mi è venuta un’idea… – concluse l’asino, che si mise a spiegare sottovoce il suo piano.
Dopo che furono tutti d’accordo, l’asino puntò le zampe anteriori sul davanzale della finestra, sul suo dorso salì il cane, sulla groppa del cane salì il gatto e sulla schiena del gatto salì il gallo.
Al segnale dell’asino iniziarono tutti a far rumore a più non posso: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava a squarciagola.
L’asino diede un colpo al vetro della finestra, che si frantumò, e con un balzo entrarono in casa.
I briganti, terrorizzati da quel frastuono infernale, credettero che fosse entrato in casa uno spettro maligno e se la diedero a gambe, scappando di corsa nel bosco.
Finalmente l’asino, il cane, il gatto e il gallo avevano di che mangiare a sazietà. Dopo che ebbero riempito per bene le loro pance, decisero che era giunta l’ora di dormire.
Spensero la luce. L’asino si sistemò fuori casa vicino al letamaio, il cane dietro la porta sul retro, il gatto nella calda cenere del camino e il gallo sulla trave più alta del tetto.
Intanto i briganti, nascosti nel bosco, vedendo che nella casa era tutto buio, decisero di tornare a riprendersi il loro bottino nascosto in un baule. Il più fifone tra loro fu estratto a sorte per andare a controllare se nella casa fosse tutto tranquillo.
Il brigante fifone entrò senza far rumore, e volendo accendere una lampada accostò un fiammifero vicino ai carboni ardenti del camino.
Ma quelli che credeva essere carboni ardenti, erano in realtà gli occhi del gatto, sfavillanti al buio!
Il gatto, profondamente infastidito, gli saltò addosso graffiandogli tutta la faccia.
Il brigante si spaventò a morte e cercò di fuggire dalla porta sul retro, dove inciampò nel cane che prontamente lo morse ad una gamba.
Sempre più terrorizzato, cercò allora di attraversare il cortile passando per il letamaio dove, svegliato dal trambusto, lo stava aspettando l’asino, che gli sferrò un bel calcio nel sedere.
Il gallo, svegliato di soprassalto, gridò a squarciagola “chicchirichì!”. Il brigante, sgomento, scappò via di corsa nel bosco e tornò a raccontare ai suoi compari:
– Nella casa c’è un’orribile strega che mi ha graffiato tutta la faccia! E poi sulla porta c’è un uomo col coltello che mi ha ferito alla gamba! E nel cortile c’è un mostro che mi ha colpito con un bastone di legno! E in cima al tetto c’era un giudice che diceva “portatemi quel brigante!”.
Tutti i briganti si guardarono in faccia atterriti, e si dissero che non valeva la pena rischiare la vita per il bottino nascosto nella casa. E così fuggirono via e non si fecero mai più vivi.
Intanto i quattro musicanti di Brema, contenti di aver finalmente trovato un posto tutto per loro, non vollero più andare a Brema a far parte della banda, ma restarono per tutta la vita in quella comoda casetta.
🖌 scarica il disegno da colorare dei musicanti di Brema! 🎨
Clicca sull’immagine per scaricare il PDF pronto da stampare e colorare!
I musicanti di Brema 🐎🐕🐈🐓 storia breve
C’era una volta un asino troppo vecchio per lavorare.
Siccome il padrone voleva liberarsi di lui, decise di scappare e andare a Brema in cerca di fortuna: avrebbe suonato nella banda cittadina.
Lungo la strada incontrò un cane.
Il cane era troppo vecchio per andare a caccia, e il padrone voleva liberarsene.
– Vieni con me a Brema, entreremo nella banda! – disse l’asino. E il cane lo seguì.
Lungo la strada i due incontrarono un gatto
Il gatto era molto vecchio, e quel giorno aveva pure graffiato il sofà di casa. La sua padrona voleva liberarsene. – Vieni con noi a Brema, entreremo nella banda! – disse l’asino. E il gatto li seguì.
Poco dopo incontrarono un gallo. Siccome era vecchio, la padrona voleva cucinarlo.
– Vieni con noi a Brema, entreremo nella banda! – disse l’asino. E il gallo li seguì.
Ma Brema era lontana, si avvicinava la sera e i nostri amici erano stanchi e affamati.
L’asino notò una casetta nel bosco e decisero di andare a vedere.
Sbirciando da una finestra videro una banda di briganti, seduti ad una tavola riccamente imbandita. I quattro volevano mangiare e prepararono un piano per cacciare via i briganti.
Sulla groppa dell’asino salì il cane, sulla groppa del cane salì il gatto e sulla groppa del gatto salì il gallo.
Iniziarono a fare un gran baccano: l’asino ragliava, il cane abbaiava, il gatto miagolava e il gallo cantava a squarciagola.
Poi, con un balzo, entrarono in casa.
I briganti, terrorizzati, scapparono nel bosco.
I nostri amici mangiarono a sazietà e poi andarono a dormire, sistemandosi in giro per la casa.
I briganti, però, volevano riprendersi il bottino e mandarono uno di loro a controllare la situazione.
Ma una volta dentro il brigante venne graffiato dal gatto, morso dal cane e prese un calcio dall’asino mentre il gallo gridava “chicchirichi!!
Allora fuggì e raccontò ai compari di aver incontrato una strega, un assassino, un mostro e un giudice! I briganti decisero quindi di andarsene per sempre.
Alla fine i quattro amici non andarono più a Brema ma decisero di vivere in quella casa per il resto dei loro giorni, felici e contenti.
Carlo si arrabbia per tutto, per la colazione troppo calda fatta dalla mamma, per gli amici che secondo lui non sanno giocare a pallone, per i sassi che gli entrano nelle scarpe ecc. ecc. senza mai godersi la vita per quella che è.
Ma ci penserà un fiore a fargli cambiare punto di vista…
Carlo impara a non arrabbiarsi 😡
C’era un tempo, al posto dei grandi edifici e delle strade trafficate, una bella e tranquilla campagna adornata da tanti fiori selvatici che ne profumavano l’aria; qui abitava Carlo, un ragazzino che, nonostante avesse per sé tanti docili animali, amici con cui giocare e la fortuna di vivere in quell’incantevole paesaggio bucolico, non riusciva mai ad arrivare a sera senza che qualcuno l’avesse fatto arrabbiare.
Sorse alto il sole in una mattina dal cielo limpido, e baciò tutti i terreni del paesino e infine un raggio, attraverso la finestra, carezzò il volto di Carlo, che piano aprì gli occhi.
Carlo, ancora un po’ intontito, si alzò e si diresse in cucina, dove la sua mamma gli servì la colazione.
“Questo latte scotta, non posso mica berlo!”, esclamò Carlo infastidito. “Potresti soffiarci un po’ su. O più semplicemente, aspettare che si raffreddi”, gli rispose pacatamente la mamma, che ai capricci di Carlo ormai era abituata.
Ma Carlo non ne volle sapere nulla di aspettare, poiché fermamente convinto che la mamma avrebbe dovuto essere meno sbadata e preparare il latte come piace a lui. Così, con la sua lingua troppo lunga e ora anche bruciata, andò a prepararsi per uscire a giocare.
Durante la sua passeggiata, un cane che giocava in un laghetto, si scosse l’acqua da dosso e schizzò accidentalmente Carlo.
“Che cane stupido!”, ancora una volta, il ragazzino s’innervosì.
Queste cose accadevano proprio sempre a lui che non aveva nessuna colpa, e non ci volle molto prima che la prossima seccatura lo raggiungesse: una volta arrivato dai suoi amici iniziò a giocare con loro a calcio, ma Luca, con un tiro sbagliato, fece finire la palla accidentalmente in testa a Carlo.
“Hai idea di quanto mi sarei potuto far male se l’avessi tirata più forte?” “Mi dispiace, non l’ho fatto apposta!” Provava a giustificarsi mortificato Luca. “Se hai una mira così pessima, forse non dovresti proprio giocare col pallone!” Continuava Carlo, infuriato.
Luca provò a farsi perdonare, ma Carlo ormai non ne poteva più, non riusciva mai a trascorrere tranquillamente la sua giornata.
Anche nelle ore successive continuava a sembrargli che tutto gli si ritorcesse contro; durante il tragitto di ritorno un sassolino gli entrò nella scarpa, il vento gli spettinò i capelli, e stava perfino inciampando su un gradino.
“Stupido sasso, stupido vento e stupido gradino!” Carlo ancora non capiva cosa avesse fatto di male per meritarsele tutte.
Carlo tornò a casa spazientito, e inoltre non gradì nemmeno il pranzo: la mamma si ostinava a preparare le verdure, ma lui non le voleva proprio assaggiare.
Carlo riposò, e una volta alzatosi la rabbia per la sua sventurata mattinata era ormai sbollita, ed era deciso, una volta per tutte, ad arrivare al letto col sorriso. Dunque Carlo mise in atto una serie di precauzioni: disse alla mamma cosa avrebbe voluto mangiare a cena, indossò un impermeabile per non bagnarsi o sporcare i propri abiti, un casco per prevenire le pallonate maldestre di Luca e scarpe ben chiuse per evitare che qualche sassolino vi s’intrufolasse all’interno. In più, camminava guardando con la massima attenzione dove metteva i piedi, per evitare di inciampare.
Una volta arrivato dai suoi amici, tutti risero di come Carlo si fosse conciato, ma appena videro che ciò lo stava facendo infuriare per l’ennesima volta, decisero di assecondarlo per evitare inutili litigi.
Carlo, ben protetto, iniziò a giocare con gli altri bambini, ma dopo un po’ dovette fermarsi: faceva troppo caldo per l’impermeabile, il casco era ingombrante e scomodo, le scarpe gli stavano strette e, nel timore d’inciampare, non correva.
Ormai annoiato, Carlo andò via.
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Una rabbia da leone. Ediz. a colori
Calava uno spettacolare tramonto, ma Carlo non lo notò perché percorreva la strada verso casa a testa bassa e sconsolato, nulla riusciva a distrarlo dal pensare a tutto ciò che lo infastidiva, nemmeno quel bel quadro che i colori della natura stavano dipingendo sulle strade che percorreva.
La spina di una rosa graffiò la caviglia di Carlo, lì dove il suo impermeabile non arrivava.
“Stupida rosa!” Disse Carlo, con tono rassegnato, in quanto aveva constatato accettato di essere un bambino sfortunato. “Stupida io?” Parlò con voce dolce la rosa. “Potrò non avere occhi e orecchie come le tue ma ci sento, e soprattutto, vedo più di te”
Carlo rimase stupido, ma incuriosito e anche un po’ scettico, si voltò e chiese alla rosa:
“Tu non hai occhi, come potresti vederci meglio di me?” chiese con aria di sfida. “Sono più saggia di te.” Rispose fieramente la regina dei fiori. “Io resto qui a testa alta, e accolgo tutto ciò che il cielo mi offre. Lascio che il sole mi scaldi e che la pioggia mi bagni, così ho imparato ad apprezzare il loro ciclico alternarsi e a giovare di entrambi, crescendo forte e bella” continuò la rosa. “Ma io non ho bisogno ne di bagnarmi ne della luce del sole, non sono un fiore!” Disse un po’ deluso Carlo. “Certo, ma ti sforzi tanto nel creare tua pace, non sarebbe più facile accettare che gli eventi indesiderate, che tu lo voglia o meno, a volte accadono? E se ti concentri solo su questi aspetti, non ammirerai mai ciò che invece di bello ti viene offerto, hai mai pensato a quanto sei fortunato per la tua mamma, i tuoi amici e l’incanto che ti circonda?
Carlo rimase in silenzio. Guardò il cielo, la rosa, e rimase a pensare. “Dinanzi a ciò che ti ferisce, la pazienza e l’ottimismo sono disarmanti, e i tuoi problemi così non potranno farti alcun male se non farti crescere più forte, senza che tu abbia bisogno di ripararti tanto” disse per l’ultima volta la rosa, addormentandosi al primo accenno di luna. Carlo percorse la strada di casa guardando ammaliato ciò che aveva intorno, salì di freneticamente i gradini e baciò la mamma, mangiò con gusto e infine andò a dormire col sorriso, nel suo letto che gli parve per la prima volta il più comodo del mondo.
⚜ Fine della fiaba ⚜ fabulinis ringrazia Laura per aver condiviso con tutti noi questa fiaba, afficace per tutti quei bambini che molto spesso si arrabbiano per un non nulla.
Pollicino è tanto piccolo quanto furbo, e riuscirà a salvarsi dall’orco cattivo insieme a tutti i suoi fratelli!
Pollicino è una famosa fiaba di Charles Perrault, tradotta in italiano anche da Carlo Collodi, che narra la brutta avventura di sette fratelli abbandonati nel bosco e catturati da un orco cattivo.
Ma grazie all’astuzia di Pollicino e anche all’aiuto dei magici stivali delle sette leghe, tutto finirà per il meglio e i bimbi potranno far ritorno a casa dalla loro mamma. 😊
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Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Pollicino!
Giornata stancante? Vai di fretta? Abbiamo preparato anche la versione breve di Pollicino!
Pollicino 👦⚪⚪⚪ racconto completo
C’era una volta, tanto tempo fa, un casotto isolato e vicino alla Foresta Nera, dove vivevano un povero boscaiolo, sua moglie e i loro sette figli, tutti maschi.
Era stato un anno di carestia e ultimamente il boscaiolo non riusciva a guadagnare abbastanza da portare cibo a sufficienza per sfamare tutta la famiglia.
Il boscaiolo era un uomo rude e molto irascibile. Una sera, capendo che il giorno successivo non avrebbe avuto di che sfamare se stesso e di conseguenza tutta la famiglia, prese la moglie e le disse:
– Non abbiamo in casa più cibo nemmeno per arrivare a sera. Ho deciso che domani porteremo nel bosco i bambini e li abbandoneremo, così almeno noi due ce la caveremo.
La moglie inorridita per quella dura e crudele sentenza si mise a piangere disperata, cercò di convincere il marito a non abbandonare i loro figli, ma l’uomo fu irremovibile.
I due non si accorsero però che, sotto al tavolo della misera cucina, stava rannicchiato Pollicino, il più piccolo dei loro figli che era talmente minuscolo da potersi nascondere ovunque senza essere scoperto. Pollicino sentendo discutere animatamente i genitori volle scoprire di cosa stavano parlando.
Nel sentire quelle terribili parole, Pollicino che era tanto piccolo quanto intelligente, capì che doveva fare qualcosa per salvare se stesso e i suoi fratelli.
Corse fuori di casa fino al vicino ruscello e iniziò a prendere tanti piccoli sassolini bianchi fino a riempire il tascapane che portava sempre con sé, poi tornò a casa e si mise a dormire nel suo lettino.
Il mattino seguente il boscaiolo e la moglie, presero tutti i loro bambini e li portarono nel bosco con la scusa di farsi aiutare a raccogliere della legna.
I bambini, che non immaginavano le reali intenzioni dei genitori, partirono entusiasti. Tutti tranne Pollicino, che si mise in coda al gruppo.
Pollicino, senza farsi vedere, ogni tanto lasciava cadere sul sentiero uno dei piccoli sassolini bianchi raccolti sul greto del fiume, certo che l’avrebbero aiutato a ritrovare la strada di casa una volta abbandonati nel bosco.
Dopo una lunga camminata fin dentro il cuore della Foresta Nera, il boscaiolo e la moglie dissero ai bambini di fermarsi a raccogliere tutte le frasche e rametti che potevano, mentre loro sarebbero andati a raccogliere legna lì vicino.
– Non muovetevi da qui – disse con voce ferma il loro padre – noi torneremo presto a prendervi.
E così il boscaiolo e la moglie sparirono tra gli alberi della foresta. I bambini che non sospettavano nulla iniziarono felici a fare il loro dovere, finchè non arrivò quasi sera, e i loro genitori non si erano ancora fatti vivi…
Tutti i fratellini a poco a poco iniziarono ad avere paura, poi alcuni di loro iniziarono a piangere, finché non intervenne Pollicino:
– Fratelli miei, non preoccupatevi, io so come riportarvi tutti a casa, seguitemi! – e con sicurezza iniziò a camminare spedito nel bosco seguendo la traccia dei sassolini lasciati a terra.
Prima che il buio impedisse loro di vedere il sentiero, furono di nuovo a casa.
La madre, non appena li vide, corse ad abbracciarli tutti, piena di gioia. Il padre invece sbuffò e inventò la scusa che si erano persi pure loro nella foresta, e non erano più riusciti a ritrovarli.
Ma dopo aver aspettato che tutti i bambini fossero a letto a dormire, il boscaiolo riprese la moglie e le disse nuovamente:
– Non possiamo assolutamente permetterci di mantenere tutti quei bambini, domani li porteremo in un’altro punto della foresta, più lontano ancora, e li abbandoneremo!
La donna spense tutta la gioia che aveva provato nel riabbracciare i suoi piccoli e, chinando il capo, cercò di nascondere le lacrime che scendevano sul suo viso.
Pollicino, che aveva sospettato una nuova decisione del genere da parte del padre, era rimasto sveglio e si era messo ad origliare dall’altra parte della stanza.
Sentendo quelle parole, decise di ritornare al fiume a riempire il tascapane di sassolini, ma purtroppo trovò la porta di casa sprangata e non poté uscire. L’unica cosa che trovò fu un piccolo pezzo di pane raffermo, con quello poteva fare piccole briciole per segnare il sentiero.
Il mattino seguente, con un’altra scusa i genitori presero i loro figli e li portarono ancora più in fondo nella Foresta Nera, in un punto in cui anche la luce faceva fatica a passare tra le fronde degli alberi. E li abbandonarono di nuovo.
Come il giorno precedente, i bambini in un primo momento rimasero sereni, ma non ci misero molto a comprendere che erano stati di nuovo lasciati soli.
Pollicino, sicuro di sé, li radunò tutti e li tranquillizzò dicendo che li avrebbe ricondotti a casa, e si mise a cercare le bricioline che aveva lasciato sul sentiero.
Ma non riuscì a trovarle perché gli uccellini si erano mangiati tutte le bricioline di pane!
Impauriti e disperati i sette fratelli iniziarono a vagare per la foresta. Stava arrivando la sera, quando a Pollicino venne un’idea. Si arrampicò fino in cima ad un albero per vedere meglio la direzione da prendere.
Con sorpresa, vide che poco distante c’era una casa con le luci accese e il comignolo fumante. – Ho trovato una casa fratelli! Andiamo a chiedere ospitalità per la notte! – esclamò Pollicino. E così si incamminarono.
Giunti alla casa, Pollicino bussò. Poco dopo aprì la porta un’orchessa che guardandoli con meraviglia chiese: – Cosa ci fate qui bambini?!
– Ci siamo persi nel bosco, abbiamo freddo e fame e non sappiamo dove passare la notte… – rispose Pollicino. – Ma questa è la casa di un orco ghiotto di bambini, se vi trova vi mangia! – disse preoccupata l’orchessa.
– Moriremo comunque di stenti qui nel bosco se lei non ci aiuta… a questo punto meglio essere mangiati da un orco… – concluse Pollicino.
L’orchessa, impietosita dagli sguardi spauriti dei bambini disse: – …e va bene, entrate, svelti, vi darò da mangiare e vi nasconderò – e così fece.
Poco dopo l’orco rientrò a casa annusando l’aria con soddisfazione: – Senti senti che bell’odorino di bambini paffuti e grassottelli che c’è nell’aria… moglie, volevi farmi una sorpresa? – e si precipitò subito ad aprire la porta del ripostiglio dove erano nascosti tutti i fratellini.
L’orchessa tentennante rispose: – … sì caro mio, ma li mangerai domani, per stasera ti ho già preparato un’abbondante cena… L’orco sorrise beffardo e si mise a cenare.
L’orchessa prese Pollicino e i suoi fratelli e li accompagnò a dormire.
Nella camera erano presenti due enormi letti, in uno stavano dormendo le sette figlie degli orchi, nell’altro avrebbero dormito i sette fratelli.
Le piccole figlie degli orchi erano amate dal loro padre come fossero principesse, tanto che ognuna di loro aveva in testa una graziosa coroncina intrecciata. Pollicino notò la cosa e la tenne a mente.
Dopo averli messi tutti a letto l’orchessa chiuse la porta della stanza. Pollicino aveva un brutto presentimento e chiese ai suoi fratelli di scambiare i loro berretti con le coroncine delle piccole orchette.
Le preoccupazioni di Pollicino erano ben fondate perchè, quando ormai stavano tutti dormendo, sentì aprirsi piano la porta della stanza. Era l’orco che nel buio era venuto a prenderli!
L’orco ben sapeva che le sue bimbe portavano una coroncina in testa, quindi nel buio si mise a tastare le testoline dei sette fratelli, e sentendo le coroncine si spostò spedito verso l’altro letto, aprì un sacco e credendo di prendere i bambini, vi gettò dentro invece tutte le sue figlie. Poi uscì dalla stanza.
Pollicino svegliò i suoi fratelli. – Svelti! Svelti! E’ il momento di scappare! I bimbi fuggirono via dalla finestra, per fortuna c’era la luna piena ad illuminare il sentiero nella foresta.
Non passò molto tempo che l’orco, aprendo il sacco, si accorse di aver preso per sbaglio le sue bambine. Infuriato come non mai si infilò i magici stivali delle sette leghe e partì all’inseguimento di Pollicino e i suoi fratelli.
Gli stivali delle sette leghe consentivano di fare decine di metri per ogni passo fatto, e in breve l’orco si era avvicinato moltissimo a Pollicino e i suoi fratelli senza però raggiungerli.
Purtroppo gli stivali erano tanto portentosi quanto stancanti e l’orco, dopo aver corso per alcuni minuti, si fermò stremato a riposare appoggiato al tronco di un albero, e siccome era notte fonda, si addormentò.
Pollicino, sentendo russare sonoramente l’orco, decise di rubargli gli enormi stivali e indossarli. Siccome erano stivali magici si adattarono subito ai piccoli piedi di Pollicino. – Fratelli ho avuto un’idea, aspettatemi qui! – disse, e poi si precipitò a casa dell’orchessa.
– Signora orchessa, è successa una disgrazia! – gridò Pollicino – suo marito l’orco è stato rapito dai banditi, e se non avranno tutto il vostro oro, lo uccideranno! L’orchessa senza farselo ripetere due volte prese tutto quello che aveva in casa e lo consegnò a Pollicino, che corse di nuovo dai suoi fratelli.
– Con tutto quest’oro e con questi stivali non avremo più preoccupazioni fratelli miei! – disse entusiasta Pollicino. Tutti i suoi fratelli gli fecero festa.
Ripresero il cammino verso casa, dove arrivarono alle prime luci dell’alba.
Entrando Pollicino trovò la loro madre che piangeva disperata. – Mamma, siamo tornati! – esclamò. La madre si voltò e corse ad abbracciarli tutti quanti, riempiendoli di baci.
Pollicino chiese dov’era il loro padre e la madre raccontò loro che avevano litigato furiosamente a causa del loro abbandono, così lui aveva deciso di andarsene via per sempre, in cerca di fortuna da qualche altra parte.
I bambini mostrarono alla madre tutto l’oro sottratto agli orchi e Pollicino, il giorno stesso, si presentò dal re, ottenendo un incarico come messaggero privato grazie agli stivali delle sette leghe.
La madre era incredula che le loro sorti potessero essere cambiate così tanto in così poco tempo, ma era felice di poter essere riunita ai suoi bambini, e la loro famiglia visse per sempre felice e contenta.
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Pollicino 👦⚪⚪⚪ storia breve
Pollicino era l’ultimo di sette fratelli. La sua famiglia era poverissima e, una sera, sentì che il padre voleva abbandonare i bambini nel bosco perchè non avevano abbastanza cibo per tutti.
Allora corse al ruscello e raccolse tanti sassolini, poi tornò a letto.
Il mattino seguente i genitori portarono i bambini nel bosco, ma Pollicino, senza farsi vedere, lasciava cadere i sassolini, segnando la strada di casa.
Dopo un po’, il boscaiolo disse ai bambini di fermarsi e di aspettare i genitori. Ma, quando arrivò la sera, i genitori ancora non erano tornati e i bambini avevano molta paura. Ma Pollicino, seguendo la scia dei sassolini, riportò tutti a casa.
Quella sera però sentì che il padre li avrebbe abbandonati di nuovo, e decise di raccogliere altri sassolini. Purtroppo la porta di casa era chiusa e al posto dei sassolini prese un pezzetto di pane per farne briciole da lasciare sul sentiero.
Il mattino seguente i genitori portarono i bambini ancora più lontano nel bosco, e li abbandonarono di nuovo. Pollicino, però, non riuscì a riportarli a casa perché gli uccellini avevano mangiato tutte le briciole lasciate sul sentiero!
I bambini erano disperati, ma Pollicino, arrampicatosi su un albero vide una casa. – Andiamo a chiedere ospitalità! – esclamò.
Lì incontrarono un’orchessa, che non voleva accoglierli perché suo marito l’orco era ghiotto di bambini. Ma alla fine, impietosita, li sfamò e li nascose.
Quando l’orco arrivò, annusando l’aria e sentendo odore di bambini, aprì subito il ripostiglio e trovò i fratellini dicendo di volerli mangiare.
Ma l’orchessa disse: – Li cucinerò domani! – servì la cena all’orco e accompagnò i bambini a dormire. Nella camera c’erano due letti, uno era per le sette figlie degli orchi, ognuna con in testa una coroncina, nell’altro avrebbero dormito i sette fratelli.
Non appena l’orchessa se ne andò, Pollicino scambiò i berretti con le coroncine delle orchette.
Poco dopo la porta della stanza si aprì: era l’orco, venuto a prenderli!
L’orco tastò le testoline dei fratelli ma, sentendo le coroncine, li lasciò lì e gettò in un sacco le sue figlie. Poi uscì.
– Scappiamo! – disse Pollicino e i bimbi fuggirono.
Quando l’orco si accorse di aver sbagliato, infilò gli stivali delle sette leghe e partì all’inseguimento dei bambini.
Con quegli stivali poteva fare passi lunghissimi e stava raggiungendo Pollicino e i suoi fratelli. Però era anche molto stanco, si fermò per riposare un attimo ma si addormentò.
Pollicino indossò gli stivali e tornò dall’orchessa. – l’orco è stato rapito dai banditi! – gridò – se non riceveranno oro, lo uccideranno! L’orchessa consegnò tutto quello che aveva a Pollicino, che tornò dai fratelli e li riportò a casa.
Quando la madre li vide, li abbracciò tutti. I bambini mostrarono l’oro e Pollicino divenne messaggero del re, grazie agli stivali delle sette leghe.
Da quel momento la loro famiglia visse per sempre felice e contenta.
Per salvarsi dal lupo cattivo non bisogna essere pigri, ma bisogna impegnarsi e fare le cose fatte per bene, e questo i tre porcellini lo impareranno sicuramente!
I 3 porcellini è una fiaba classica che si racconta ai bambini per una ragione molto valida, non solo insegna a stare attenti al lupo cattivo, ma anche a fare le cose per bene e senza fretta.
L’unica casetta che infatti resiste alla furia del lupo è quella costruita con calma e con solidi e resistenti mattoni!
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Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare dei tre porcellini!
Giornata stancante? Vai di fretta? Abbiamo preparato anche la versione breve dei tre porcellini!
I tre porcellini 🐷🐷🐷 storia completa
C’erano una volta tre porcellini, Timmy, Tommy e Gimmy che abitavano tutti ancora nella casa della mamma.
Un giorno la mamma disse loro – siete ormai grandicelli ragazzi miei, penso sia ora che prendiate ognuno di voi la vostra strada e costruiate ognuno la propria casetta!
I tre porcellini, seppur a malincuore, sapevano che era la cosa giusta da fare, erano diventati finalmente grandi e così si fecero forza e prepararono ognuno il proprio bagaglio.
Timmy fece un fagotto con tutti i suoi dolci e il flauto che amava tanto suonare. Tommy riempì di giocattoli una borsa assieme al suo caro violino. Gimmy invece preparò la sua cassetta degli attrezzi con tutto ciò che gli sarebbe servito per costruire una solida casetta.
Così si prepararono, salutarono la mamma che augurò loro buona fortuna, e si incamminarono allegri e felici per il sentiero. – Fate attenzione al lupo cattivo! – si raccomandò tanto la mamma mentre li salutava con una lacrimuccia agli occhi.
I tre porcellini sorrisero, la salutarono ancora e proseguirono nel loro cammino. Ma dalla collina, nascosto tra i cespugli, qualcuno stava osservando la scena, qualcuno a cui piacevano tanto i porcellini, soprattutto con contorno di patate arrosto… era il Lupo Cattivo!
Dopo un po’ che i tre porcellini camminavano allegramente Gimmy disse: – Io mi fermerò qui per costruire la mia casetta, qui vicino c’è un ruscello e questi begli alberi mi faranno ombra nei mesi caldi. – Va bene – risposero gli altri due – noi continuiamo a camminare! Gimmy li salutò e cominciò a costruire la sua casetta.
Poco dopo Anche Tommy decise di fermarsi – io costruirò la mia casetta qui, dove ci sono tutti questi rami di legno già pronti per essere tagliati, così costruirò la mia casetta di legno! – Va bene fratellino mio, io proseguo sul sentiero, a presto!
Timmy quindì salutò Tommy e continuò a camminare, finché non vide un bel covone di paglia dorata essiccata al sole. – Potrei costruire la mia casetta con quella paglia, ci metterei pochissimo così poi potrei subito andare a giocare! – disse, e così fece.
In quattro e quattr’otto, con qualche rametto qua e là, la casetta di paglia era pronta, così potè subito uscire in giardino e mettersi a suonare il suo amato flauto.
Anche Tommy ormai aveva ultimato la sua casetta. Non era molto robusta perché per fare presto e poter andare a divertirsi nei prati, aveva deciso di inchiodare le assi di legna in fretta e furia, giusto per arrivare al tetto e ripararsi dalla pioggia in caso di intemperie. Non appena finì, prese il violino e cominciò a suonare.
L’ultimo a finire il suo lavoro fu Gimmy, che lavorò fino a sera per costruirsi la sua robusta casetta di mattoni con una bella porta in legno e una grossa serratura. Ci fece perfino un bel caminetto, per non patire il freddo nelle lunghe giornate invernali. Solo allora si godette il meritato riposo.
Il giorno seguente, il Lupo Cattivo, che aveva spiato i tre porcellini per tutto il giorno precedente, si presentò alla casetta di paglia di Timmy e disse con la sua vociona: – Porcellino, porcellino, posso entrare un momentino?
Ma Timmy, che si ricordava bene delle parole della mamma guardò fuori dalla finestra e disse: – Non sono mica matto! Tu sei il Lupo Cattivo! – e chiuse anche la finestra pensando così di essere al sicuro.
Ma il Lupo Cattivo si mise a ridere e preso un gran respiro si mise a soffiare così forte sulla casetta di Timmy, che la paglia volò via, e della casetta non rimase nulla… Timmy corse via più forte che poteva e raggiunse Tommy nella sua casetta di legno.
– Il Lupo Cattivo con un gran soffio ha fatto volar via la mia casetta! – Non ti preoccupare – rispose Tommy – puoi rimanere nella mia casetta di legno.
Ma poco dopo il Lupo bussò anche lì: – Porcellino, porcellino, posso entrare un momentino? I due capirono subito che si trattava del Lupo Cattivo e risposero in coro: – Non siamo mica matti! Tu sei il Lupo Cattivo!
Ma il Lupo Cattivo si mise a ridere e, preso un gran respiro, si mise a soffiare così forte che anche la casetta di Tommy, con le assi di legno inchiodate in tutta velocità, volò via…
Timmy e Tommy corsero via a perdifiato e andarono da Gimmy, che li accolse subito. – Tranquilli fratellini miei, questa è una solida casa di mattoni, e il Lupo non riuscirà a spazzarla via.
Infatti poco dopo arrivò il Lupo Cattivo. – Porcellino, porcellino, posso entrare un momentino? – Non siamo mica matti! – risposero i tre in coro.
Ma il Lupo Cattivo si mise a ridere e, preso un gran respiro, si mise a soffiare forte, ma così forte che… non successe nulla. La casetta di mattoni era ancora lì.
Il lupo allora provò e riprovò, ma niente, neanche uno scricchiolio. – Entrerò dal camino! – disse, e con un balzo era già sul tetto. Gimmy capì cosa aveva in mente di fare il Lupo e quindi preparò un gran pentolone di acqua bollente sul fuoco del camino, così quando il Lupo Cattivo si calò giù dal camino finì dritto in pentola!
Il Lupo gridò dal dolore e scappò via su per la canna fumaria del camino con la coda tutta scottata!
Da quel giorno nessuno dei 3 porcellini vide mai più il Lupo Cattivo. Anche Timmy e Tommy decisero di rimboccarsi le maniche e costruire ognuno una bella casa di mattoni proprio accanto a quella di Gimmy, così tutti i giorni potevano suonare e ballare:
“Siam tre piccoli porcellini siamo tre fratellini. Mai nessuno ci dividerà tra-lalla-la-là”
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I tre porcellini 🐷🐷🐷 fiaba breve
C’erano una volta tre porcellini, Timmy, Tommy e Gimmy che abitavano con la mamma. Un giorno la mamma disse – ormai siete grandi, è ora che ciascuno costruisca la propria casetta! I porcellini, a malincuore, prepararono i bagagli e partirono.
Timmy prese il suo flauto. Tommy raccolse il suo violino. Gimmy invece prese la sua cassetta degli attrezzi. Salutarono la mamma e si incamminarono allegri. – Fate attenzione al lupo cattivo! – si raccomandò la mamma mentre li salutava.
E infatti, nascosto sulla collina, qualcuno stava osservando la scena… era il Lupo Cattivo!
Dopo aver camminato un po’, Gimmy disse: – Io mi fermerò qui per costruire la mia casetta di mattoni.
Poco dopo anche Tommy decise di fermarsi: – io costruirò la mia casetta qui, con questo legno! E iniziò a inchiodare le assi di legno alla bell’è meglio, finito il lavoro prese il violino e cominciò a suonare.
Timmy proseguì, finché non trovò dei gran covoni di paglia con cui in fretta e furia costruì la sua casetta e uscì subito a suonare il flauto.
Gimmy invece lavorò a lungo, ma alla fine costruì una robusta casetta di mattoni. Ci fece persino un camino, per non avere freddo d’inverno. Solo allora si prese il meritato riposo.
Il giorno seguente, il Lupo Cattivo si presentò alla casetta di paglia di Timmy e disse: – Mi fai entrare, porcellino? Ma Timmy, ricordando le parole della mamma, rispose: – Fossi matto! Tu sei il Lupo Cattivo! – e chiuse la finestra.
Ma il Lupo, preso un gran respiro, soffiò così forte che la casetta di paglia volò via e Timmy scappò veloce da Tommy che lo accolse nella sua casetta di legno.
Ma poco dopo il Lupo bussò anche lì: – Mi fai entrare, porcellino?
I due gridarono: – Fossimo matti! Tu sei il Lupo Cattivo! Ma il Lupo, preso un gran respiro, soffiò così forte che la casetta di legno volò via e Timmy e Tommy fuggirono veloci da Gimmy che li accolse nella sua solida casa di mattoni.
Poco dopo arrivò il Lupo Cattivo. – Mi fai entrare, porcellino? – No! – risposero i tre in coro. Ma il Lupo, preso un gran respiro, soffiò così forte che… non successe nulla. La casetta di mattoni era ancora lì.
Il lupo provò e riprovò, ma niente. Il Lupo allora provò a entrare dal camino, ma Gimmy aveva messo un pentolone d’acqua a bollire sul fuoco e il Lupo scendendo giù ci cadde dentro!
Il Lupo scappò via urlando dal dolore e nessuno lo vide mai più. Anche Timmy e Tommy costruirono una casa di mattoni e tutti e tre suonavano e ballavano insieme:
“Siam tre piccoli porcellini siamo tre fratellini. Mai nessuno ci dividerà tra-lalla-la-là”
Cappuccetto Rosso, per salvarsi dal Lupo Cattivo, avrebbe dovuto ascoltare meglio i consigli della mamma…
Cappuccetto Rosso per raggiungere più in fretta la nonna prende la scorciatoia per il bosco, e ben presto si ritrova in mezzo ai guai…
Cappuccetto Rosso è la fiaba che mette in guardia dall’ascoltare e credere alle parole dei “lupi cattivi” che in realtà vogliono solo farci del male.
Spesso i bambini, nella loro purezza, sottovalutano i consigli di mamma e papà nello stare in guardia dagli sconosciuti, con questa fiaba potrete insegnarglielo in modo gentile e sereno.
Siccome non ci piace fare male agli animali, nella nostra versione scritta da fabulinis il lupo cattivo non fa una brutta fine 😉
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Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Cappuccetto Rosso!
C’era una volta una bimba tanto carina. Tutti le volevano bene, specialmente la nonna che la coccolava e passava sempre un sacco di tempo con lei. Un giorno la nonna le regalò una mantellina di velluto rosso e, siccome i suoi regali erano importantissimi, non voleva mai toglierla. In paese iniziarono quindi a chiamarla Cappuccetto Rosso.
La nonna però si ammalò, e un giorno la mamma di Cappuccetto Rosso disse alla bimba: – La nonna è debole e malata. Portale questa focaccia e questa tisana alle erbe, così si rimetterà in forze. Salutala per me, e mi raccomando: segui la strada che attraversa i campi di grano e non entrare nel bosco, altrimenti rischi di finire nei guai. – Sì, mamma, farò come mi dici – promise la bimba alla mamma, dandole un bacio.
Ma la nonna abitava in una casetta a una mezz’ora buona di cammino dal villaggio, e Cappuccetto rosso sapeva che prendendo la scorciatoia dentro il bosco sarebbe arrivata prima. “Cosa potrà mai succedermi? Ho fatto tante volte quel sentiero in compagnia del papà” pensò la bimba. Cappuccetto Rosso, quindi, prese la scorciatoia. Camminava con passo spedito e, man mano che andava avanti, il bosco diventava sempre più fitto e buio.
Finché ad un certo punto, proprio in mezzo alla strada, incontrò un lupo che sembrava quasi la stesse aspettando. Cappuccetto Rosso non ebbe paura: non sapeva che quella era una bestia tanto cattiva. – Buon giorno bimba – disse il lupo. – Buon giorno a te – rispose Cappuccetto Rosso – Dove vai così di fretta? – Vado dalla nonna che è malata. – E che cos’hai nel cestino? – continuò il lupo. – Una tisana e una focaccia, la aiuteranno a guarire – – Ma che brava bimba! Ma dimmi, dove abita la tua nonna? – – Vicino al mulino, dove ci sono gli alberi di noccioli – disse Cappuccetto Rosso.
Il lupo pensò: “Questa bimba è proprio ingenua…” – Se vuoi ti faccio compagnia fino dalla nonna, qui nel bosco si possono fare dei brutti incontri sai? Cappuccetto Rosso annuì e sorrise felice. Il lupo iniziò a camminarle a fianco ma sembrava pensieroso, finché all’improvviso sorrise tra sé e sé. Aveva escogitato un diabolico piano.
Aspettò di arrivare appena fuori dal bosco e le disse: – Ecco bimba mia, da qui in avanti puoi continuare da sola, spero di rivederti presto! – Grazie mille signor lupo, a presto! – rispose Cappuccetto Rosso. – Ma guarda quanti bei fiori ci sono laggiù! – disse il lupo – non sarebbe bello raccoglierne un mazzo per la nonna? Cappuccetto Rosso guardò i fiori: erano stupendi e corse a raccoglierne un bel mazzetto per la nonna.
Il lupo approfittò del momento di distrazione di Cappuccetto Rosso e corse dritto alla casa della nonna. – Chi è? – chiese la nonna quando sentì bussare alla porta. – Cappuccetto Rosso, nonna. Aprimi! – disse il lupo con la vocina più dolce che poteva. – Devi solo spostare il chiavistello – rispose la nonna, – io sono troppo debole per alzarmi. Il lupo spostò il chiavistello ed entrò, andò dritto verso il letto della nonna e… gnam! se la mangiò in un sol boccone. Poi indossò i suoi vestiti e la sua cuffia e si nascose sotto le coperte ad attendere.
Cappuccetto Rosso, dopo aver raccolto un bel mazzolino di fiori, corse dalla nonna. Stranamente trovò la porta spalancata e, entrando piano piano nella stanza, ebbe una sensazione così cupa che pensò: “c’è un silenzio strano qui oggi, mi vien quasi voglia di andare via… davvero strano, di solito sto così volentieri con la nonna…” Si avvicinò al letto e spostò la coperta: la nonna aveva la cuffia abbassata sulla faccia e aveva un aspetto strano.
– Nonna, che orecchie grandi che hai! – disse la bimba – Per sentirti meglio, bambina mia! – rispose il lupo – E che occhi grossi che hai! – Per vederti meglio, bambina mia! – Nonna, ma anche le tue mani sono così grandi! – disse Cappuccetto, sempre più spaventata. – Per afferrarti meglio! – iniziò a ghignare il lupo. – Ma, nonna, e che bocca spaventosa che hai! – gridò Cappuccetto Rosso. – Per divorarti meglio! – E dicendo queste parole, il lupo balzò dal letto e… gnam! Mangiò la povera Cappuccetto Rosso in un sol boccone. Poi, con la pancia bella piena, il lupo si rimise a letto, si addormentò e incominciò a russare sonoramente.
Solo che la nonna e Cappuccetto Rosso, dentro la pancia del lupo, stavano veramente strette. Cappuccetto Rosso allora iniziò a fare il solletico dentro la pancia del lupo, e subito anche la nonna cominciò a farlo. Il sonno del lupo iniziò a essere molto disturbato, si girava di qua e di là dal fastidio, finché non si svegliò di soprassalto. Iniziò a tossire così forte che anche le mura della casa tremavano, finché fece due colpi talmente forti che dalla bocca gli uscirono fuori sia Cappuccetto Rosso che la Nonna!
Caso vuole che proprio il quel momento passasse di lì il cacciatore, il quale, sentito tutto quel trambusto, non poté fare a meno di affacciarsi alla finestra a guardare tutta la scena. Il lupo, che si teneva la pancia con le mani per il dolore provocatogli dai forti colpi di tosse, quando vide il cacciatore affacciarsi alla finestra, gridò di paura e corse veloce fuori dalla casa della nonna.
Il cacciatore non fece in tempo ad imbracciare il fucile che il lupo era ormai già lontano. Ma andava bene così, lo avrebbe acciuffato un altro giorno. L’importante era che Cappuccetto Rosso e la nonna stessero bene. Le due, un po’ frastornate per l’accaduto, stavano comunque bene e ringraziarono il cacciatore per aver fatto scappare il lupo.
Poi Cappuccetto Rosso guardò la nonna, e si scusò dicendole: – Scusami nonnina, è tutta colpa mia se il lupo è entrato in casa tua e ha cercato di mangiarci… sono stata una sciocca ad inoltrarmi nel bosco da sola, e a fidarmi di un lupo cattivo. Prometto che non lo farò mai più!
La nonna, visto che Cappuccetto rosso aveva compreso bene i suoi sbagli, la abbracciò forte forte, la baciò in fronte e le disse di ascoltare sempre quello che diceva la mamma, che era solo per il suo bene. Così Cappuccetto Rosso tornò a casa, ma per la strada che attraversava i campi di grano, mica attraverso il sentiero del bosco!
La cicala balla e canta mentre la formica fa provviste per l’inverno che sta per arrivare… chi delle due arriverà meglio preparata all’arrivo del freddo?
La cicala e la formica è una favola famosissima, scritta da Esopo e arrivata a noi grazie a Jean de La Fontaine.
La morale della favola ci insegna che, se si vuole arrivare preparati ad affrontare i momenti difficili, è necessario prima impegnarsi!
Noi di fabulinis ti abbiamo preparato la nostra versione, ma ci piace citare anche Gianni Rodari che ha una diversa “visione” della morale della favola:
Chiedo scusa alla favola antica se non mi piace l’avara formica io sto dalla parte della cicala che il più bel canto non vende… regala!
Guarda la videofiaba raccontata da Silvia
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare della cicala e la formica!
C’era una volta un’estate calda calda, e una cicala a cui non piaceva né sudare né far fatica. L’unica cosa che le piaceva fare era cantare tutto il giorno.
Sotto il ramo dell’albero dove stava sdraiata comoda la cicala, passava avanti e indietro una formica, tutta indaffarata a portare sulla sua schiena un sacco di cose: pezzetti di cibo, sassolini, legnetti ecc. La cicala, vedendo quanto era sudata la formica, iniziò a prenderla in giro: – Vieni quassù con me, signora formica. Fa più fresco e, mentre ti riposi, cantiamo insieme qualche canzone – e, così dicendo, iniziò a cantare.
– Grazie mille per l’invito, signora cicala, ma io sono molto indaffarata a mettere via provviste per l’inverno e a sistemare la mia casetta per proteggermi dal freddo, quando arriverà – e, così dicendo, continuò ad andare avanti e indietro per il prato, indaffarata. – Ma l’estate è ancora lunga – continuò la cicala – e l’inverno ancora lontano. Non preoccuparti adesso, ci sarà tempo più avanti per mettere via le provviste!
La formica scosse un po’ la testa e continuò imperterrita il suo lavoro, senza più badare alla cicala. – Fai come vuoi, formica mia. Io intanto mi godo questa meravigliosa giornata standomene qui rilassata a riposare – e la cicala riprese a cantare un’altra canzone.
Ma i giorni e poi i mesi passarono veloci, ed ecco che, puntuale, arrivò l’inverno, col suo freddo e col suo ghiaccio. La cicala vagava per i campi e i prati arrabattandosi come poteva, recuperando qua e là qualcosa da mangiare e riparandosi dal freddo dove capitava.
Vagando vagando, una sera in cui il buio era sceso molto presto, incontrò una piccola casetta con la finestrella illuminata. La cicala aveva tanta fame e tanto freddo, così bussò alla porta. La porta si aprì ed uscì la formica. Quella era la sua casetta costruita con fatica durante tutta l’estate, dall’interno si sentiva arrivare un bel calduccio e un odorino di cibo molto invitante.
– Buonasera signora cicala, cosa ti porta qui da me? – Buonasera signora formica – rispose tutta infreddolita la cicala, tremando nel leggero cappottino che aveva addosso. – Ho freddo, ho fame e non ho un tetto dove passare la notte.
La formica guardò la cicala con compassione. – Ah signora cicala, come ricordo bene le calde giornate d’estate in cui, mentre io faticavo per metter via provviste e costruirmi una casa, tu, beata sul tuo ramo al fresco e all’ombra, cantavi cantavi e cantavi… Beh, facciamo così: entra, per questa volta ti aiuterò e ti darò da mangiare e un letto per dormire. Tu però prometti che la prossima estate mi aiuterai a far provviste.
La cicala, imparata la lezione, promise che avrebbe fatto la brava e ringraziò di cuore la formica per l’aiuto.
Morale: chi non fa nulla, non ottiene niente, è per questo che bisogna impegnarsi.
Hänsel e Gretel, con l’astuzia e un pizzico di furbizia, vincono anche contro la strega cattiva!
Hänsel e Gretel è una fiaba dei fratelli Grimm molto famosa per la “Casetta di Marzapane” che serve alla strega cattiva per attirare i bambini che si sono persi nel bosco e cercare poi di mangiarseli, ma questa volta sarà la strega a fare una brutta fine…
🖌 Disegno da colorare 🎨
Alla fine del racconto troverai anche il disegno da colorare di Hänsel e Gretel!
Giornata stancante? Vai di fretta? Abbiamo preparato anche la versione breve di Hänsel e Gretel!
Hänsel e Gretel 👦👧🏡 Racconto completo
C’era una volta, ai margini della foresta della Turingia, una piccola casetta dove vivevano due fratellini, Hänsel e Gretel.
Il loro papà faceva il taglialegna e la loro mamma, oltre ad occuparsi di tutte le faccende domestiche, spesso lo aiutava nel lavoro. Era stato un anno difficile, poche persone avevano avuto bisogno del lavoro del taglialegna, e nelle ultime settimane il cibo sulla loro tavola scarseggiava.
Spesso la sera, Hänsel e Gretel dalla loro cameretta, sentivano il loro povero papà piangere per la paura di non riuscire a guadagnare abbastanza da poter sfamare la sua famiglia.
Hänsel e Gretel si rannicchiavano sotto le coperte, tristi e con gli occhi lucidi. – Dobbiamo fare qualcosa – mormorò Hänsel. – Ma cosa possiamo fare noi due piccoli bambini? – rispose Gretel. Dopo un lungo silenzio di riflessione, Hänsel propose: – Possiamo andare nel bosco insieme al papà e aiutarlo nel raccogliere la legna. – E’ una bella idea – rispose entusiasta Gretel.
Così il mattino seguente i due bambini si presentarono pronti per accompagnare nel bosco il loro papà, che li guardò orgoglioso per aver due bambini così volenterosi. Si incamminarono quindi per il bosco, fino ad arrivare ad una grande catasta di legna. Il papà si fermò e con la sua ascia riprese il lavoro che aveva interrotto il giorno precedente.
Disse ai suoi ragazzi di raccogliere i rami più piccoli e ammucchiarli in un punto lì vicino. I due piccoli iniziarono subito a correre di qua e di là raccogliendo tutti i rami che trovavano per terra. Il papà taglialegna, con la coda dell’occhio, li guardava felice e allo stesso tempo divertito.
Hänsel e Gretel svolgevano il loro compito in maniera molto diligente, finchè ad un certo punto Hänsel gridò: – Guardate, una lepre! Gretel e il loro papà si girarono verso di lui, era proprio una bella lepre che si era fermata sulle due zampe a guardarli incuriosita. – Posso rincorrerla papà? – chiese Hänsel. – Anche io! – aggiunse Gretel Il loro papà li guardò, sorrise e disse: – Va bene, ma non allontanatevi troppo! – “chissà mai che non la acchiappino così stasera mangiamo un bel leprotto arrosto” pensò rimettendosi al lavoro.
I due scattarono subito verso la lepre che immediatamente si mise a correre a zig zag tra gli alberi. Anche Hänsel e Gretel erano veloci ma ben presto la lepre svanì dalla loro vista. I due bambini, senza rendersene conto, per qualche tempo credettero pure di starle dietro, cercando di indovinare la strada che aveva percorso, poi di colpo Gretel si fermò. – Dove siamo Hänsel? – disse con la voce ansimante per la corsa.
Hänsel si fermò anche lui, spaesato, si guardava intorno cercando di ritrovare la direzione da dove erano venuti, ma non riusciva a riconoscere niente intorno a sè, nessun albero, nessun arbusto. – Siamo… siamo… – Hänsel cercava di dire qualcosa di rassicurante alla sua piccola sorellina mentre con lo sguardo perlustrava i dintorni, quando finalmente gli parve di riconoscere uno scorcio familiare – andiamo di là – disse con convinzione.
I due camminarono tra la fitta vegetazione fino ad un tronco abbattuto a terra, lo scavalcarono e si ritrovarono su un piccolo sentiero battuto. I loro cuori si riempirono di sollievo, certi che quel sentiero li avrebbe riportati a casa.
Camminavano spediti, l’uno accanto all’altra, pensando alla lepre sfuggita e alle risate che si sarebbe fatto il papà quando li avrebbe rivisti tornare a mani vuote, finché non arrivarono ad un bivio.
Si guardarono in faccia incerti, poi decisero per il sentiero di destra. Accelerarono il passo e si presero per mano. La giornata stava volgendo al termine, e la grande foresta silenziosa diventava sempre più buia.
Nell’aria iniziava a spargersi uno strano odore dolciastro e senza accorgersene finirono per seguirlo d’istinto. Gretel iniziava ad avere paura – ci siamo persi… – mormorava al fratello, ma quando ormai stavano entrambi perdendo la speranza di riuscire a ritornare a casa, intravidero un grande slargo nella foresta.
Al centro di questo slargo c’era una buffa casetta azzurra, dal tetto rosa confetto e la porta e le finestre cicciotte come salsicce. Hänsel e Gretel si avvicinarono di corsa e quando erano ormai praticamente sulla soglia della porta, si accorsero che l’intera casa era fatta di dolcissimo marzapane!